Il mio nome è Legione

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di Giorgio Vasta

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Ho letto Il mio nome è Legione di Demetrio Paolin durante un viaggio in treno da Torino a Roma. Quando leggo in treno, mentre il treno procede in avanti è come se il tempo si muovesse all’indietro; si contrae e forma una bolla disponibile alla concentrazione. In questo modo, leggendo, ho la possibilità di leggere la storia, quando la storia c’è (e non è indispensabile che ci sia sempre), ma soprattutto di leggere la lingua: che cosa è stato fatto con il lessico e con la sintassi, come si è pensato di costruire le frasi, con quale passo si è scelto di farle procedere, se chi ha scritto ha voluto mettere la linea della lingua in torsione o se invece l’ha modellata come un’antenna rigida o se ancora l’ha lasciata svolgersi morbida come la coda di un gatto quando se ne sta seduto.
La lettura in treno – incapsulata, fetale – mi permette di fare attenzione a questi elementi più di quanto accada quando leggo in casa o per strada. Per fortuna in treno passo molto tempo.

Quello che mi sono detto leggendo il libro di Demetrio Paolin – mentre il corridoio dell’Intercity si riempiva a ogni stazione e il carrello degli snack scorreva ostinato attraverso i corpi – è che stavo leggendo un romanzo nel quale la lingua si comportava come un sismografo che registra e rende visibili i diversi stati di coscienza di chi scrive. Dunque, partendo da una stessa esistenza che in quanto tale non può che essere la sintesi di più esistenze diverse, la lingua era a volte una matassa (ma una matassa logica, persino geometrica), a volte un coltello, altre volte fiocchi di cotone in nevicata. Sempre, però, c’era una sostanza, un denominatore comune trasversale, che forzando la suggestione del titolo mi viene da chiamare “legione”. Nel senso che in ogni frase del libro di Demetrio Paolin c’è la consistenza della testuggine romana, vale a dire di quella formazione bellica che tramite l’opposizione degli scudi verso l’esterno occultava il numero dei soldati coinvolti permettendo loro di contare sull’effetto sorpresa. La testuggine romana procedeva lenta e sicura, inevitabile, i fanti nascosti sotto il carapace composto, una straordinaria capacità di resistenza e di sfondamento. La testuggine era massa, era un ordigno mobile, e i soldati che le davano forma si chiamavano legionari. Nel momento in cui mi sono reso conto che le frasi di Il mio nome è legione arrivavano e restavano nella mia percezione nella forma della testuggine romana, ho cominciato a pensare al libro di Paolin come a un libro che poteva essere intitolato Le mie parole sono legione. E le parole di un romanzo dovrebbero essere sempre, o almeno dovrebbero sempre voler essere, legione.

In Toscana, poi, all’altezza di Massa, ho pensato che il romanzo di Paolin è un romanzo di ricapitolazione, ovvero una di quelle scritture che si generano quando i fantasmi delle cose accadute in concreto o immaginate (e dunque accadute in un altro modo ugualmente concreto) ci stringono d’assedio e sentiamo il bisogno di dare loro una forma, una forma e un luogo, scritture che hanno origine dal sentimento che ci fa comprendere che è necessario fabbricare – adesso – una struttura di parole in grado di produrre condivisione. Se questa struttura non la fabbrichiamo rischiamo la dispersione, la dilapidazione e l’ammutolimento; soprattutto, se non fabbrichiamo questa struttura, perdiamo la possibilità di condividere con gli altri un’esperienza fondamentale: quella di sentire com’è fatto il legame che collega i nostri nuclei con i nuclei delle altre persone.
Nel momento in cui quello che si scrive non muove prima di tutto da una volontà narrativa forte, ovvero da quell’impulso al racconto che prevede come conseguenza naturale la trasformazione dell’impulso originario in trama, in una drammaturgia nella quale organizzare logicamente una serie di fatti, a governare la scrittura sarà una legge diversa, un motore anomalo e radicalmente umano, quello che ci spinge a fare delle nostre parole un luogo in grado di ospitare, appunto, nuclei. Il mio nome è Legione è infatti, per me, non tanto un mezzo di trasporto che si sposta in una specifica direzione quanto un luogo che “ospita” nuclei. Questi nuclei in galleggiamento nell’organismo ospitante della scrittura di Paolin sono nuclei che io riconosco. Li riconosco per ragioni generazionali, temperamentali, persino per ragioni biologiche. Leggendo sento e so che sono i nuclei che mi mettono quotidianamente sotto scacco – il legame con il male, la ricerca di una possibilità di coesistenza con il male, l’esperienza reale e mitica della paternità: dunque, temendoli, a volte anche detestandoli, questi nuclei li accolgo perché parlano di me.

Poco prima di Roma Termini, infine, ho pensato che Il mio nome è Legione è un libro che ha il coraggio della perentorietà. Non si preoccupa, non calcola, non perde tempo a valutare cosa andrebbe fatto. Molto più semplicemente, molto direttamente, fa. Questo per me è importante. Davanti a una certa quantità di libri “manierati”, “ammodo”, che chiedono il permesso, educati fino alla stucchevolezza, timorosi di non corrispondere, tecnicamente, alle aspettative di chi legge (più esattamente alle sue abitudini di lettura), Il mio nome è legione entra in chi lo accoglie con il passo deciso di chi deve fare qualcosa, scompaginando e non rispettando; non gioca a fare il ribelle ma prende la parola e dice. Subito, da subito, senza sprecare tempo, perché sprecare tempo è un errore e può essere imperdonabile.

Arrivato a Roma, il libro chiuso nello zaino, ho pensato che sarebbe bello che Il mio nome è Legione venisse affrontato e letto con la stessa perentorietà con la quale la sua scrittura affronta il lettore. Senza presumere di dover capire in quale tassonomia critica ordinarlo, senza domandargli moderazione e correttezza: con la determinazione del proprio sguardo; con tutto ciò che in noi, mentre leggiamo, è legione.

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3 Risposte to “Il mio nome è Legione”

  1. Al De Santis Says:

    Libro notevolissimo.
    La definizione di Genna di “magnete di sangue umano” rende giustizia al suo senso più profondo, così come questa lucidissima analisi di “lettura” e non solo, da parte di Giorgio Vasta.

  2. patrizia patelli Says:

    E’ un magnete ma è una condanna il sangue che c’è. C’è una pozza di male che ristagna e che chi scrive vorrebbe liberare ma non riesce a uscirne vivo e pompa e pompa e un po’ riesce a mandarne via ma poi ritorna. Per me questo libro è una discesa e una risalita continua dentro spazi che hanno nomi e emozioni ma fisicamente sono costituiti di parole e questo fa notevole il libro di Demetrio, lo fa un libro di confessioni ma di confessioni da Scrittore.

  3. emma Says:

    Questa recensione dimostra come anche la critica possa essere grande letteratura.

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