Otto domande a Nazione indiana

by

di giuliomozzi

[Come ho già segnalato, Nazione indiana sta proponendo “a un certo numero di autori, critici e addetti al mestiere” dieci domande su “la responsabilità dell’autore“. A queste ho risposto anch’io, qui. Dopodiché ci ho pensato su e, a proposito di quelle dieci domande, avrei otto domande da fare a Nazione indiana. Eccole qui].

1. Nazione indiana sostiene che vi sono critici che «denunciano la totale mancanza di vitalità del romanzo e della poesia nell’Italia contemporanea». Quali sono questi «critici»? In subordine: come si riconosce un «critico»? Ovvero: come, tra quanti parlano e scrivono sul romanzo e la poesia nell’Italia contemporanea, si distingue chi è «un critico» da chi non è tale?

2. Quando Nazione indiana parla di «opere di qualità» e di «autori e testi di qualità», di quali opere e di quali autori e testi parla? In quale modo, con quali criteri, ed eventualmente con quali procedure e attraverso quali concorsi ed esami, eccetera, Nazione indiana distingue le «opere di qualità» dalle opere che non sono tali, gli «autori e testi di qualità» dagli autori e dai testi che non sono tali? In subordine: in che cosa consiste la «qualità» delle opere, degli autori e dei testi?

3. Quando Nazione indiana domanda se «le pagine culturali dei quotidiani e dei settimanali rispecchino in modo soddisfacente lo stato della nostra letteratura», qual è il preciso significato che essa assegna qui al verbo «rispecchiare»? (O almeno: è possibile precisare il significato per mezzo di esempi?). Qualunque sia il significato da essa qui assegnato alla parola, Nazione indiana è in grado di spiegare quando e come, ossia in base a quali criteri, essa riterrebbe «soddisfacente» tale «rispecchiamento»?

4. Quando Nazione indiana parla di «buon lavoro» delle case editrici italiane e di «buon livello» di autori, qual è il preciso significato che essa assegna qui all’aggettivo «buono»? Qualunque sia il significato da essa qui assegnato alla parola, Nazione indiana è in grado di spiegare in base a quali criteri essa distingue il lavoro «buono» e gli autori di livello «buono» dal lavoro non «buono» e dagli autori di livello non «buono»?

5. Quando Nazione indiana domanda se «la letteratura, o alcune sue componenti» dovrebbero essere «sostenute in qualche modo», qual è il preciso significato che essa assegna qui al verbo «sostenere»?

6. Quando Nazione indiana domanda se «nella oggettiva e evidente crisi della nostra democrazia […] gli scrittori italiani abbiano modo di dire la loro», qual è il preciso significato che essa assegna qui al sostantivo «scrittori»? Ovvero: con quali criteri Nazione indiana distingue chi è «scrittore» da chi non è tale? In subordine: Nazione indiana ritiene che gli «scrittori», qualunque sia il significato da essa qui assegnato alla parola, abbiano in quanto scrittori, una particolare cosa «loro» da dire? Se sì, quale? Infine: se Nazione indiana ritiene che vi sia una «oggettiva e evidente crisi della nostra democrazia», come spiega essa il fatto che molti cittadini italiani ritengono invece che non vi sia alcuna «crisi» in atto, tantomeno «oggettiva e evidente»?

7. Nazione indiana domanda se vi sia «una separazione tra mondo della cultura e mondo politico». Supponendo che effettivamente esistano un «mondo della cultura» e un «mondo politico», come si può secondo Nazione indiana distinguere tra chi appartiene al «mondo della cultura» e chi non vi appartiene, tra chi appartiene al «mondo politico» e chi non vi appartiene?

8. Quando Nazione indiana domanda se sia «opportuno» che «uno scrittore con convincimenti democratici» collabori con giornali «caratterizzati da stili giornalistici non consoni a un paese democratico […] e che appoggiano apertamente politiche che portano a un oggettivo deterioramento della democrazia», qual è il significato preciso che essa assegna all’aggettivo «opportuno»?

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88 Risposte to “Otto domande a Nazione indiana”

  1. enpi Says:

    😀
    in soldoni, credo sia: come si distinguono i “buoni” dai “cattivi”?
    risposta: ognuno si sceglie i propri – buoni e cattivi.
    e-

  2. Alessandro Raveggi Says:

    Forse sarebbe meglio parlare di Indiani e Cowboy, perché: chi sono i buoni e chi son i cattivi? Chi è fuorilegge e chi dentro la legge? La qualità del cowboy è di saper abitare la frontiera con lo scontro, la qualità dell’indiano è di viverci da sempre. Il cowboy può essere spietato e sordido secondo rendiconto, l’indiano incosciente e feroce a suo modo, senza ragioni. Credo questo sia il punto: un autore oggi, nel sistema a-politico italiano, è un cowboy o un indiano? Le riserve dei poeti sono più importanti delle prigioni dei cowboy in prima pagina? Attenzione, perché alla fine mi pare che i cowboy siano stati sottomessi, magari meno spietatamente degli indiani, ma a loro modo sono scomparsi.

    Sulla 1: Avverto la mancanza di critici letterari non-specialistici -tranne pochi casi-, cioè di critici che siano competenti della situazione attuale, fervente, della poesia italiana e della situazione attuale, incognita, della narrativa italiana.

    Su 2: La qualità è forse il campo magnetico dell’opera, riguarda la sua capacità attrattiva-repulsiva del mondo effimero degli oggetti letterari.

    Su 3: Bisognerebbe chiederci anche: che tipo di accesso ai giornali e quotidiani hanno gli editori e gli operatori? Li vedono come semplici luoghi promozionali oppure pretendono di forzarli al dibattito e alla diffusione?

    Su 4: Sul “buono” pare che ci si accontenti. Ma l’editoria non dovrebbe accontentarsi, almeno dovrebbe rischiare in alcune parti del proprio sterminato catalogo di buonismi.

    Leggerò con attenzione le risposte di Giulio e degli altri autori coinvolti.

    a.

  3. federica sgaggio Says:

    Credo che sia un po’ di più che il bisogno di dividere il mondo in due, buoni di qui e cattivi di là.

    Non so se capita anche ad altri, ma io – per quel poco che può interessare – quando sento la parola «qualità» vorrei capire cosa si intende per «qualità».
    Non è per riaprire dibattiti secolari, però.
    Mi basterebbe che si riconoscesse che la «qualità» è spesso la caratteristica che si riconosce a ciò che viene prodotto da chi fa parte dell’ambiente che consideriamo di riferimento, indipendentemente dalla sua effettiva «qualità», che d’altra parte forse solo il padreterno, se c’è (e io ho qualche dubbio), potrebbe definitivamente stabilire.

    Ho recentemente letto, per esempio, che due dei peggiori difetti dei libri contemporanei consistono nel fatto che essi si avvalgono di una lingua alla cui piena comprensione non è necessario il vocabolario, e nella iattura che essi sviluppino una storia intesa come trama.
    Dal che discende che i libri di qualità – se la mia è una forzatura me ne scuso – sono quelli difficili da capire, e senza trama.
    Cioè, a mio modestissimissimo parere, le lenzuolate solipsistiche e autoreferenziali.

    Passavo da Facebook poco fa, e leggevo che Marco Rovelli rimprovera a Giulio Mozzi la «capziosità».
    Capisco che l’elencazione sortisca un effetto retorico che può essere letto come indulgenza alla capziosità: ma ha senso anche domandarsi cosa vogliano dire le parole. Quelle di Nazione indiana, e anche quelle di Giulio.

    Chi è un critico?
    Chi è uno scrittore?
    Perché uno scrittore ha un ruolo civile?
    Cos’è la qualità?
    Che cos’è, da chi è costituito, il «mondo della cultura»?

    Non sono domande capziose.
    Perché darne per scontato il significato è un’operazione di sostanzialismo intelligente e domandarsi cosa significhino è capziosità?

    Nessuno vuole dire la parola definitiva su questioni così aperte e controverse, credo.
    Però, porca miseria, si potrà dire sommessamente che a volte vale la pena rendersi conto del portato ideologico, esclusivo (nel senso di «escludente») e capzioso – questo sì – di concetti come quello della «qualità», per esempio?

    Si potrà sommessamente dire che costruire piccoli empirei nei quali radunare gli eletti è una procedura che a volte rasenta la creazione di una sottospecie di «società dello spettacolo» esattamente uguale, nei meccanismi ma non nell’estensione topografica, a quella che con furiosa veemenza o con altera degnazione critichiamo in continuazione?

  4. tonino pintacuda Says:

    Assodato che le domande formulate da NI sono malamente impostate, questi dubbi che qui espliciti, erano già palesi nelle tue risposte.

    Ho sempre ammirato il tuo sforzo a chiarir sempre la natura dei termini usati, quasi da novello Socrate ma il linguaggio è fatto anche e soprattutto d’incomprensioni e come diceva qualcuno “il linguaggio è in ordine così com’è”. Segno ne è proprio la generale comprensione delle fatidiche dieci domande, che peccano d’eloquio e di manicheismo culturale. Ma a che pro farlo così platealmente notare?

  5. federica sgaggio Says:

    Scusami, Tonino, se azzardo una risposta sebbene non sia stata interpellata: a che pro tacere, se non per rimanere interni all’ambiente che consideriamo di riferimento?
    In altre parole: a che pro tacere, se non per un’esigenza di tipo genericamente affettivo?

  6. vibrisse Says:

    Perché, Tonino, quelli di Nazione indiana sono, mi piaccia o non mi piaccia, “i miei”; sono persone che stimo; alcuni di loro sono persone che proprio ammiro.

    g.

  7. Alessandro Raveggi Says:

    Concordo con Giulio. Si può dissentire coi propri, è salutare. È necessario.

  8. enpi Says:

    @federica
    “Credo che sia un po’ di più che il bisogno di dividere il mondo in due, buoni di qui e cattivi di là”.

    sì. assolutamente. però, spesso, per molti, è più facile disegnare confini con delle linee rette.
    [“la retta è per chi ha fretta” – CSI, Bolormaa]
    ed è, fra l’altro, una tentazione molto umana.

    “Chi è un critico?
    Chi è uno scrittore?
    Perché uno scrittore ha un ruolo civile?
    Cos’è la qualità?
    Che cos’è, da chi è costituito, il «mondo della cultura»?”

    ma, Federica, le risposte non possono non essere influenzate dal lato [della barricata] al quale si sente di appartenere.
    lo sforzo dovrebbe essere – è – quello di andare oltre le “appartenenze” – così poco chiare, fra l’altro, ora come ora nel nostro Mondo leggero.
    e – a quel punto, sopra le barricate – queste domande, semplicemente, non possono avere risposta.

    ciao,
    e-

  9. vbinaghi Says:

    Una volta uno scrittore mi ha detto che per far parte delle conventicole che contano nella cultura italiana l’importante non è essere di sinistra, ma essere stati.
    Questo sulle appartenenze.
    Sulla qualità, vale più o meno la stessa cosa. Se uno ha scritto un romanzo di successo difficilmente verrà ignorato, anche se l’ultimo libro è una ciofeca.
    Per esempio quando il mitico gruppo di critici (Belpoliti, Cortellessa e company) che compilano l’altrettanto mitica lista Dedalus (ovvero il frutto di letture criticamente avvertite e vergini di servo encomio nei confronti dei big dell’editoria), inserisce tra i primi venti testi narrativi usciti nel medesimo periodo un libro come “Che la festa cominci” di Ammaniti, dimostra di avere un concetto slabbrato della qualità.
    Un libro insulso, inutile, vorrebbe stigmatizzare la volgarità della seconda Repubblica e riesce solo ad aggiungervi un capitolo. Vorrebbe far ridere e tutto intero non vale mezza pagina di Benni. Possibile che “i critici” non se ne siano accorti? Ma si, lo sanno benissimo, ma vuoi fare uno sgarbo così a Repetti e Cesari?

  10. gianni biondillo Says:

    En passant, Valter,
    non ho capito bene l’esempio che fai. Nell’elenco dei lettori del Dedalus c’è anche Giulio, per dire. Sono 140 (mi pare) lettori. NON critici: lettori (che poi sono critici, poeti, scrittori, e altro).
    I nomi che fai, poi, sono sballati. Belpoliti l’ha stroncato il libro di Ammaniti. E Cortellessa ne parla (e scrive) male da anni.
    Nel gruppo dei lettori ci sono anch’io. E io, per dire, NON l’ho votato. Chi l’ha votato? Non lo so. Io ho sempre dichiarato i miei voti.

  11. tonino pintacuda Says:

    @ giulio

    Grazie della gentile e puntuale risposta.

  12. vbinaghi Says:

    En passant, Gianni, excusatio non petita, Se ci si propone come giuria qualificata si accettano (o si respingono) critiche in quanto giuria, non in quanto giurati.
    Se poi tra voi c’è chi non distingue un capolavoro da un pacco è un problema vostro.
    E’ ben per quello che io non mi arruolo più da trent’anni e firmo tutto nome e cognome.

  13. alcor Says:

    I criteri che definiscono la qualità non sono democratici, in effetti.
    E’ come per il parmigiano, un lappone fatica a cogliere le differenze tra un parmigiano dozzinale e uno di qualità, bisogna averne mangiato da sempre, e di varie specie, per poter capire che cosa si mangia.
    Ma l’ingiustizia regna sovrana anche tra chi lo ha sempre mangiato, non tutti hanno le stesse papille non solo per mancanza di affinamento, ma anche per natura, che è matrigna.
    E perciò – è triste dirlo – di solito quelli che fanno parte dell’ambiente dei produttori e intenditori di parmigiano reggiano si capiscono tra loro, evitano di discutere con il lappone, credono di saper meglio giudicare, da veri presuntuosi, e si tengono per loro i migliori indirizzi.

    I letterati, bisogna riconoscerglielo, sono più generosi.

  14. Marco Says:

    A questo punto credo sarebbe interessante verificare cosa accadrebbe se Giulio si sottoponesse alla macchina della verita’ dove potrebbe rispondere alle domande solo con un si’ o con un no.

  15. vibrisse Says:

    Per Gianni Biondillo: nell’elenco dei lettori del Dedalus io non ci sono.

    Basta controllare: qui.

    Partecipai alla cosa nei primi due mesi, poi mi chiamai fuori perché quella che mi pareva una sorta di “classifica interna a una certa parte della Repubblica delle lettere” veniva spacciata per una “classifica di qualità” – senza peraltro che si capisse bene cos’era la qualità.

    giulio mozzi

  16. federica sgaggio Says:

    Alcor, ho sempre mangiato parmigiano dozzinale e letto libri senza qualità.
    E senza nemmeno essere lappone. Pensa.

  17. Simone Ghelli Says:

    Forse alcune di queste risposte più che in internet vanno cercate sui cari vecchi libri, quelli in cui si smadonna a ogni pagina perché non ci si capisce ‘na sega, ma poi quando si è arrivati in fondo si ha quella breve illuminazione (breve perché la lampadina prima o poi si fulmina, si sa) che ci fa dire: “Ah, ma allora è qui che voleva arrivare!”. Va da sé che la storia della lampadina è essenziale, perché ogni volta che brucia tutto torna buio, e quando si riaccende bisogna orientarsi di nuovo, e lì sì che viene il bello, perché il libro magari tocca rileggerlo anche più d’una volta…

  18. Simone Ghelli Says:

    ehm, il link giusto del mio profilo è questo… si vede che mi s’era spenta momentaneamente la luce…

  19. alcor Says:

    @Sgaggio

    sinceramente dispiaciuta per te, soprattutto per il parmigiano, però son fatti tuoi

  20. enpi Says:

    @federica e alcor

    non esiste parmigiano dozzinale 😉
    c’è un corsorzio del parmigiano reggiano che stabilisce tutto: dall’alimentazione degli animali, alle zone geografiche, alla produzione in sé. il numero dei produttori è chiuso. è una sorta di eugenetica casearia 😀

    [però sì, ci sono le imitazioni. quelle più dozzinali sono spacciate sui mercati esteri, tipo “parmigggiano ittaliano” o “parmesano”]

    e-

  21. riccardo ferrazzi Says:

    Non è soltanto questione di indiani e cowboys. Ci sono anche sioux e cheyenne, apache e navajo, ecc. ecc. Nel (piccolo) mondo della letteratura bisogna fare “battage”, bisogna alzare la voce per farsi sentire, e la maniera più semplice è litigare.

  22. alcor Says:

    caro enpi, hai ragione in astratto, ma in concreto basta comprare un tronchetto certificato e preconfezionato in un supermercato, tirar via la plastica e addentare ora quello ora una scaglia di parmigiano uscito da una forma scelta.

    ma se non vuoi applicare il discorso al parmigiano possiamo applicarlo al Morellino di Scansano (stavo per scrivere Brunello di Montalcino, ma non voglio prendermi un’accusa di classismo da un/a classista di passaggio), all’olio, ai fagioli, al pane. Capire la qualità richiede talento e dedizione, e anche così le discussioni non sono mai finite, ma almeno non sono discussioni su un olio senza gusto, su un pane di plastica.
    Sono sicura che si parlasse di olio o di pane, certe suscettibilità cadrebbero e nessuno si sentirebbe personalmente urtato.
    O magari il fornaio.
    Ci sono fornai, qui?

  23. enpi Says:

    continuo a credere che sia una questione di appartenenze.
    non posso pretendere che il pane di Altamura piaccia a tutti.
    ciascuno ri-conosce la qualità, secondo le proprie misure.
    questo mi sembra un fatto. difficilmente contestabile.
    uno dei pochi modi per definire la qualità è condividerla. ovvero con un elenco, per esempio. cioè: io, te, federica ecc. stabiliamo che il libro x – per dire, il libro – è “di qualità”: lo abbiamo quindi definito secondo questa categoria. quindi per *noi* è un libro di qualità e condividiamo questo giudizio. ma la cosa non può essere universale, per forza di cose.
    e-

    ps
    basta leggere qualche strano e imbarazzante giudizio su Salinger, degli ultimi tempi, per rendersi conto che non esistono – e non possono esistere – giudizi assoluti sulla qualità di un opera. ed è bene che sia così.

  24. alcor Says:

    non sono d’accordo, è possibile riconoscere le qualità di un’opera e dire non mi piace, e dire mi piace anche se vedo che vale poco.

    per fare un esempio personale, riconosco le qualità e lo spessore del Ritorno dell’huligano di Manea, ma non mi attira, se lo leggo è più che altro per curiosità verso una letteratura che conosco poco, a parte gli emigrati, e verso un paese di cui non so praticamente nulla

    un altro esempio personale, ho letto di gusto il primo volume della trilogia di Larson – e il secondo, anche se con maggior noia – sebbene non abbia qualità letterarie

    a proposito del pane di Altamura, preferisco decisamente il pane cafone, e ancora di più quello altoatesino di segale, ma non mi verrebbe mai in mente di dire che il pane di Altamura è un pane di poca qualità

    bisognerebbe riuscire a distinguere tra quello che vale e quello che piace o anche tra quello che vale e quello che è interessante oggi per i più vari motivi e perciò interessa.

  25. Felice Muolo Says:

    Del mio ultimo romanzo, qualcuno ha scritto che è un libro che “semina”. Altri l’hanno lodato ed elogiato a dismisura. Oggi ho sollecitato una recensione che non arrivava. Mi è stato risposto che la lettura non è stata gradita ma era interessante. Ho scritto sei romanzi. Con tutti si è verificata più o meno la stessa storia. Ancora non so quanto valga la mia scrittura.

  26. helena Says:

    Giulio rispondo io, visto che sono quella che ti ha mandato il questionario.
    Credo che le domande che poni, possano trovare delle risposte riassuntive.
    Quel che contesti con le tue domande è, tanto per cominciare, la genericità delle nostre domande.
    Questa genericità dà per implicita la possibilità (persino l’inevitabilità) di un giudizio di valore e/ di distinzione e al tempo stesso prevede che quel giudizio possa differire di molto a seconda di chi lo esprime, senza che si siano chiarite le basi prima. Ma proprio questo lascia agli interpellati lo spazio per definire loro stessi i termini del discorso che desiderano fare.
    Per quel che riguarda invece gli aspetti in cui si coglie, da parte nostra, un giudizio, ti rispondo: in effetti siamo d’accordo nel considerare la nostra democrazia – pur formalmente intatta – come un sistema messo in crisi da molte attuali pratiche politiche, dal controllo dei media, dal livello pervasivo di corruzione e/o illegalità, dall’inadeguatezza della classe politica.
    Ma il nodo non credo sia questo. L’aspetto principale è che si può benissimo rispondere alle nostre domande contestandone le implicazioni, si può affermare – come fai tu – che “Repubblica” è faziosa tanto quanto “il Giornale” o “Libero”, si può far presente che molti cittadini non colgono nessuna “crisi della democrazia”.
    In pratica: non stiamo cercando risposte a sostengo di un modo di vedere preconfezionato, ma al contrario punti di vista divergenti. Diversità che emerge dalle interviste. Quelle già pubblicate e quelle che lo saranno prossimamente. Ed è questo che ci sembra la cosa principale, perché era questo che volevamo ottenere.

  27. enpi Says:

    concordo con Felice.
    nel senso: per te un libro di Larsson non ha “qualità”. magari anche per me, e per altri. ma son certo che troveremo migliaia di persone che sostengono il contrario.
    non intendo il “mi piace”, “non mi piace”, ma proprio “è di/possiede qualità” o meno.
    se più persone catalogano un testo nella stessa maniera è perché hanno dei riferimenti in comune. una mappatura del Mondo che coincide in più punti.
    non è una scienza, l’attribuzione della qualità.
    non voglio insistere, alcor, ma credo proprio che sia così.
    e-

    [questa cosa, che un libro non sia condiviso universalmente non è un male. se un libro è per tutti, in fondo non è per nessuno. almeno, credo]

  28. massimo Says:

    Ho risposto alle otto domande sul blog, perché ho impiegato 8000 caratteri, o giù di lì

  29. alcor Says:

    @enpi

    il fatto che milioni di persone considerino Larson migliore di Manea, o di Sebald, o di Bolano, solo per elencare i più conosciuti, non mi sorprende, ma non cambia le cose, come il fatto che migliaia di italiani considerino il grande fratello una trasmissione appassionante, da quando in qua i numeri hanno fatto la qualità? l’unica differenza è che adesso le sedi in cui la voce dei numeri può mostrare tutta la sua potenza sono enormemente aumentate

    quanto al resto, basta intendersi, tu dici prima “appartenenze” che per me nel contesto di questo thread prende una certa coloritura, poi dici “riferimenti in comune”, che è una cosa diversa.

    mentre non sento alcun senso di appartenenza verso un particolare produttore di scrittura e lettura, penso di avere dei riferimenti in comune con alcuni scrittori e soprattutto lettori e non con altri, questi lettori con cui sento di avere dei riferimenti in comune pur senza conoscerli personalmente, sono certamente lettori con una certa formazione alle spalle, che condividono o almeno conoscono una certa tradizione, una certa pratica della lettura, e ovviamente con preferenze e sensibilità personali, con questi lettori posso non concordare pienamente sulla valutazione di un singolo libro, o sulla valutazione di un libro all’interno della produzione di un autore, o sul rango di uno scrittore all’interno della tradizione letteraria del suo paese, ma sarà difficile, se non impossibile, che non ci intendiamo sulla differenza di rango di Larson e gli altri, benché siano, come immagino direbbero le tue migliaia, più “pesanti”, più “tortuosi”, senza un plot riconoscibile, involuti, così complessi che possono sembrare complicati.

    considerare Larson di rango superiore a Manea e agli altri è democratico, attuale e ridicolo, in quanto democratico lo accetto, meglio la democrazia che la dittatura, in quanto attuale, mi rassegno, in quanto ridicolo rido perché ho un certo senso del comico che forse non sempre si vede e spero che chi, a differenza di me, ha un ruolo di formatore sia all’altezza e faccia bene il suo lavoro, per quanto gli compete, certo il talento non lo può insufflare.

  30. alcor Says:

    aggiungo: se continuo a dire certe cose antipatiche non è tanto per convincere un enpi o una Sgaggio, le loro posizioni sono chiare, lo faccio in piccola parte per dar voce alla mia irritazione, ma in massima parte per dare sostegno morale ai pochi e silenziosi che la pensano come me, non siete soli, fratelli e sorelle.

  31. enpi Says:

    “aggiungo: se continuo a dire certe cose antipatiche non è tanto per convincere un enpi o una Sgaggio, le loro posizioni sono chiare, lo faccio in piccola parte per dar voce alla mia irritazione, ma in massima parte per dare sostegno morale ai pochi e silenziosi che la pensano come me, non siete soli, fratelli e sorelle”.

    no, alcor, affatto antipatiche. solo – sembr a me – una ostinazione contraddittoria, che, alla fine, fa perdere di vista il punto di vista.
    [ma, appunto, niente affatto antipatica]

    per esempio non ho capito la fonte prima dell’irritazione di cui parli. e non ho capito se è espressa – l’irritazione – in questo thread, o altrove.
    insomma: magari anch’io la penso come te, ma non ho capito come la pensi – lo confesso 😉

    e-

  32. Daniele M Says:

    Incredibile che a questo punto della storia, mentre persino in Cina si lavora per inviare nello spazio stazioni orbitanti, qualcuno parli ancora di “qualità” del testo letterario. O di scientificità del critico. O di scientificità nel riconoscere la scientificità del critico. O di scientificità in generale. Quando, a prescindere dalla formazione di ognuno, siamo individui così diversi, alieni uno all’altro, abbiamo subito traumi incomparabili, siamo costituiti di organi sangue sudore ormoni e umori radicalmente diversi, le energie sono disposte diversamente e pure i chakra rispondono a diverse configurazioni di apertura in ognuno. Siamo anche lettori non comparabili: certi “vedono” il testo anzichè “udirlo”, altri lo “ascoltano” e considerano quindi la visione un aspetto secondario, qualcuno vede e sente e però decisivo è il ritmo. Ma cos’è il ritmo? Anche il senso della musica non è lo stesso in ognuno. Ci sono persone alle quali è impossibile qualunque nozione musicale. Non per questo sono cattivi lettori. E quanto contano ritmo e musicalità per chi legge? Possibile che un aritmico e un melomane leggano seguendo le stesse procedure neuronali? Se è vero che immaginazione visiva, elaborazione dei suoni, sensibilità ritmica risiedono fisiologicamente in punti diversi del cervello, e se è vero che non solo la gestione dei due emisferi – razionale emotivo – ma anche la configurazione delle onde cerebrali può corrispondere in ciascun soggetto a schemi diversi, che senso ha parlare di qualità del testo letterario quasi come di un valore, prendendo di valore l’accezione delle scienze matematiche, o magari di quelle economiche? Ci sono i gusti, e questi si possono argomentare in base alla preparazione culturale di ciascuno, anche se restano legati alla biologia e al corpo e all’energetica e a quel-che-gira-per-la-testa del lettore. Nel ventunesimo secolo fare della critica o semplicemente della lettura una procedura medica, clinicizzabile, distinguibile è una cosa da trogloditi.
    Finisco qui, pur avendo molto altro da dire. Credo anche di non essere sufficientemente “autorevole” per poter comunicare (cioè essere letto) qui dentro, dato che nessuno ha mai reagito a un mio commento, ma precipuamente me ne sbatto. Buona serata.

    Daniele

  33. stefano Says:

    @ Daniele M

    se hai altro da dire, dillo (Giulio permettendo), il tuo commento l’ho letto. Più che di trogloditi parlerei di nostalgici di un tempo in cui si credeva tutti alla Letteratura. Le prime quattro domande di Giulio mi sembrano già esaudite dalla sua risposta “la letteratura contemporanea sta bene grazie, come sempre” più o meno. Quello che ancora non mi torna è il perché sia l’autore a dover essere responsabile. E non piacciono neanche quelle risposte tipo “l’unico dovere è quello di scrivere bene” che non significano nulla. Eppoi è veramente incredibile che persone di cultura confondano la qualità specifica che fa di un determinato alimento proprio quell’alimento con la qualità presunta che un testo letterario dovrebbe avere per entrare nell’olimpo della letteratura. L’unico lato positivo di questa credenza è che almeno spinge a parlare di letteratura, così io che ne so poco ne traggo beneficio.

  34. vbinaghi Says:

    Poi ci sarebbe la differenza tra chi riconosce la qualità del parmigiano sopraffino e chi pretende di fare il degustatore, ma anche il produttore e il bottegaio, per cui chissà perchè qualcuno dubita dell’oggettività delle sue “degustazioni”
    Ma questa cosa Alcor non la vuol capire.

  35. alcor Says:

    @enpi
    penso che la qualità esista, in ogni campo, per altro, non penso che si possa stilare un sintetico decalogo per stabilirla come se fosse una procedura neutra, come non penso che si possa stabilire la qualità di un chirurgo solo imponendogli di seguire un decalogo, in astratto potrei seguirlo anch’io, e non credo che qualcuno qui si farebbe operare volentieri.
    E’ curioso che si voglia escludere l’idea stessa di una qualità riconoscibile in quest’unico campo, quello letterario e artistico, dove la qualità si determina per accumulo di esperienza e discorso, e non mi basta, e in questo rispondo anche a @Daniele – che ho letto – una risposta neuronale, una reazione c’è sempre.
    Si potrebbe anche dire che è un patto e che il patto può essere stretto tra vari soggetti, i più diversi, dunque tra i più diversi lettori e le più diverse opere, ma ci sono stati finora, e ci saranno per i prossimi decenni [più in là non vado, la democrazia della rete potrebbe anche farne polpette] patti che hanno retto nel tempo perché quell’accumulo di esperienza e discorso ha tenuto meglio e ha contribuito a formare una tradizione. Il rapporto con la tradizione è complesso, come è complesso il rapporto con il sapere, non è detto che sia felice, ma non si costruisce sul vuoto, sull’arroganza del non-sapere, magari sull’irrisione verso un sapere che si sente come troppo accademico e poco vitale, come rivolta, sempre benvenuta, ma sul niente, no.

    @Binaghi

    non capisco cosa non voglio capire, e non lo capisco perché tu ce l’hai sempre con alcune persone in particolare e io no. Chi siano queste persone una volta te l’ho chiesto e mi hai risposto che non valeva la pena rispondere, da queste tue righe posso desumere che siano persone che vogliono sia scrivere che pubblicare e vendere, forse, ma non mi viene in mente nessuno che risponda a queste caratteristiche e se anche questa strana figura esistesse, che mi importa di polemizzare con lei?
    Quello che mi preme è caso mai che chi non vede le differenze impari a vederle, ne caverà soddisfazione, o anche amarezza.

    Se a me si chiedesse di fare qualche nome di autori di qualità, qui da noi potrei dire, a caso, tirando fuori dalle mie ultime letture, Celati, Mari, Nori, Pugno, a questo punto vorrei che qualcuno qui dicesse che non sono autori di qualità e motivasse.

    Ancora per @daniele

    ti faccio una proposta, vengo a suonare il violino a casa tua, sono sicura che le onde cerebrali si attiveranno, forse si aprirà qualche chakra, certamente non sarà un’esperienza razionale, ma potremo commentarla razionalmente.
    Ovviamente non ho mai preso un violino in mano e non so leggere la musica, lo noleggerò, ma credo che per coerenza con il tuo commento mi inviterai.

  36. vbinaghi Says:

    Trasformare un certo tipo d’indignazione in risentimento personale è una cosa in cui siamo diventati tutti bravissimi, dopo che Berlusconi ci ha spiegato che i magistrati indagano su di lui perchè sono comunisti.

    Eppure io parlo italiano, Alcor.
    Un critico che voglia essere preso sul serio sta in Università o su riviste letterarie, non in comitati editoriali che promuovono opere che poi lui stesso recensisce e mette nel canone. Del pari lo scrittore che compila canoni letterari è della stessa risma. Nel paese del conflitto d’interessi, queste cose sembreranno piccole ma non lo sono.
    Non si può cantare e portare la croce: l’aristocrazia del gusto, se esiste, deve coltivare una certa ascetica separatezza: se non se la sente, faccia a meno di proporsi come tale.

    Poi è chiaro che chiunque è libero di dare giudizi di valore su cose e libri. Per esempio, per quanto mi riguarda, l’unico libro italiano che mi ha strappato ammirazione tra quelli usciti negli ultimi tre mesi è Spavento di Starnone.
    Ma so benissimo di aver letto pochissimo di quello che si è pubblicato. Quindi non mi sognerei mai di compilare canoni e classifiche. Ma soprattutto ho troppi amici scrittori per farlo: tra la ferita inferta all’amico e l’ipocrisia di un giudizio condizionato sceglierei il silenzio.
    Ma come in politica l’ansia di posizionamento è tipica delle stagioni di vuoto pneumatico, così nascono conventicole di critici e controcritici quando la critica ha ormai abdicato alla pubblicità e non ha più credibilità alcuna.

  37. vibrisse Says:

    Grazie, Helena.

    Giustamente dici: “si può benissimo rispondere alle nostre domande [quelle di Nazione indiana] contestandone le implicazioni”.

    Veramente, Helena, mi pare di aver fatto proprio questo: ho risposto e ho contestate le implicazioni.

    (Però vorrei sapere, in primis, quali sono questi benedetti critici che «denunciano la totale mancanza di vitalità del romanzo e della poesia nell’Italia contemporanea». Qui non contesto nessuna implicazione. Qui semplicemente domando di chi Nazione indiana sta parlando . E’ possibile saperlo? Lo sto domandando pubblicamente da dieci giorni).

    E, ti dirò, trovo curioso che mi si contesti di aver eluso, di non aver risposto. A me pare di aver risposto, e di aver risposto nella sostanza. Faccio un riepilogo.

    Alla domanda 1 ho risposto: “sta bene”. Non è una risposta tanto diversa da quella data, per esempio, da Trevi. E’ solo più “speditiva”, come richiesto dalla domanda (e più chiara).

    Alla domanda 2 ho risposto che non solo la pubblicazione, ma lo stesso concepimento di “opere di qualità” è danneggiato dalla “industrializzazione crescente”. Non mi sembra una non-risposta. Se avessi scritto dieci pagine lamentando il “genocidio culturale” in corso, sarebbe stato diverso?

    Alla domanda 3 ho risposto dichiarando il mio disinteresse per le pagine culturali. Disinteresse che (presumevo si capisse) deriva dalla loro irrilevanza o, se vogliamo, dalla loro incapacità di “rispecchiare”.

    Alla domanda 4 ho risposto con una percentuale. A nessuno, a quanto pare, è venuto in mente che quella percentuale possa corrispondere alla quota di mercato (ambito narrativa italiana, dati 2008/9) delle imprese editoriali che, secondo me, fanno “un buon lavoro” eccetera. Eppure è così. Ho sommato le quote di mercato (ambito narrativa italiana, dati 2008/9) di Einaudi, Guanda, minimum fax, e di una lunga serie di editori vari e minori che secondo me fanno “un buon lavoro”, e ho ottenuta quella percentuale lì. (Mia elaborazione su dati Demoscopea che, purtroppo, per contratto, non posso pubblicare).

    Alla domanda 5 ho risposto nel modo più piano che si può.

    Alla domanda 6 ho risposto facendo capire che non mi pare sensato invocare aiuti di stato o simili: l’impresa editoriale se la gioca sul mercato, tutto dipende dai comportamenti dei lettori-compratori.

    Alla domanda 7 ho risposto, mi pare, più chiaro che si può: “sì, mi sembra che gli scrittori italiani abbiano modo di dire la loro; no, non mi sembra che abbiano un qualche peso”. C’era altro da dire?

    Alla domanda 8 non ho data, è vero, una risposta in forma di analisi storica, che forse ci stava. Ho risposto solo con una massima morale: “Chi ha avuto in dono un talento, e lo ha seppellito per non farselo portare via, è da licenziare”.

    Alla domanda 9 ho risposto un po’ ellitticamente, è vero. Ma mi pareva che il senso fosse chiaro: al “mondo della politica”, il “mondo della cultura” interessa solo in quanto è strumentalizzabile, in quando una “patina di cultura” porta consenso voti e quant’altro.

    Alla domanda 10 ho risposto con una massima morale: “Mi sembra opportuno non farsi ossessionare dal desiderio di purezza”. E non è una massima da poco, visto che proprio sull’ossessione della purezza si è consumata, per esempio, anni fa (e, ahimè, in buona parte a causa del mio rifiuto all’ossessione della purezza), una crisi e una spaccatura proprio in Nazione indiana.

  38. alcor Says:

    Caro Valter, un critico che è un intellettuale a tutto campo fa il suo mestiere a tutto campo, e così uno scrittore, e così è sempre stato, entrambe le categorie sostengono gli autori in cui credono, così ha fatto Pound, così Calvino, così la Wolf, così Berardinelli, così Cortellessa (al quale forse ti riferisci), così i fondatori di Nuovi Argomenti, così il gruppo 47 in Germania, così il gruppo ’63, così hanno fatto i romantici, così Goethe e Schiller, tanto per risalire le genealogie.
    E la lista è breve solo perché sono stanca e la stanchezza mi toglie memoria e lucidità.
    L’ascetica separatezza che tu auspichi non è mai esistita, ed è un bene, le riviste culturali che ora sono quasi scomparse erano luoghi di battaglia culturale proprio perché queste separatezze non contavano, né contano ora.
    Gli scrittori-critici tra l’altro sono sempre stati una ricchezza per la letteratura. Gli scrittori che hanno lavorato e lavorano all’interno dell’editoria sono numerosi, e a volte si sente la loro mancanza.
    Ti darei ragione sul conflitto d’interessi se i critici o gli scrittori che si espongono in favore di certi autori sostenessero autori che disistimano, cercando di far tacere autori di valore per motivi che fatico a comprendere.
    Quanto all’ansia di posizionamento, anche qui ho bisogno di lumi, non capisco che cosa significa, a chi è riferita? E posizionamento rispetto a cosa?
    E non capisco, ma forse è un refuso, il fatto che la critica abbia abdicato alla pubblicità. La pubblicità non dovrebbe essere compito suo, suo compito è far conoscere.
    Come non condivido il fatto che la critica non abbia credibilità alcuna, forse non leggiamo gli stessi autori.

    Per tutte queste ragioni fatico a leggere la tua come indignazione e la interpreto invece come risentimento, a meno che tu non mi dica che non conosci la storia della letteratura passata e recente. In quel caso, con un certo stupore, tuttavia, potrei capire.

  39. alcor Says:

    per tua comodità, guarda qui:

    http://it.wikipedia.org/wiki/Riviste_letterarie_del_Novecento

    e vedrai che la separatezza non è mai esistita, e ripeto, grazie a dio.

  40. Andrea Cortellessa Says:

    @ Vibrisse
    Caro Giulio. Punto primo. Tu chiedi quali siano quei critici i quali «denunciano la totale mancanza di vitalità del romanzo e della poesia nell’Italia contemporanea». Io non ho scritto le domande di Nazione indiana, ma di questa capisco perfettamente il senso. Vale l’avvertenza di Massimo Adinolfi nel thread successivo a questo: se uso il lessema «tavolo» so cosa intendo e chi mi ascolta mi capisce; se devo dare una definizione della stessa parola, comprensiva dei suoi usi letterali e metaforici in tutta la storia culturale umana, dovrei essere uno storico (e un filosofo) dell’arredamento e avere uno sterminato bagaglio di letture interdisciplinari, nonché centinaia di pagine a disposizione, per poter rispondere in modo esauriente. Lo stesso vale per la parola «critico».
    Non troverai mai, negli scritti di un critico contemporaneo, la frase incriminata. Ma che sia questo il presupposto di molti dei critici (=, qui, «persone che vengano considerate in grado di esprimere un giudizio in materia letteraria, e abbiano a disposizione sedi pubbliche sufficientemente visibili e riconosciute per esprimerlo») di oggi, mi pare difficile metterlo in dubbio. Faccio l’esempio di un saggista che stimo moltissimo, ma i cui giudizi critici quasi mai condivido: Alfonso Berardinelli. Il quale già nei primi anni Ottanta si definiva «critico senza mestiere» dal momento che riteneva che la «qualità» della sua lettura (nutrita da decenni di educazione alla letteratura, esperienza che qui e più in generale nel web vedo spesso irrisa, ma della quale giustamente qui Alcor ha rivendicato l’importanza) non trovasse un corrispettivo nella «qualità» della poesia, e soprattutto della narrativa, che l’editoria italiana metteva sul mercato. Poi non ha mai scritto una frase come quella (anche perché Berardinelli scrive molto bene), ma un pensiero simile è senza dubbio alla base di ogni suo atteggiamento culturale. Naturalmente non può scrivere quella frase anche perché di volta in volta appaiono eccezioni, narratori che considera validi o entusiasmanti (di recente mi pare si possa dire che abbia trovato tali Antonio Debenedetti, Franco Cordelli e Walter Siti: fra loro il più giovane, classe 1947). Ma appunto: eccezioni. Che confermano la regola. E la stessa regola viene tacitamente osservata dalla maggior parte dei critici della generazione successiva, diciamo quelli oggi sulla cinquantina, sui quali l’influsso di Berardinelli è non meno che enorme.
    Ora, un influsso notevole Berardinelli se è per questo lo esercita anche su di me, ma il primo motivo di disaccordo critico fra noi è questo, diciamo metodologico e sincategorematico (scrivo di proposito questa parola, così sarà più facile definire questo mio commento «masturbazione intellettualistica»). Perché da quando ho iniziato questa attività, a metà degli anni Novanta, ho letto decine di autori italiani validi, e a tratti entusiasmanti, in poesia; e molti di meno, ma almeno una decina, in narrativa (i quattro nomi fatti poco sopra da Alcor, per esempio). E penso che ci siano molti critici più giovani che la pensino come me, al riguardo. Magari indicheranno nomi diversi, e a tempo debito ci si azzufferà su questo; ma ciò non smentisce, e anzi forse convalida, il mio punto di vista circa una notevole ricchezza. Poi il discorso cambia se dobbiamo fare un confronto col passato (non con gli anni Sessanta, bastano 13-14 anni fa), ma questi confronti della stretta contemporaneità con altri tempi, lo sappiamo, sono strutturalmente ingannevoli.

  41. helena Says:

    Grazie Giulio della chiosa aggiuntiva alle tue risposte che in certi casi, in effetti, le rende più comprensibili.
    Trovo particolarmente rilevante la tua seconda risposta (questo sin da subito). Che afferma, nella sua forma stringata, una cosa assai più precisa e ricca di conseguenze di “dieci pagine sul “genocidio culturale”.
    (Parentesi: all’epoca dello scisma di NI, ti ricordo, non solo la sottoscritta, ma anche gli ultimi “vecchi indiani rimasti in Nazione Indiana non erano d’accordo con il massimalismo del discorso sull’industria culturale che si rifletteva nel uso di simili termini. E questo atteggiamento fa sì che oggi, dopo aver detto la nostra con alcuni interventi, abbiamo sentito l’esigenza di rivolgere delle domande a altri).
    Ma torno alla tua risposta numero due che becca un punto cruciale.
    Per quel che mi è dato vedere, questo condizionamento del mercato sul concepimento dei libri, è qualcosa di più sotterraneo e sfumato del lucido (e/o ingenuo) tentativo di dirsi “voglio scrivere un bestseller”.
    Agisce sulla stessa idea di come debba essere fatto un libro (un romanzo soprattutto). Rende inconcepibile a monte che si possa procedere anche altrimenti che secondo le modalità predominanti (trama semplice, protagonista in primo piano, molto dialogo, poche disgressioni ecc). E così l’industria culturale si trova a scartare prodotti fin troppo omologati di cui lei stessa ha in qualche modo incentivato la nascita. Mentre magari,per apparente paradosso, “premia” con la pubblicazione e spesso persino col successo, quell’autore che ha saputo alimentare una concezione più autonoma della sua opera.

    La richiesta di nomi e cognomi è pervenuta, ma a questo punto frugare negli archivi della memoria per rintracciare caio e tizio che si sono espressi così o cosà richiede un po’ di tempo.

  42. Andrea Cortellessa Says:

    @ Vibrisse
    Punto secondo. Il termine «qualità» ha una tradizione filosofica assai più ampia e complessa del termine «tavolo», e anche di quello «critico» se è per questo. Malgrado ciò, quando lo impiego un’idea del suo senso me la faccio. E lo stesso, mi pare, molte persone che lo ascoltano. Nella fattispecie, aiuta che sia associato al termine «classifica» (benché – come mi è stato fatto notare da un’altra persona che stimo molto senza condividerne quasi mai i giudizi, Franco Cordelli – i due termini coinvolti dal sintagma «classifica di qualità» compongano quasi un ossimoro); perché nel nostro piccolo mondo la parola «classifiche» sinora è stata usata solo per quelle di vendita, cioè per un parametro quantitativo (la parola «quantità» fa meno difficoltà, certo, di quella «qualità»; ma da quando in qua si devono usare solo termini che non fanno difficoltà? Sincategorematico! Sincategorematico!).
    Per me il fatto che tu sia uscito dal gruppo dei Lettori di Pordenonelegge è stata una perdita secca e molto grave, in termini appunto di «qualità» – in questo strumento. Una perdita che personalmente mi ha ferito e scoraggiato (ma alla quale, come vedi, reagisco). Che tu oggi dica di esserne uscito perché ti pareva che «una sorta di “classifica interna a una certa parte della Repubblica delle lettere” veniva spacciata per una “classifica di qualità” – senza peraltro che si capisse bene cos’era la qualità», mi pare da parte tua un giudizio ingeneroso e profondamente ingiusto. Prendo l’ultima classifica risultata dal nostro lavoro (lavoro faticosissimo e strettamente volontaristico, ricordo a tutti coloro che lo ignorano o preferiscono far mostra di ignorarlo). I primi classificati, nei quattro generi considerati, sono Portando tutto a casa di Nicola Lagioia, Conglomerati di Andrea Zanzotto, Nero sonetto solubile di Valerio Magrelli e La vita nei dettagli di Antonella Anedda. Li vogliamo confrontare coi primi (e i secondi, e i terzi, e i quarti) nella corrispettiva classifica di «quantità», per favore? e poi vogliamo insistere a dire che «non si capisce cosa sia la “qualità”»? Se questo significa «spacciare», voglio continuare a fare lo spacciatore tutto la vita.
    E’ un giudizio interno «a una certa parte della Repubblica delle lettere»? Sì. C’è qualcosa di male in questo? Per me no. Perché se un giudizio sulla qualità delle opere letterarie lo dà «una certa parte della Repubblica delle lettere» (= una parte costituita da persone esperte, appassionate, conosciute e riconosciute, che non si sottraggono pregiudizialmente alla lettura delle novità editoriali italiane) è per sua natura un giudizio inficiato e settario, e se invece lo dà (e lo dà eccome; è l’unico giudizio che venga ascoltato dai media, oggi) un’anonima classifica di vendita (sui cui metodi di compilazione ci sarebbe da aprire una lunga e interessante parentesi) non si scandalizza nessuno?
    Poi: esiste davvero, ancora oggi 2010, una «Repubblica delle lettere» della quale questo gruppo costituirebbe «una certa parte» (par di capire: minoritaria e non-rappresentativa)? Non sarà che certi scompensi (tra qualità e quantità, tra giudizio argomentato di persone esperte e attendibili e scale numeriche anonime e massive) derivino proprio dall’annosa caduta e dispersione, di detta «Repubblica»? Non sarà che un’iniziativa come questa possa costituire un tentativo di ricostruirne una, che condivida dei presupposti e che ciò nonostante tenda ad allargarsi sempre più (e garantisco che il solo passare da 100 a 140 ha rappresentato uno sforzo organizzativo enorme)?
    @ Federica Sgaggio
    Lei scrive che «a volte vale la pena rendersi conto del portato ideologico, esclusivo (nel senso di “escludente”) e capzioso – questo sì – di concetti come quello della “qualità”». Sulla capziosità del concetto, e della pratica, ho già detto. Vorrei dire qualcosa sulla sua «eslusività». Certo che è una pratica «esclusiva». Lei quando va in libreria e prende (poniamo) un libro di Philip Roth e lascia lì (poniamo) L’eleganza del riccio, compie un atto «esclusivo». Non solo; lo fa pregiudizialmente: perché ha sentito dire che L’eleganza del riccio ha destato l’entusiasmo di lettori che non stima e ai quali sente di non assomigliare, mentre di Roth sente da sempre parlare bene, e anzi ha già letto altri suoi libri che la invogliano ad acquistare e a leggere questo nuovo (che invece ovviamente non ha ancora letto). Lei non potrà probabilmente spiegare tutti i pensieri che in pochi secondi l’hanno portata a prendere un libro e a scartare l’altro, ma essi sono di natura 1) «qualitativa» 2) «esclusiva» 3) (sospetto anche, e a suo dispetto) «ideologica».
    Spiacerà forse a qualcuno, ma una buona (ancorché ovviamente approssimativa) definizione di «qualità» si poggia proprio su criteri «esclusivi» anziché «inclusivi». E ciascuno di noi «esclude» in base a un mix di ragionamenti complessi (stimolati dai famosi >em>decenni di cui sopra) e di ubbie irrazionali e viscerali (io per es. non sono in grado di leggere testi letterari che parlino del giuoco del calcio; lo so [o meglio, fingo di accettarlo], esistono capolavori nel genere; non ci posso fare niente, mi dispiace, è un mio limite).
    Ora, proprio per dare maggior peso ai ragionamenti complessi e sottrarne invece alle ubbie irrazionali e viscerali (le quali invece la fanno da padrone, spero che almeno questo sia acclarato e condiviso, nei tradizionali premi letterari), uno strumento come le Classifiche di qualità si poggia a sua volta (e per questo è concettualmente un ossimoro, forse) su una media statistica. Statisticamente, per esempio, su 140 persone alcune decine hanno optato per il romanzo di Nicola Lagioia. Non è la scelta che avrei fatto io, ma è un giudizio che serenamente accetto e che mi pare anzi abbia una sua evidente validità (proprio perché non è il mio soggettivo, che già conosco, esso mi interessa; e anzi magari mi spingerà a rileggere il libro di Nicola).
    Così come mi pare significativo che
    @ Valter Binaghi
    Nella medesima occasione, sulle stesse 140 persone, una sola abbia segnalato (oltretutto con 4 punti, quindi non con tutti i 6 che aveva a disposizione) Che la festa cominci di Niccolò Ammaniti. Non so se questa scelta di un singolo possa dimostrare «un concetto slabbrato della qualità», ma eventualmente tale «concetto slabbrato» ce l’ha una persona su 140. Non capisco – se non per un preconcetto risentimento del quale sono sinceramente curioso di conoscere i motivi – come da questa ventunesima posizione lei possa trarre il medesimo giudizio sull’intero strumento Classifiche. (Fra l’altro, se questo dettaglio l’ha fatta tanto irritare, potrei indurre che i dicannove testi narrativi italiani usciti nello stesso semestre, e che il giudizio complessivo dei 140 ha mostrato di preferire a quello di Ammaniti, a lei non siano invece dispiaciuti; dunque lei ha un’opinione al riguardo ancora migliore di quella del sottoscritto, che di quei diciannove almeno tre o quattro li mette più o meno sullo stesso livello di Ammaniti; e tuttavia in nome di quel 5% «slabbrato» lei condanna anche il 95% non slabbrato. Insomma, è dura darle soddisfazione: assomiglia a quel famoso spot d’antan con gli «Incontentabili», ricorda? Lei è il Giampiero Albertini della letteratura italiana.)

  43. vbinaghi Says:

    @Cortellessa e anche Alcor
    Lo spot me lo ricordo e mi stava pure simpatico, ma io non sono mica un tipo così. Anzi, la comune amica Alcor direbbe che molte cose che io trovo leggibili e anche pregevoli lei categorizza sbrigativamente come fiction, quindi destituite di qualsiasi valore letterario (è successo con Altai dei Wu Ming, per esempio). Io non ho una formazione letteraria ma filosofica, ho iniziato a leggere seriamente letteratura italiana e non dopo i quarant’anni, come Alcor giustamente ricorda non ho la competenza storica per fare confronti sul rapporto tra critica ed editoria ieri e oggi, quindi le mie osservazioni si possono prendere come espressione di una certa naiveté in cui in fondo non mi dispiace di riconoscermi.

    Diciamo che per quanto riguarda le classifiche io ho un problema epistemologico di base: non riesco a capire come si possa mettere in una stessa graduatoria un romanzo e una raccolta di racconti, ma anche un romanzo che punta all’introspezione e alla qualità della voce narrante come Spavento e uno che cerca invece la magia della mimesi storica come Altai. Il fatto che inevitabilmente un certo tipo di lettori privilegi opere del primo tipo su quelle del secondo mi sembra contribuire al discredito della critica presso la maggioranza dei lettori, i cui interessi sono invece esattamente rovesciati. Se si volesse fare davvero un buon servizio al libro in quanto tale, non sarebbe meglio parlare di qualità diverse anzichè raggruppare tutto nell’unico calderone della prosa? Se uno volesse leggere qualcosa di meglio di Buticchi e gli si propone Wu Ming, gli si fa un buon servizio. Se gli si mette in mano Walter Siti te lo tira dietro e non ti chiederà mai più un consiglio nella vita.

    Seconda questione. La credibilità della critica. Questa è fatta di disinteresse nella valutazione, raffinatezza nel gusto, mancanza di partigianeria nella scelta del campione. Per le ragioni che in parte anche Giulio ha esposto, io non faccio fatica ad attribuire al gruppo Dedalus la seconda condizione, ma mi pare che sulla terza ci sia molto da dire, oggi come ieri (quanto ci hanno messo i critici de sinistra a sdoganare gente come Tolkien? Quanti di loro ancora lo paragonano agli innumerevoli e devastanti cloni che alimentano il cosiddetto “fantasy”?). Quanto alla prima, non conosco i componenti del gruppo uno per uno, ma se nessuno di essi ha potere di selezione e pubblicazione in case editrici allora ha ragione lei e io sono uno che parla a vanvera, se no ho ragione io. Uno non può arbitrare il derby e intanto uscire con la figlia di Moratti o quella di Berlusconi.

    E parliamo del risentimento. Sarebbe troppo facile dire che il mio risentimento nei confronti dell’establishment culturale di questo paese è motivato dal fatto che sono uno scrittore finora escluso dalla grande editoria e dalla considerazione dei critici: però può affermarlo solo cfhi mi ha visto fare anticamera presso un editor per essere pubblicato da una major o presso un giornalista o un critico per essere recensito. Visto che invece mi si è visto il più delle volte prendere a pesci in faccia scrittori importanti, editors e critici, per giunta firmando con nome e cognome (cosa che in Rete fanno in pochi), direi che questa cosa si può escludere.
    Il mio risentimento c’è e, come ho spiegato più volte ad Alcor, nasce proprio dal fatto che il potere di “qualificare” in questo paese è tutto della sinistra, da almeno quarant’anni (università, editoria, riviste culturali) a cui però corrisponde un atteggiamento vittimistico, e ancora più spudoratamente un look di “opposizione”, come dimostrano le domande di Nazione Indiana in oggetto o ancora di più la stucchevole polemica su Nori e la pagina culturale di Libero, quando poi i medesimi “oppositori” sono ben integrati nelle strutture culturali che dettano legge in materia. Si può essere ribelli e cortigiani a un tempo? O l’ultimo intellettuale credibile in Italia è stato Dante perchè tuonava anatemi dall’esilio?
    Io ho amato profondamente l’idea di far parte di una generazione rivoluzionaria, ma quando ne ho constatato il fallimento ho ritenuto in primis che ci fosse qualcosa di sbagliato nel progetto in sè, e secondariamente che dovevo evitarne la sopravvivenza trasferendone i simboli nella foresteria dei vincitori, in terzo luogo che la cosa più nobile da fare sarebbe stata evitare di arruolarsi coi vincitori stessi e coi reduci ben pasciuti che dai vincitori sono tenuti come giullari (questo fa Berlusconi con il catalogo Einaudi e la sua prestigiosa e sinistrosa redazione). E siccome tutti hanno diritto alla pagnotta, non rimprovererei mai uno che scrive o edita per questo o per quello, ma almeno si abbia la sincerità di ammettere che di mestiere si tratta, non fgingersi la quinta colonna di un esercito di fantasmi.

  44. alcor Says:

    @ valter

    risponderti punto per punto vorrebbe dire ripetere cose che ti ho già detto, perciò solo due, generali.

    La partigianeria è buona cosa quando è fondata su valutazioni di merito. Io parteggio eccome. L’esercizio critico, non solo da parte dei critici di professione, ma anche dei lettori come me, porta a parteggiare per quei libri che si giudicano buoni.
    La diffusione del “libro in quanto tale” non mi interessa.

    E ancora, tu dici, anzi ripeti: “il potere di “qualificare” in questo paese è tutto della sinistra, da almeno quarant’anni (università, editoria, riviste culturali)”

    Quarant’anni fa io avevo vent’anni e l’università era piena di baroni in età ancora vigorosa che di sinistra non erano proprio e hanno messo in cattedra allievi che forse adesso sono andati o stanno andando in pensione ma che a loro volta eccetera, ma soprattutto credo che né tu né io abbiamo in mano i numeri per poter sostenere che l’università è dominata dalla sinistra, possiamo magari dare ragione a Veneziani che riconosce alla destra una vivacità culturale e una capacità di produrre idee inferiore rispetto all’altra parte, perciò si vedono di più quelli che producono di più.
    E lo stesso si potrebbe dire dell’editoria, è in mano alla sinistra? really? hai i numeri?
    Perché queste cose dette così, a naso, lasciano il tempo che trovano e nutrono, appunto, risentimenti abbastanza sterili.
    Le riviste culturali, anche qui, sembrerebbe che fossero legioni, di quali parli?Ma anche se le numerosissime riviste culturali di questo paese fossero occupate dalla sinistra, perché mai la destra che tra l’altro potrebbe contare su finanziatori più ricchi, non ne fonda a sua volta?

    Il potere di “qualificare” come tu dici, si conquista sul campo.

  45. Andrea Cortellessa Says:

    @ Valter Binaghi
    Mi scusi ma è proprio lei, mi pare, a sostenere che “l’unico libro italiano che mi ha strappato ammirazione tra quelli usciti negli ultimi tre mesi è Spavento di Starnone”: che è il nostro secondo classificato. Non vedo dunque dove sia il (suo) problema. Se in questione è la posizione di Wu Ming, faccio notare che Altai si trova ben più in alto, in classifica, dell’Ammaniti la cui presenza tanto l’ha scandalizzata. Se la questione è poi che la struttura del sistema favorirebbe più un’opera del tipo di quella di Starnone rispetto a una del tipo di quella di Wu Ming, mi permetto di opinare come ad essere schematica e insufficiente sia propio questa contrapposizione solo binaria, quando ai miei occhi l’articolazione della produzione narrativa è ben piì complessa e frammentata (come rimproverai a Valerio Evangelisti nel corso di una discussione su Lipperatura molto tempo fa). Mi pare pure giusto far notare che la composizione di una comunità dipenda in primo luogo dalla disponibilità a farne parte. È stato chiesto di far parte del gruppo dei Lettori a Roberto Bui (= Wu Ming 1), allo stesso Evangelisti e a Giuseppe Genna. Invano. Infine, un altro tipo di lettore potrebbe anche capovolgere il suo ragionamento. Dal momento che per una serie di motivi (che possiamo discutere a parte, se è interessato) il “taglio” generazionale del gruppo abbraccia lettori cha vanno dalla trentina alla cinquantina, si potebbe verosimilmente argomentare che un gruppo il quale includa invece lettori over 60 farebbe pendere ancora di più la bilancia dalla parte della funzione-Starnone, diciamo, che da quella della funzione-Wu Ming.
    Seconda questione, simile a quella che all’inizio sollevò Carla Benedetti: il conflitto d’interesse. “Uno non può arbitrare il derby e intanto uscire con la figlia di Moratti o quella di Berlusconi”, dice lei. Ho già ripetuto, sino a sgolarmi (si fa per dire; diciamo sino all’atrofia dei polpastrelli), che il conflitto di interesse si può considerare tale solo individualmente parlando, e dunque mi deve indicare nome per nome chi a suo parere non sia in grado di esprimere serenamente un giudizio, fra i 140 Lettori. All’inizio, e forse a torto, ponemmo un paio di restrizioni: per essere un Lettore non si poteva essere il responsabile di un organo d’informazione a larga diffusione (quotidiani, radio o televisioni nazionali) né un dirigente di casa editrice: perché esprimere una scelta avrebbe potuto appunto confliggere con altre scelte, nello stesso campo, dal medesimo soggetto prese in osservanza alla “linea editoriale”. Ben diverso il caso per es. di un redattore a contratto, di casa editrice, come quello di Helena Janeczek (Mondadori) o Evelina Santangelo (Einaudi), o di un suo consulente esterno, come Marco Belpoliti o Gabriele Pedullà (Einaudi): tutti e quattro, ad ogni buon conto, in primo luogo autori, di narrativa e/o saggistica. Ben diverso pure il caso di un redattore, di media, come per es. Luigia Sorrentino, Giancarlo Rossi o Monica D’Onofrio (RAI) o Alessandro Zaccuri (Avvenire e Sat 2000).
    Ma forse lei invece è individualmente con me che ce l’ha (lo deduco da un commento di Alcor ma, con tutta franchezza, avrei preferito se me l’avesse detto lei esplicitamente). Allora, visto che appunto queste cose bisogna discuterle in corpore vili, mi perdonerà se per risponderle devo esporre buona parte del mio curriculum. Io, per campare e per passione (sì, ho la fortuna di fare dei lavori che mi appassionino; non esiste necessariamente una contrapposizione fra la nostra passione e il nostro lavoro) svolgo quattro mestieri, tutti regolarmente (ancorché con relativa mia soddisfazione) retribuiti: l’insegnante, l’autore di testi critici e saggistici, il collaboratore di giornali e alti media, il consulente e il collaboratore editoriale. Li faccio volentieri e, mi spiace, continuerò a svolgerli tutti e quattro. Presumo che per lei possa costituire un problema l’ultimo di essi, dunque entrerò ancora più nello specifico. In circa un decennio di “carriera” editoriale, ho svolto consulenze e realizzato edizioni (sempre appunto retribuito) per i seguenti editori: Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Einaudi, Arnoldo Mondadori, minimum fax, Garzanti, Adelphi, Le Lettere, Feltrinelli, Bompiani, Rizzoli-Rizzoli e Rizzoli-BUR, Aragno. Miei libri sono usciti da Bruno Mondadori, Bulzoni, Einaudi, Falsopiano, Sossella, Fazi, Le Lettere e Aragno. Vuol dire insomma che non solo sono uscito sia con la “figlia di Berlusconi” che con quella di “Moratti”, ma anche con diverse altre (più simpatiche e avvenenti) fanciulle. Il che fa di me, se vuole, una puttana; ma non mi pare possa far pensare che io, in altra sede, tenda ad avvantaggiare l’uno o l’altro dei miei clienti.
    Ma voglio leggere ancora più in profondità nel suo non detto (e la prego di correggermi se le attribuisco pensieri che invece non l’hanno sfiorata): dal 2006 fra questi rapporti di lavoro ce n’è uno che ho svolto con maggiore continuità ed è quello con Le Lettere di Firenze, editore per il quale ho ideato e dirigo la collana di testi italiani contemporanei fuoriformato. Un cui titolo, Cristi polverizzati di Luigi Di Ruscio, s’è piazzato primo nella classifica di narrativa dello scorso luglio, e un altro con sei autori diversi, Prosa in prosa risulta secondo nell’ultima relativa alle “Altre scritture”. Ma dov’è in questo, precisamente, il conflitto di interessi? Né il sottoscritto né i due fra i coautori di Prosa in prosa che fanno parte dei Lettori (Marco Giovenale e Andrea Inglese), né il prefatore del libro (Paolo Giovannetti), che pure ne fa parte, hanno ovviamente votato per Prosa in prosa. Una delle funzioni del nostro segretario Massimo Gezzi e di noi tre ideatori e coordinatori (Alberto Casadei e Guido Mazzoni oltre a me) è proprio di vegliare affinché venga rispettato questo (elementare) criterio deontologico. Che poi io sia assai soddisfatto che decine di Lettori qualificati condividano il mio parere, e cioè che con tutti i mezzi possibili e leciti occorra far conoscere al pubblico pià vasto possibile uno scrittore straordinario, e straordinariamente misconosciuto, quale Luigi Di Ruscio, è vero. Sono così pochi i motivi di compiacimento, di questi tempi, che non ho problemi a confessarlo. Ma personalmente non ho spinto alcuno dei Lettori in questa direzione; davvero non ho nulla da rimproverarmi. Lei, come Benedetti a suo tempo, potrà dire che comunque Tiziano Scarpa, per es., vota in una classifica entro la quale figura comunque un suo libro (esattamente questo esempio l’ha fatto di recente il quotidiano Libero). Ma è esattamente quello che vogliamo: che cioè ai critici e ad altri lettori di professioni si affianchino, in questo giudizio, anche gli autori – il cui giudizio è sempre del massimo interesse. Se noi togliessimo di classifica i libri dei votanti (come facciamo però per quelli dei coordinatori e del segretario, nonché della nostra interfaccia con l’unico sponsor Pordenonelegge, cioè Gian Mario Villalta), otterremmo che si voterebbe solo su libri di secondo piano (dal momento che molti dei migliori autori della loro generazione fanno parte del gruppo) o, in alternativa, dovremmo rinunciare a un gran numero dei nostri Lettori più esperti e qualificati (come, per sua scelta, abbiamo dovuto fare con Giulio Mozzi; il che però ovviamente non l’ha escluso dal novero dei votabili, tanto è vero che il suo libro s’è piazzato terzo nell’ultima Classifica di narrativa).
    Infine, sulla questione Nori-Libero (che non capisco bene cosa c’entri in questa discussione, ma non importa). Tanto poco mi faccio condizionare dai miei presunti conflitti d’interesse che dopo «la stucchevole polemica», come lei ha la bontà di definirla, ho personalmente chiesto a Paolo Nori – autore e «intellettuale» (checché se ne dica) che seguo e stimo da più di un decennio – di entrare a far parte dei Lettori, e lui ha accettato di buon grado (del che pure mi compiaccio). Non solo: ma, sempre dopo «la stucchevole polemica», ho recensito assai favorevolmente l’ultima fatica dello stesso Nori, la traduzione di Chlebnikov uscita da Quodlibet. Dove starebbe il mio personale “conflitto di interessi”?
    Quanto in ultimissima clausola al «look di “opposizione”», che non mi si attaglierebbe in quanto «ben integrato nelle strutture culturali che dettano legge in materia»: non so se ho questo «look» ma è perfettamente vero che mi «oppongo», e non da ora, alle «leggi» vigenti nelle «strutture culturali» entro le quali sono «integrato» (come ho sopra ordinatamente esposto). E rivendico il diritto, se non il dovere, di farlo. O forse che all’interno del Parlamento non si possa fare «opposizione» a una «legge», ove la si consideri ingiusta? È precisamente questo diritto-dovere a qualficare di “democratico” (pur con tutti i suoi evidenti e ben noti difetti) il regime vigente in questo paese da 65 anni. Il fatto che determinate forze (come quelle megafonate e istigate da Libero, per esempio) non da oggi si battano per delegittimare e criminalizzare questa «opposizione», costituisce appunto un attentato a deto regime democratico. Fatte ovviamente le debite proporzioni, è esattamente quello cui si assiste oggi nel sistema editoriale e culturale. Entro il quale un’unica «legge» si vuole – con sempre maggiore arroganza – far osservare: quella della quantità e del profitto. Una delle poche cose che sono in grado di garantirle è che il sottoscritto, in compagnia di un numero che spero sempre più ampio di persone, si «opporrà» a questa impostazione: fino a che avrà fiato.

  46. Marco Candida Says:

    A me diverte molto la prima risposta “Sta bene, grazie, come al solito”. La domanda era: “In che stato e’ la letteratura contemporanea?”. “La risposta e’ stata: “Sta bene, grazie, come al solito”. Che a me suona proprio la risposta che si darebbe a proposito dello stato di salute di una vecchia zia che non si vede in giro da anni e con cui Giulio Mozzi e’ uno dei pochi parenti rimasti a intrattenerci rapporti.

    Con questo mi pare d’aver detto tutto.

  47. Daniele M Says:

    Stefano,

    credo si possa ancora parlare di Letteratura (del resto si parla anche di Amore, qualche volta), e che si debbano fare delle distinzioni; ma bisogna considerare lo scarto tra ciascuno, nei termini in cui mi sono espresso nel primo commento. Almeno a mio modo di vedere.

    Alcor,

    Sullo “scarto”. Capita, in rete moltissimo, di trovare lettori che si azzuffano sul valore estetico o sulla qualità di un testo (tra i lettori ci sono anche i critici): a volte pare proprio che la contesa si avviluppi non soltanto sul libro in questione, ma anche su quello scarto che fa di ciascun lettore un lettore diverso. Chiarisco. Se A e B sono lettori molto preparati, hanno magari una reputazione di intellettuali, e se per A quel determinato testo è “di qualità” mentre per B vale poco, è chiaro che il motivo del crescendo argomentativo (voglio dire zuffa, in perfetto stile N.I.), quel che rode nel profondo è più di ogni altra cosa la sensazione di essere inadeguati come lettori, nell’esempio il sospetto che grava su A è l’ingenuità, mentre su B quello di non possedere le “qualità” immaginative sufficienti per poter estrarre significati da quel libro. Perché al libro appartengono anche quegli aspetti che sono di competenza del lettore, cioè il “lavoro” che lo scrittore lascia al suo interlocutore; e non sempre tutti i lettori possiedono le qualità che lo scrittore richiede per svolgere detto “lavoro”). Ripeto, per me non è solo questione di esperienze di lettura, così come il senso della musica non è questione di esperienze di ascolto. Ognuno è configurato diversamente, reagisce alle stesse frequenze in maniera leggermente diversa. Alcune persone non possiedono, diciamo così, le “qualità” per poter leggere e quindi apprezzare determinati testi. Questo va al di là del ruolo: a volte questa deficienza si legge tra le righe proprio di alcuni critici, o di alcuni bravissimi scrittori quando si trovano a commentare il testo di un collega inserito in schemi completamente differenti (sul momento mi tornano in mente Saviane e Calvino). E’ peraltro una deficienza relativa, perché si tratta appunto di sensibilità e sensorialità, per così dire, molto diverse, e tra loro incompatibili.
    Questo non vuol dire però che tutto è uguale a tutto. E vengo alla tua proposta, che accetto volentieri. Con violino o senza violino. Anche perché in questi luoghi perduti non passa mai nessuno, e un interlocutore è sempre una risorsa preziosa.

  48. gianni biondillo Says:

    Mi scuso con Giulio. Mi ricordavo del suo nome nel primo elenco, poi non ho più controllato, strada facendo, gli aggiornamenti.

    E in ogni caso: sincategorematico!

  49. vbinaghi Says:

    @Cortellessa
    Sono tra il commosso e l’imbarazzato per l’ampiezza di riferimenti (e la consumazione di polpastrelli) con cui ha voluto certificarmi il suo (onorevolissimo peraltro) curriculum. Apprezzo molto la serietà e la passione con cui ha voluto rispondermi, ma vorrei rassicurarla al riguardo: io non ce l’ho con lei, e non vedo come potrei avercela, visto che non abbiamo mai avuto occasione di incontrarci, lavorare e scazzarci in qualsiasi modo. Le cose che ho scritto le vado scrivendo da anni e riguardano un certo modo di intendere il far cultura e il far opposizione a sinistra (non la cultura nè l’opposizione in quanto tali, visto che non mi ritengo nè barbaro nè berlusconiano). Può darsi benissimo che sia la mia posizione ad essere sterilmente intransigente, come probabilmente lo è l’astensione dal voto che ultimamente pratico.
    Mi piacerebbe conoscerla, peraltro, perchè la comunicazione in Rete registra la lettera e non il tono del dire, il che è fonte di pessima comprensione reciproca. E poi perchè la questione delle categorizzazioni (non solo binaria, concordo) appassionaq il il filosofastro che cìè in me anche più dello scrittorucolo. E’ una questione che avrebbe bisogno di un contributo non solo del critico letterario ma anche del filosofo estetico, e che bisognerebbe evitare di buttare sempre in sociologia (cioè: legge Wu Ming invece di Siti, quindi è un giovane ottentotto). Brevemente, dirò che secondo me quello che manca alla letteratura italiana non è la buona fiction (Wu Ming e tanti altri) nè la scrittura più sofisticata e autoriale (Siti, Celati ma anche Starnone) ma soprattutto il tono medio e l’esplorazione della vita corrente con cui si sono sempre scritti e altrove ancora si scrivono i capolavori. E questo proprio perchè mentre la critica italiana esalta unilateralmente i secondi, il mercato si schiaccia sui primi. Tanto per essere chiari, e lasciando perdere l’Italia per un attimo, i tre libri che mi sono tenuti sul comdino per rileggerne qualche pagina ogni tanto (e ricordarmi qual è il mio vero obiettivo), sono Norwegian Wood di Murakami, Sopra eroi e tombe di Sabato e Revolutionary road di Yates. Tre grandi romanzi. Faccio fatica a vedere in quello che si scrive in Italia non dico una qualità equivalente, ma almeno una intenzione paragonabile: usare il linguaggio per scavare nell’anima dei personaggi di un romanzo, non solo per imbastire trame o suscitare gridolini di ammirazione sulla propria perizia autoriale. Se sono riuscito a farmi capire, lei potrebbe dare una ragione a questa lacuna che lamento?

    @Alcor
    “La diffusione del “libro in quanto tale” non mi interessa.”
    Molto male, mia cara. E’ così che, mentre tu ti compiaci di appartenere all’aristocraqzia letteraria che legge Siti e discute di Kafka, l’universo mondo degli scolari e dei proletari, per i quali la lettura potrebbe essere comunque una forma di emancipazione, è affidata ai supermercati dove trovano pile di Moccia e di libri scritti dai cabarettisti. Devo ricordarti che quarantanni fa in prima liceo si leggeva Manzoni, poi siamo scesi a Umberto Eco e l’anno prossimo probabilmente troveremo lo stereotipo maudit delle adolescenti sgrammaticate di Silvia Avallone?
    Noi abbiamo faticato cultura e il popolo bue peggio per lui?
    Che l’unico comunista qui dentro sia rimasto io, mi farebbe proprio ridere.

  50. giacomo sartori Says:

    caro Giulio,

    per quanto riguarda i critici che sono molto severi – ed è un eufemismo – sullo stato della nostra narrativa attuale, naturalmente uno dei nomi a cui pensavamo era, lo suggerisce qui sopra Cortellessa, Berardinelli.

    E a questo proposito Cortellessa dice: “Non troverai mai, negli scritti di un critico contemporaneo, la frase incriminata.” Però negli interventi sui quotidiani e nelle conferenze sì. Ricordo per esempio di avere letto proprio qui in Vibrisse lo spassosissimo ma anche accorato resoconto di Antonella Cilento di una conferenza di Berardinelli, il quale sosteneva la tesi suddetta. La povera Antonella, e lo riferiva appunto in modo molto divertente, si domandava allibita: “ma allora io chi sono, cosa faccio, cosè la mia vita?”. Ricordo bene questo post, anche se non mi è riuscito di ripescarlo (è precedente alla memoria contenuta nel Vibrisse attuale), ma certo lo potresti ripescare tu (sarebbe carino, visto appunto che cercavi delle prove). Lo ricordo per il semplice motivo che ho sentito Berardinelli sostenere le stesse tesi all’Istituto di Cultura di Parigi, con i funzionari dell’Istituto stesso e le signore ingioiellate del pubblico che applaudivano, e mi sono portato dietro l’incazzatura (e sai che sono una persona mansueta) per mesi.

    Ma naturalmente si potrebbe citare altri nomi, per es. Luperini, e molti altri che nel “disastro generale” salvano due o tre autori (spesso loro amici). Pescando per es. nelle pagine culturali per esempio del Corriere della Sera, si troverebbero, con un po’ di pazienza, le prove scritte che chiedi (io me le ricordo).

    Ma anche critici che sono meno severi (= che salvano un numero superiore di autori) hanno un giudizio nel complesso negativo sulla narrativa attuale, o comunque molto sufficiente. Per esempio La Porta (il quale era presente alla conferenza di cui sopra all’Istituto di Cultura di Parigi, e era d’accordo, almeno a voce, con la tesi di Berardinelli). Già il titolo del suo libro, è un giudizio negativo: “La nuova narrativa italiana: travestimenti e stili di fine secolo” sulla narrativa italiana. Come annunciato dal titolo, pochi autori superano le forche caudine delle sue (severissime) aprioristiche aspettative e delle sue aprioristiche tesi.
    Ma si potrebbero citare, e li citeremo, stai tranquillissimo, molti altri nomi, prove alla mano.

    E se devo essere sincero, con tutto il rispetto che ho per lui, anche il numero di autori dell’ultimo quindicennio che Cortellessa promuove/assolve (una decina), mi sembra esageratamente basso.
    Ma intendiamoci, non sto dicendo che non si debba essere severi. Chi mi conosce sa con quanta severità giudico i romanzi. Però mi sembra insostenibile affermare che solo 10 autori italiani degli ultimi quindici anni sono validi, alias si salvano. Semplicemente insostenibile (e io purtroppo non ho il tempo di leggere tutti i romanzi italiani che vorrei, perchè il mestiere è un altro, e quindi chissà quanti me ne scappano!).
    Non so, sarò triviale, ma mi viene in mente un commentatore di calcio (per fare un esempio calcistico che non piacerà a Cortellessa) che confessasse che tra tutti i giocatori di cui si occupa nelle sue cronache (è quello è il suo mestiere), solo una decina sanno giocare a calcio, gli altri non valgono niente.

  51. alcor Says:

    @daniele

    col violino, comincio a cercarlo

    @valter

    io non mi compiaccio proprio di niente, tu in compenso leggi male, Moccia è proprio “un libro in quanto tale”

  52. Andrea Cortellessa Says:

    @ Giacomo Sartori
    Faccio ammenda. Ho in spregio l’approssimazione e la sciattezza, e la mia frase che lei riporta è sicuramente sciatta e approssimativa. Non sono in grado di contare, a memoria e su due piedi, gli autori di narrativa italiani in attività che considero “validi” (all'”entusiasmo”, però, mi hanno portato narratori più o meno nell’ordine numerico suesposto; vero è che sempre più, col tempo, mi accorgo di leggere più spesso e più volentieri poesia e “altra scrittura” che non narrativa vera e propria).
    @ Valter Binaghi
    Non so dove lei faccia base. Se è a Roma o a Roma passa, possiamo ben conoscerci (Mozzi ha i miei recapiti). Quanto alla tripartizione che propone, mi pare ancora di grana troppo grossa. In ogni caso sì, confesso la mia colpa, sono pregiudizialmente a favore della «scrittura più sofisticata e autoriale». La quale però non mi pare escluda affatto lo «scavo nell’anima dei personaggi» (anche se personalmente userei un altro linguaggio). Dei tre libri che cita, per esempio, io ho letto e assai apprezzato Sopra eroi e tombe di Sabato, e non lo direi davvero esente da «scrittura sofisticata e autoriale». Né peraltro mi pare si possa dire per esempio di Pynchon (autore sempre citato quanto a «perizia autoriale» spinta sino ai «gridolini») che non «scavi nell’anima» ecc. (Sempre diversamente detto; chi lo nega semplicemente non lo ha letto. Di pochi personaggi della storia della letteratura posso dire che mi hanno commosso quanto il dottor Pökler dell’Arcobalento della gravità.)

  53. Andrea Cortellessa Says:

    Arcobaleno.

  54. alcor Says:

    un’altra cosa, @valter, oggi sono lenta nelle reazioni, mi scuserai se vado a puntate

    è chiaro, vero, che se Moccia passasse di qui penserebbe di te quello che tu pensi di me?
    [tanto per non diventare io sola l’oggetto di un case study di sociologia della letteratura (legge Siti, non si cura degli scolari e dei proletari, pensa di appartenere all’aristocrazia letteraria)]

  55. giacomo sartori Says:

    @ Cortellessa
    se parliamo di entusiasmo, e magari aggiungendo “duraturo” (uno dei problemi di molti nostri autori, mi sembra, è il calo di qualità dopo inizi molto promettenti) già la sua stima mi pare più condivisibile!

  56. Andrea Cortellessa Says:

    Dirò di più, Sartori. Nel 2002 è uscito (nella collana di minimum fax) un romanzo che avevo letto in dattiloscritto al Premio Calvino di due anni prima (senza essere riuscito a farlo vincere, peraltro), Ad avere occhi per vedere di una persona mai sentita, Leonardo Pica Ciamarra di Napoli. Mi entusiasmava, non posso dire altrimenti; lo recensii per due testate diverse. Un paio di anni dopo lo stesso autore (che nel frattempo avevo conosciuto) pubblicò un racconto ancora più bello, Garwick, all’interno di un’antologia uscita per lo stesso editore e di cui allora molto si parlò (ma che oggi non molto si ricorda), La qualità dell’aria. Nel 2005 gli chiesi un inedito per un’antologia di works in progress che curai per «il verri», Il libro a venire: che, concettualmente ed editorialmente, fu il vero banco di prova di fuoriformato. LPC faticò moltissimo, ma alla fine mi diede l’inedito. Che non piaceva granché – né a lui né a me. Io lo pubblicai, e lui (credo) promise a se stesso di non consegnare mai più una cosa della quale non fosse del tutto convinto. Da allora LPC è letteralmente scomparso. Ancora una volta, tempo fa, gli ho chiesto un testo e lui mi ha detto di non aver più scritto niente – da allora.
    Un caso come questo come lo devo considerare?

  57. Andrea Cortellessa Says:

    Gatwick.

  58. giacomo sartori Says:

    @ Cortellessa

    utilizzando la terminologia dell’ecologia e della sinecologia si potrebbe definire un autore “non sostenibile” (in quanto tutte le sue risorse sono state bruciate nei primi testi);
    (anche se però con un autore che ha scritto una buona cosa nel 2004, e che non è completamente riconcoglionito a causa del successo italiota, come spessissimo succede, bisogna starci secondo me ancora molto attenti)

    Vila-Matas lo includerebbe – se l’autore persiste nella sua improduttività, nel suo incompletissimo elenco di “Bartleby e compagnia”;

    in termini di entusiasmo io lo considerei appunto un entusiasmo tradito, vale a dire non duraturo (c’est la vie);

  59. sergiogarufi Says:

    @cortellessa
    una buona definizione di «qualità» si poggia proprio su criteri «esclusivi»

    di più, direi che tutte le nostre scelte, nella vita, si poggiano su criteri esclusivi: gli amici che frequentiamo, le donne amate, i posti preferiti, i libri che ci piacciono, i film, i programmi tv (and yet and yet) sono tutti frutto di una forte selezione. il gusto è fatto da mille disgusti (diceva il tale).

  60. vbinaghi Says:

    @Cortellessa e Alcor
    La nostra epoca avrebbe bisogno di un anti-Nietzsche, nel senso di qualcuno che ci liberasse dalla tirannia del lirismo e della satira come lui ci ha liberati dalla tirannia apollinea della fabula. Prediligere la squisitezza della voce rispetto alla perspicuità della canzone, sarà pure indice di orecchio fino, ma fa perdere di vista ciò che nell’arte è altrettanto importante, cioè la risoluzione degli affetti nella forma.
    Il problema è estetico e politico. La disarticolazione degli stereotipi narrativi è salutare nei momenti di passaggio, ma la rinuncia a rappresentare allontana l’artista dal popolo, anche se compiace i critici, e abbandona il popolo alle seduzioni più triviali.
    Mi scuso se sono un po’ criptico, l’ultima cosa che vorrei è affettare cultura, ma l’ora è tarda e il discorso sarebbe lunghissimo.

  61. alcor Says:

    @valter

    scendi dalla macchina dl tempo e torna qui con noi, nel 2010, dove il popolo non c’è più ed è stato sostituito da altre categorie

    [la “squisitezza della voce”, la rinuncia a rappresentare che allontana l’artista dal popolo, non sei criptico, no, e non affetti cultura, mi pare invece che ti sei perso alcuni passaggi, ma è vero che il discorso sarebbe lunghissimo, e l’ora è antelucana, ho scoperto Kentridge, di recente, che non conoscevo, vai a vedertelo su youtube, sono sicura che ti piacerà]

  62. vbinaghi Says:

    In effetti si, è davvero notevole.

  63. federica sgaggio Says:

    @Andrea Cortellessa e sergiogarufi: lo so che la qualità è un concetto che di per sé esclude, così come qualunque concetto capace di contemplare la possibilità dell’esistenza di una coppia di valori «a» e «non-a».
    Non mi spiace affatto che – come scrive Cortellessa, che per il commento ringrazio, così come Sergio – «una buona (ancorché ovviamente approssimativa) definizione di “qualità” si poggia proprio su criteri “esclusivi” anziché “inclusivi”».

    Però la qualità esclusiva del concetto di qualità – e chiedo scusa per il bisticcio di parole – non m’impressiona affatto se non nel momento in cui la sua rivendicazione si sostanzia in ciò che definivo la creazione di «piccoli empirei nei quali radunare gli eletti».

    Non credo di avere espresso una tautologia. Parlavo di «creazione di una sottospecie di “società dello spettacolo” esattamente uguale, nei meccanismi ma non nell’estensione topografica, a quella che con furiosa veemenza o con altèra degnazione critichiamo in continuazione».

    Non mi sogno di negare che chiunque abbia il diritto di giudicare in base ai propri criteri di qualità.
    Dico che non si può fingere che l’inclusione o l’esclusione nei «piccoli empirei» non sia un oggetto d’interesse anche sociologico o relazionale, anche per le dinamiche che mette al mondo.

    Esse possono prescindere dalla «qualità» tanto delle persone quanto dei loro scritti, e possono sfumare in dinamiche relazionali fra singoli e fra singoli e gruppo analizzabili anche sotto la lente freudiana, o la lente dei sentimenti basici: quelli dai quali l’argomentazione della «qualità» si pretende non inficiata.
    Quelli che vengono considerati agenti inquinanti del pensiero altrui e mai del proprio. Quelli che raramente accettiamo di integrare consapevolmente nell’analisi della nostra realtà, perché coltiviamo l’idea di essere – sì – di parte, ma portatori di una parzialità che non ha a che vedere con viscere e pancia.

    In altri termini: io non riesco (può essere un problema mio, per carità) a configurare la concettualizzazione condivisa della «qualità» come un’operazione tecnica o neutrale nata in automatico dalla premessa che si condividono background, studi, letture, esperienze, prospettive sul mondo e sulle cose.

    Essa è anche espressione di potere e di volontà inclusiva o esclusiva che preesistono al riconoscimento della qualità.
    Il punto è in quella pre-esistenza.
    O, detta in termini rozzi: una parte della questione sta nel «giro» di cui si è ritenuti far parte.

  64. federica sgaggio Says:

    Ps. Mi è chiaro che Cortellessa riconosce l’esistenza della «visceralità». Il mio punto è relativo al fatto che è su questo – e non su un’idea di qualità neutrale – che vedo costruiti i piccoli empirei».

  65. Andrea Cortellessa Says:

    @ Federica Sgaggio
    C’è molto di vero, in termini generali, in quel che dice. Per un lettore di Foucault, peraltro, la constatazione che ogni scelta sia «espressione di potere e di volontà esclusiva o inclusiva» è appunto una tautologia. Ma questo vale per tutte le scelte, e per tutti i gruppi. Di conseguenza, per uscire dalla tautologia, sarebbe opportuno che valutassimo le scelte, in concreto, dei vari gruppi “su piazza”. Come sempre, non basta dire «lì c’è un potere». Bisogna rispondere alla domanda «come viene esercitato? quali valori propugna? quali obiettivi persegue?». (E anche: «in realazione a quali altri poteri si rapporta?».)
    Le scelte del mercato, in letteratura, sono sotto gli occhi di tutti e sono le uniche che vengano riprodotte e megafonate, concordemente e in modo bypartisan, dai mezzi di comunicazione di massa (le rare volte, beninteso, in cui questi decidono di sfiorare il mondo letterario). Nell’inchiesta-questionario di Nazione indiana, che tanto poco è piaciuta a Giulio Mozzi, ogni intervistato (legittimamente, ovvio) se ne va per la sua tangente (legittimamente, ribadisco; ma a conferma che viviamo un tempo privo di qualsiasi punto di riferimento, quand’anche polemico, col quale orientarci; e sia sempre lodata la fine delle ideologie per questo). Su una sola cosa mi pare concordino: e cioè che questi condizionamenti del mercato hanno per risultato una tendenziale standardizzazione non tanto degli imput editoriali (il che sarebbe ovvio e, da un certo punto di vista, sacrosanto), quanto dell'”orizzonte d’attesa” dei singoli autori.
    Allora, se invece guardo al funzionamento concreto delle Classifiche di qualità di Pordenonelegge, per fare un esempio personale, vedo attivi meccanismi che possono essere a loro volta decostruiti (non c’è nulla che non possa essere decostruito), ma che sono concretamente alternativi rispetto a quelli mercantili che, per tendenzialmente unanime osservazione, stanno formattando e appiattendo l’immaginario dei nostri autori. La invito a discutere per esempio la composizione del gruppo (magari quando saremo finalmente riusciti a “caricare” le biobiblio dei 140 Lettori), sarà un contributo assai utile. E magari si vedrà quanto sia verosimile la presunta omogeneità del campione (l’effetto “conventicola” la cui denuncia è sempre lì dietro l’angolo). Il «giro» di cui parla, se c’è, ha come propri connotati caratterizzanti, aspetti che mi sento di rivendicare: competenza in materia letteraria, passione per la contemporaneità, generosità personale (si tratta, torno a ribadirlo, di un’attività squisitamente volontaristica). Queste sono le uniche costanti che “includono” tutti i componenti di quell’insieme (e di conseguenza “escludono” altri). Il che non toglie, come pure ho tante volte ripetuto, che nostro obiettivo sia allargare ancora di più questo gruppo, e ulteriormente diversificarlo al proprio interno.

  66. federica sgaggio Says:

    Sì, vero.
    Da Foucault in giù, tutto vero.

    Io però non posso che ripetere che una parte della questione sta nel «giro» di cui si è ritenuti far parte.
    Si è ritenuti. Non «si fa parte».
    Questo non è tautologico, credo.

    Farò un esempio terra terra.
    Nel fatto che qualcuno ipoteticamente ritenga – credo che nessuno se ne ponga il problema, onestamente, ma l’esempio ha un suo senso – me mozziana, ne faccia discendere la conseguenza che io approvi, faccio per dire, tutte e otto le domande di Giulio Mozzi a Nazione indiana, il loro tono e il loro obiettivo, e ne concluda che – per la proprietà transitiva delle relazioni – se Giulio Mozzi gli è indigesto, be’, allora gli sono indigesta anch’io, non c’è solo Foucault.

    C’è anche Freud, e c’è il pre-giudizio, e c’è una volontà esclusiva (o inclusiva, perché vale anche il contrario) preesistente al giudizio, o a qualunque idea di qualità, o a qualunque autentico desiderio di capire gli argomenti di persone che sono già state catalogate nel loro essere di qui o di là e in forza di questo argomento giudicate esistenti/incluse o inesistenti/escluse.

  67. vibrisse Says:

    Ho letto tutto. Mo’ ci penso.

    Un’osservazione al volo. Scrive Andrea Cortellessa:

    Il «giro» di cui parla [Federica Sgaggio], se c’è, ha come propri connotati caratterizzanti, aspetti che mi sento di rivendicare: competenza in materia letteraria, passione per la contemporaneità, generosità personale (si tratta, torno a ribadirlo, di un’attività squisitamente volontaristica). Queste sono le uniche costanti che “includono” tutti i componenti di quell’insieme (e di conseguenza “escludono” altri).

    Sospetto che ci sia un’altra costante: la volontà di far parte di quel “giro”, ossia la volontà di poter dire di sé stessi, con il sostegno di tutti gli altri centoquaranta: “Io ho competenza in materia letteraria, ho passione per la contemporaneità, ho generosità personale”.

    Ho aderito inizialmente all’iniziativa, sulla quale avevo alcuni dubbi, per la (gentile) insistenza di Alberto Casadei prima e Andrea Cortellessa poi. Mi sono chiamato fuori assai presto, nel momento in cui mi sono improvvisamente reso conto di non avere competenza in materia letteraria, di non avere passione per la contemporaneità, di non avere generosità personale: e, di conseguenza, di non avere alcuna volontà di poter dire di me stesso che, quelle cose lì, ce le avevo.

    giulio

  68. federica sgaggio Says:

    @ Andrea Cortellessa.
    Post scriptum: sarò felice di leggere le bio-biblio dei 140 lettori. Però vorrei dire con chiarezza che non ho fatto riferimenti né al gruppo di Pordenonelegge né a Nazione indiana, perché ciò di cui intendevo dire non ha diretta relazione con nessuno dei due gruppi; vale in termini generali, credo; è un discorso che sta in piedi da sé.

    Esporre l’opinione che la determinazione della qualità sia o possa essere un preconcetto derivante in vari modi e misure dal potere equivale a tentare un avvicinamento proprio al punto della relazione con altri poteri (e con il maggiore o minore potere di altri soggetti formalizzati con cui si è in rapporto).

  69. Andrea Cortellessa Says:

    @ Vibrisse
    Caro Giulio. Ecco, quando scrivi cose come “Mi sono chiamato fuori assai presto, nel momento in cui mi sono improvvisamente reso conto di non avere competenza in materia letteraria, di non avere passione per la contemporaneità, di non avere generosità personale”, non ti attiri soverchie simpatie. Apprezzo molto, in genere, questo tuo stile; ma mi rendo conto meglio, ora che ne faccio di persona le spese, che con una certa frequenza ti prende la mano. E finisce per farti dire il contrario del vero, o comunque del verosimile. Come i tuoi presunti «devoti», qui, non potranno che testimoniare (costretti dunque a darti torto, una volta tanto): convinti a loro volta che tu, appunto, sia assai competente, appassionato e generoso. E’ un «vero», questo, beninteso congiunturale, locale, consensuale: qui e ora io ti ritengo competente, appassionato e generoso. E dunque penso che tu abbia fatto molto male a uscire dal gruppo dei Lettori: così indebolendo gravemente un’iniziativa che qui e ora io ritengo utile, opportuna e giusta. (Congiunturalmente, localmente, consensualmente parlando.)

  70. Andrea Cortellessa Says:

    @ Federica Sgaggio
    D’accordo che la «determinazione della qualità» sia l’esercizio di un potere. Restando nella fattispecie letteraria, si sa per esempio come l’ammissione nel canone di un determinato testo sia sempre frutto di un conflitto delle interpretazioni: e dunque di diversi «poteri» retorici, intellettuali e ideologici. Ma appunto, ricollegandomi a quanto le rispondevo prima: tale «potere» non può essere stigmatizzato (o, per ipotesi, idolatrato) in senso assoluto: esso lo si può bensì considerare e giudicare solo in relazione agli altri poteri cui si rapporta. In questo caso, in relazione a quello – oggi ben più forte e capillarmente percepito – del mercato. Tanto per uscire dall’astrazione: la «critica» – sia essa esercitata o meno nelle sedi deputate, quelle pubbliche; perché poi in realtà essa, nel senso della valutazione critica dei testi, veniva (e viene) esercitata anche in privato, nelle sedi editoriali, come risulta anche dalla discussione condotta da Giulio nel thread di Piersanti su NI – era in passato un «contropotere» forte, a tratti persino dominante. Pensiamo al celebre episodio del rifiuto del Gattopardo da parte di Vittorini. Un pensiero critico (nella fattispecie, peraltro, erroneo) poneva il veto a un grande editore commerciale (Mondadori) su un testo dalle evidentissime potenzialità commerciali. Oggi questo sarebbe inconcepibile (lo dico anche per rispondere a Mozzi: certo, gli scrittori in editoria ci sono ancora – ma hanno meno potere): il che significa che, nella bilancia con quello del mercato, il «potere» critico ha perso infinitamente terreno. Gli squilibri che riscontriamo derivano, per me, in parte importante da questo mutamento.

  71. federica sgaggio Says:

    «Presunti “devoti”»…
    Quel che dicevo sta qui.

    Presunti devoti un accidente, mi vien da dire, e mi dispiace per la veemenza.
    Chiunque lo presuma, presume una sciocchezza e fa grave torto all’autonomia di giudizio di coloro a cui attribuisce la presunzione di devozione. E lo fa perché serve alla sua interpretazione del mondo.
    Ma è proprio la presunzione di devozione a un tale o a una comunità che crea inclusione ed esclusione.
    Altro che il giudizio condiviso sulla qualità.

  72. Alcor Says:

    Eppure è così bella e ricca la lingua italiana, così piena di implicazioni, suggestiva, carica di tradizioni, modi, storia. Molto più che di clave, vorrei aggiungere.
    Son di corsa, lontana dai dizionari, e ne posso dare solo un fugace esempio trovato in rete:

    André Breton, 42 rue Fontaine, Paris

    Roma, 21 settembre 1923
    Mio caro amico,
    Ho ricevuto la vostra lettera di rimproveri. Avete ragione, ma in quel momento non potevo inviarvi altro e ho pensato che le foto potessero andare.
    È inteso, vi farò, a matita o a penna, nuovi disegni dai miei ultimi lavori e ve li manderò il più presto possibile; abbiate la pazienza di aspettare almeno una settimana e soprattutto non vi arrabbiate, mi bastano i nemici che ho nel mio paese per averne anche all’estero.

    Credetemi vostro devotissimo
    G. de Chirico
    Via Appennini 25b – Roma

    E’ una formula, e le formule hanno una loro storia, ma certo de Chirico godeva di qualche autonomia di giudizio nei confronti di Breton, eppure la sceglie, e la sceglie per le sue implicazioni di vicinanza intellettuale e persino affettiva.

    Dove starebbe il mio grave torto, perché mia è stata la colpa di aver usato il termine, qui, se non nell’idea preconcetta che io abbia voluto far torto all’autonomia di giudizio di qualcuno e soprattutto perché servirebbe alla mia “interpretazione del mondo”?
    Interpretazione del mondo, addirittura.
    Posso sapere perché avrei dovuto venire qui a insultare qualcuno?
    Il movente, quale sarebbe?
    Perché se il movente non c’è e l’arma del delitto è così passibile di interpretazione e mi pare che non ci sia neppure il morto, tutto questo mi sembra un tantino ridicolo.

  73. federica sgaggio Says:

    Non lo so, Alcor.
    Rispondevo ad Andrea Cortellessa che parlava di «presunti “devoti”».

    In generale, comunque – esattamente come De Chirico, suppongo – preferisco essere io, eventualmente, a dichiarare la mia eventuale devozione per chiunque.

  74. Alcor Says:

    ovvio, ma poiché qui la parola “devoto”, e tu lo sai, l’ho introdotta io, preferisco, come te, che non se ne associ l’uso qui fatto a un grave vulnus o all’intenzione di un vulnus nei confronti dell’autonomia di giudizio di chicchessia.

    tu rispondevi a Cortellessa, sì, ma io non sono scema

  75. federica sgaggio Says:

    Non ho mai pensato che fossi scema, ci mancherebbe altro.

    Semplicemente, ragionando di qualità, replicavo a Cortellessa che «è proprio la presunzione di devozione a un tale o a una comunità che crea inclusione ed esclusione. Altro che il giudizio condiviso sulla qualità».

  76. Andrea Cortellessa Says:

    @ Federica Sgaggio
    Mi scusi ma forse ha perso un passaggio. In un’altra discussione (o forse all’inizio di questa medesima) ci si è avviluppati in una disquisizione sull’uso del sintagma «devoti di Giulio Mozzi» da parte di Alcor. A me pareva (e così lei confermava) un’espressione ironica per indicare che tra i frequentatori abituali di questo sito diversi (i quali hanno confermato tale circostanza, pur contestando l’uso di un termine non so perché così sgradito) hanno frequentazioni con Mozzi anche extra-Rete, e ne condivdono alcuni presupposti culturali. Quando ho poi confutato una dichiarazione di Mozzi, che si dichiarava non appassionato, non competente, non generoso, ho fatto appello a questa «comunità» (come è stata appunto definita), la quale ben conoscendo Mozzi ha tutte le ragioni per concordare con me e smentire (nella fattispecie) lui. A mia volta ho fatto quindi dell’ironia. Magari non è un granché, ma non intendeva offendere nessuno.

  77. federica sgaggio Says:

    Non c’è problema. Non mi sono offesa.
    Penso solo che supporre devozione negli altri sia una scorciatoia per giudicarli come ci vien comodo (e conseguentemente includere o escludere), senza occuparci della qualità.

    Però l’ironia mi va bene; è una cosa simpatica.

  78. federica sgaggio Says:

    Ah, un’altra cosa.
    A me non pare strano che la definizione di «devoto» (di Giulio Mozzi o di altri) riferita a qualcuno da terzi sia percepita come una definizione sgradevole.

    Oltre che per il fatto che essa serve a scorciatoia inclusiva o esclusiva, è – credo – probabilmente sgradevole anche in quanto proveniente da valutazione altrui.
    Come dicevo ad Alcor in relazione alla devozione che De Chirico dichiarava nel 1923 a Breton, infatti, tendo a credere che ciascuno abbia il diritto di decidere in proprio se e a chi essere devoto.

    Incidentalmente (ma è veramente un aspetto secondario), ora – 87 anni dopo De Chirico – nessuno concluderebbe una sua lettera con un «credetemi vostro devotissimo». Non solo per l’uso dell’appellativo alla seconda persona plurale; ma anche per una certa desuetudine dell’aggettivo devoto, nel tempo caricatosi di una luce più religiosa – non necessariamente confessionale – che amichevole.

  79. Andrea Cortellessa Says:

    @ Federica Sgaggio
    Nel 1923 «vostro devotissimo», come formula di saluto, poteva forse (forse, conoscendo i due personaggi) essere non ironica. Oggi lo sarebbe senz’altro. Io molto tempo fa mi rivolgevo a un certo scrittore, quando gli scrivevo delle mail, firmandomi «mit Unterthänigkeit», come faceva Hölderlin quando scriveva le poesie di Scardanelli. Che potrebbe anche tradursi come «devotamente», ma che io tradurrei piuttosto «con soggezione». Ora, è evidente che facessi dell’ironia (anche in quel caso, di dubbia lega), ma l’ironia ha sempre qualcosa della preterizione. Infatti per quella persona in effetti provavo, e provo, una certa «soggezione».

  80. federica sgaggio Says:

    Ma no, l’ironia va bene!

    Mit Unterthänigkeit
    Federica Sgaggio

  81. federica sgaggio Says:

    (È che quando si sceglie da soli di dirsi devoti a qualcuno, l’ironia si coglie meglio di quando si viene definiti devoti da altri, mi sa…)

  82. andrea inglese Says:

    a gm,

    perfettamente in ritardo e in margine alla discussione, dopo aver letto le risposte date ad Helena, volevo dire che ho apprezzato delle risposte questa parte della seconda:

    “mi convinco che la tendenza verso un’industrializzazione crescente dell’editoria non solo frena la pubblicazione di opere non adatte a essere pubblicate da un’editoria caratterizzata da una tendenza verso un’industrializzazione crescente, ma ne frena addirittura l’apparizione, e prima ancora il concepimento, e prima ancora il desiderio.”

    e la sesta, dove si esorta i lettori (di poesia) a fare una cosa semplice (che fanno di rado): comprare i libri di poesia.

    Nel caso nessuno abbia ancora risposto alla tua controdomanda alla nostra prima domanda, ti posso rinviare ad un mio articolo apparso su “Trivio” n°0, 2009, “poesia in prosa e arti poetiche”. Esso include un paragrafo intitolato “miserie del genere ovvero il chiodo fisso di berardinelli”, che credo possa offrire qualche elemento di risposta intorno a qualcuno dei più fedeli detrattori del genere poesia.

  83. andrea inglese Says:

    E per chiudere… Non sono poi d’accordo con la tua sesta risposta, cioè non la trovo esaustiva. Ma questo è un’altra faccenda. E’ importante dire questa semplice ma non banale cosa. Chi ama la poesia, si compri i libri di poesia.

  84. vibrisse Says:

    Credo che Nazione indiana dovrebbe rispondere come Nazione indiana, e in Nazione indiana, alla “controdomanda” che ho posta a Nazione indiana in Nazione indiana.

    Giusto?

    (Non so, mi par di essere come La Repubblica che fa le dieci domande a Berlusconi. Possibile che non si possa avere uno straccio di risposta?).

    gm

  85. andrea inglese Says:

    se vuoi giulio, ti riscrivo la mia risposta con tanto di timbro pennuto su carta intestata pennuta… (ma chi garantirà dell’autentica indianità del timbro?)

    oppure: ritienti risposto in misura di 1/20, che non è poi male…

  86. vibrisse Says:

    Mi stai dicendo, Andrea, che la tua risposta, costituita da un rinvio a un articolo apparso in una rivista, è la risposta ufficiale di Nazione indiana?

    Mi stai dicendo che Nazione indiana, a una domanda da me posta in Nazione indiana, intende ufficialmente rispondere con un rinvio a un articolo della rivista “Trivio” inserito nella discussione in calce a un articolo di vibrisse?

    Mi sembra un modo un po’ contorto di dare una risposta ufficiale. Oppure, appunto, non è una risposta ufficiale: che è quella che io chiedo, e che ritengo mi spetti.

    Da venti giorni.

    giulio mozzi

  87. andrea inglese Says:

    Il fatto che tu ritenga ti spetti una risposta nei termini che tu immagini debba esserti data è ciò che mi impedisce di continuare seriamente questa discussione con te, Giulio.

  88. Aldo Ricotti Says:

    Bellissimo dibattito, però mi viene curiosa una domanda semplice semplice. Se io riesco a distinguere un critico da un non critico posso essere sicuro che il critico legge i miei racconti pubblicati? I 140 lettori di Dedalus, mi misi a ridere quando seppi di questi qui, hanno mai letto il mio libro di racconti e gli altri migliaia di libri usciti nel 2009?

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