Tq, liberisti involontari?

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di Valeria Pinto

[Riprendo questo intervento di Valeria Pinto dalla discussione in corso, in calce alla pubblicazione dei “manifesti” di Tq, in Nazione indiana. Condivido nella sostanza le perplessità dell’autrice. Ho dato al testo un titolo di mia invenzione. gm].

C’entro per poco. Ancora per un poco nella Q. E forse un poco di più nei lavoratori della conoscenza (essendo, come si dice, “incardinata” da un po’ di anni all’università come associato di Filosofia teoretica). Ma per quel poco che c’entro vorrei dire un paio di cose. Ossia che penso che questo manifesto sia molto importante e che però avverto un problema. Diciamo che è un problema di spirito e di lettera. Nel senso che condivido fortemente quel che in principio mi è sembrato lo spirito del manifesto e non avrei esitato ad aderire in modo anche operativo, se poi non fossi rimasta disorientata da passaggi letterali che, trattandosi di un documento steso da letterati, fatico a pensare siano ingenui o casuali. Ma ditemi voi.

Mi lascia perplessa il fatto che un manifesto avverso alla “epidemia neoliberista” si lasci però impassibilmente contagiare da termini, concetti e parole simbolo del lessico neoliberale, elevandoli persino a punti programmatici. “Gestione della cultura basata sulla competenza”, si legge. Se piace, passi per “gestione della cultura”. “Competenza” però è una parola compromessa: la sua programmatica distinzione da “conoscenza” serve oggi a divaricare il sapere operativamente utile (skills per capirci) dalle presunte oziosità da intellettuali. Capisco, almeno credo, la buona intenzione di rivendicare il ruolo dell’“intellettuale specifico”, dedito al proprio oggetto, contro l’“intellettuale universale mediatico”, che svolge il suo servizio alla modernizzazione delle forme di assoggettamento fornendo concetti rassicuranti sull’intera estensione dell’esperienza, e con ciò di fatto reclamando il diritto alla banalità di contro a “professionisti considerati arcaici, scansafatiche, ed elitistici” (vedi l’Appel des appels – un bel manifesto, che ha qualosa da dire anche sugli ex militanti poi convertiti). Però avanzare contro di questo formule come “impegno di trasparenza e di riconoscimento della competenza e del merito” risulta proprio disorientante. Sono slogan che ci si aspetta in altre bocche. Quelle dei ministri dell’attuale Governo, o in quelle della sinistra in perenne ansia di intercettare le battaglie della cosiddetta modernizzazione (su cui, guarda caso, la destra è solita anticiparla)… insomma, sono formule da Gelmini o Giavazzi, da Brunetta o Abravanel: che ci fanno in questo manifesto?

La stessa domanda sorge quando il richiamo alla “qualità” diventa addirittura voce programmatica. Di per sé, è vero, il termine qualità ha una grande storia e lascia margini in più rispetto ad altre espressioni univocamente connotate in senso neoliberista; ma come trascurare che da tempo esso è stato sequestrato dalla retorica neoliberista e desostanzializzato a designazione di qualcosa che può avere valore solo in funzione di altro (e mai in sé)? Se si cerca qualità su Wikipedia s’incontra un invito alla disambiguazione, e poi come primo significato quello di una “conformità” variamente declinata che rimanda a “una misura delle caratteristiche o delle proprietà di una entità (…) in confronto a quanto ci si attende da tale entità, per un determinato impiego”; la cosa è indicativa dello statuto corrente di questo termine e l’elenco sotto “Definizione di qualità” merita davvero di essere letto. Del resto il mondo della valutazione e dell’audit è tutto un fiorire di acronimi con qualità dentro (MCQ, QA, ENQA, QMS, QFD, APQP, CQAF, EQARF, QANRP, EQAVET, BEQUAL, EFQM… ci si muove oramai nell’ordine delle centinaia, senza che manchi naturalmente – un monito? – TQ). Queste confusioni sono qualcosa di completamente estraneo all’orizzonte del manifesto? Forse no, se è vero che nel dibattito è persino balenata l’idea di adottare un marchio di qualità da apporre ai libri “meritevoli”… Ma per fortuna il bollino è scomparso nella redazione finale.

Non così un altro topos che tradizionalmente si accompagna alla “volontà di sapere” della governamentalità neoliberista panopticamente orientata all’efficacia e all’efficienza: la “trasparenza”. Dove, ancora una volta, si capisce il desiderio di evitare tante torbidezze che possono attraversare la storia di un libro, ma davvero è strano che sfugga la coincidenza oggi tra trasparenza e controllo sociale, ossia controllo dell’opinione comune di un pubblico di consumatori preventivamente formato, costantemente foraggiato e accuratamente misurato e sondaggiato… Quando più avanti s’insiste sull’uso di “buone pratiche” e “cattive pratiche”, viene da chiedersi quale cattiva coscienza abbia frenato dal metterle in inglese, best practices… E’ disattenzione? Cedimento inconsapevole ad immagini oramai consuete? O cos’è se no? In tutti i casi spiazza.

Perché è evidente che evitare il ricorso al “merito”, alla “qualità”, alla “competenza” e alla “trasparenza” e così via non significa che si voglia il demerito, l’incompetenza e l’opacità. Significa però un po’ di scuola del sospetto o anche solo sapere che “quando accetti un frame, hai già perso” (Lakoff, Non pensare all’elefante, e Nori su). Non si tratta perciò neppure di idiosincrasie, vezzi morettiani. Non è che queste parole diano fastidio. E’ che suonano all’unisono con una “logica della situazione” che “si presenta come una sorta di ordine delle cose al quale non ci si può sottrarre, anonimo e analogo al martello senza padrone che non cessa di picchiarvi nel modo più regolare e più sordo” (Laval). Perché le incontriamo anche qui? Che cosa significa?

Penso che ci voglia una risposta, perché si tratta di distinguere tra due prospettive.

Una è che tutto alla fine si risolva in una sorta di richiamo etico, in una deontologia professionale dell’operatore della conoscenza (in effetti oramai tutti – oltre alla corsa ai bollini di qualità, o meglio nella cornice di questa corsa – si danno un codice etico, dalle università agli ospedali passando per le banche; e “etica sociale di impresa”, “bilancio sociale” e così via sono espressioni di grande successo nel neoliberismo). In questa direzione mi sembra andare la lettura di chi vede il manifesto come un invito affinché le persone “prese dentro il lavoro editoriale, incastrate nei meccanismi aziendali” facciano “ciò che si può per far adottare certe pratiche” apprezzabili: così Giulio Mozzi, che giustamente in questa prospettiva osserva che allora non si sta proponendo nulla che non sia ovvio. E in effetti in questa prospettiva il riferimento a competenza, merito e trasparenza non suscita la minima increspatura (né la suscitano altri forse inconsapevoli cedimenti del manifesto ad immagini consuete e rassicuranti, come l’auspicio – politicamente un po’ problematico per la verità – alla ricomposizione del patto sociale che garantiva un “rapporto diretto tra crescita del livello d’istruzione e crescita del reddito”).

L’altra prospettiva è che il manifesto voglia essere l’invito (nonostante il prezzo da pagare in termini di ampiezza di adesioni e di consenso: le prime defezioni ne sono un sintomo) ad una “insurrezione delle coscienze” di carattere davvero politico, che oggi significa anzitutto chiarezza nel riconoscere i dispositivi messi in opera ovunque dalla mano per niente invisibile della razionalità neoliberale. La quale, sia detto per inciso, risulterà forse una categoria mediaticamente vaga (cfr. Il Foglio), ma tra i lavoratori della conoscenza impegnati in studi specialistici sul tema (ad esempio in ambito filosofico, o, più genericamente e se più gli si dà credito, nelle Humanities di oltreoceano) è assai meno vaga di tante altre categorie euristicamente fondate. Solo in questa chiave politica, credo, acquistano spessore le pratiche di resistenza suggerite nel manifesto: una resistenza all’altezza del mutato orizzonte, che non ha più il carattere della sollevazione generale e dello scontro frontale, ma la forma di un’opposizione reticolare di disinnescamento, smascheramento e anche boicottaggio di norme e prassi per lo più interiorizzate (tra cui rientrano anche i termini e parole chiave denunciati sopra!), ossia un lavoro su di sé che nell’interdire determinati comportamenti propri non ha lo scopo di moralizzare condotte ma di smontare dall’interno una macchina, o meglio una rete di congegni, che non può funzionare se non grazie a inavvertiti consensi.

In questo senso, per esempio, la battaglia sistematica di chi lavora nell’università, oggi che sono all’ordine del giorno i nuovi statuti, potrebbe essere quella di esigere che in essi il sapere venga riconosciuto come “bene comune”, come appunto suggerisce questo manifesto; e, ancora, oggi che si comincia a intravedere l’impronta tecnocratica della neonata agenzia nazionale di valutazione, quella di rifiutare, smontare, portare in secca ogni approccio bibliometrico e di fitness intellettuale nelle pratiche di valutazione, comunque confezionato e a tutti i livelli, scuole comprese… e così via.

“Questo non è un appello che basti firmare: questo è un invito, aperto a tutti coloro che lavorano nell’ambito della cultura e delle arti, a pensare e ad agire assieme”. Pensare ed agire assieme mi piacerebbe molto; anzi, penso che sia necessario; per questo, ripeto, trovo questo manifesto un fatto importante. Però ditemi perché è scritto così.

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20 Risposte to “Tq, liberisti involontari?”

  1. Filippo Albertin Says:

    Analisi piuttosto capillare, e molto fertile per una serie di ragioni che adesso non ho il tempo di sintetizzare. Ma di cosa? Di un testo, ovviamente; e di che si poteva fare giustamente l’analisi? Posto che un manifesto dovrebbe agire come spinta all’azione, anche a mezzo di parole ambigue e fuorvianti se lette singolarmente, ma in ogni caso precise per chi, leggendo, si riconosce in esse (a mo’ di illuminazione), restiamo quindi per un attimo sulle parole. Un esempio: Quale partito politico non vuole il “bene per l’Italia”? Nessuno, né a destra né a sinistra. La perifrasi “bene per l’Italia” è univoca, ma i contenuti sono molteplici nella mente di chi pronuncia e di chi ascolta: dallo slogan per farsi eleggere al vero impegno politico, dalla militanza armata alla frase detta tanto per dire, da Gramsci a Mussolini, da Pannella a Berlusconi, da Di Pietro a Bersani, da Casini a Fini, dai centri sociali occupati ai club dei giovani del PDL, dagli onesti ai tramaccioni, senza alcun pregiudizio in termini di colore e ideologia, tutti hanno in qualche misura in mente una stessa sequenza di suoni che è “bene per l’Italia”. Ma (come direbbe qui qualcuno, e molto meglio di me): di cosa parliamo quando parliamo del bene per l’Italia? Questo è il punto. Non tanto chiedersi “perché si usa qui questo termine?” (magari vecchio, fuorviante, ambiguo, contraddittorio, poco chiaro), quanto chiedere (e questa non è la fase più adatta a chiederlo) “in che senso intendete trasformare in azione l’intento espresso in questo termine?”. In questa fase, quindi, vedrei, più che una (sola) analisi, un’intervista, un confronto giornalistico in termini di idee potenziali. Quali sono le prime azioni che intendete implementare?

  2. christian raimo Says:

    Valeria, la tua è un’analisi preziosa. I manifesti stanno per fortuna ricevendo quello che chiedevano, critiche capillari nel merito anche da chi non li ha elaborati. La tua fin adesso è la migliore, a mio parere, e mette il dito su una piaga di cui tu stessa devi prenderti a questo punto una responsabilità: partecipare a un’elaborazione comune dall’interno.
    La piaga è la difficoltà utilizzare un linguaggio chiaramente devastato da anni di marketing culturale e politico. Competenza è una parola inutilizzabile? Forse sì. Merito anche? Sono convinto di sì in questo momento. Etc… Il lavoro pubblicitario sulle retoriche è stato così efficace che oggi buona parte del lavoro politico è un lavoro di destrutturazione e ristrutturazione di quelle retoriche. Le buone e le cattive pratiche, sono come le buone e le cattive retoriche. Socrate e i sofisti, stiamo sempre là.
    E come vedi, anche nella parte che chiama all’azione, molto di quelle che si pensa di fare è anche restituire una dimensione politica a pratiche di conformismo mercatista. E “Guerrilla” evoca il Che in Bolivia o i Tupac Amaru come le più invasive campagna di guerrilla marketing. Per noi, si sperava evocasse anche il guerrilla gardening.
    La stessa “doppiezza” evocate da Giulio nel precedente intervento va contestualizzata sempre di più. Per me vuol dire “essere nel mondo, ma non del mondo”, per altri vuol dire paraculaggine.
    Per questo, ti dico, è fondamentale, più di ogni altra cosa, questo ritrovarsi: per slegare le parole e i concetti da una comunità che non esiste, e legarli invece a una comunità che esiste.
    Grazie (questo era anche il senso).

  3. enrico Says:

    … nei Tq, neanche un riferimento alla formazione, alla formazione umana, ai percorsi di crescita e a ciò che la letteratura e la sua vasta e variegata “res-publica” (ammesso che… esista) possa dare a chi vuole ri-nascere/crescere/divenire… o mi sbaglio? La doppiezza denunciata da Giulio: scrivere/leggere non è una merce ma un ponte…

  4. Giulio Mozzi Says:

    “Denunciata”?

  5. vincenzo ostuni Says:

    Sono d’accordo con Christian solo in parte: vorrei rivendicare l’uso del termine. Competenza ha sostituito il precedente meritocrazia, molto più compromesso e non del tutto sinonimo; competenza a mio e nostro avviso – fatto comunque intelligibilissimo dal contesto – in questo caso assume, non espelle, la dimensione cognitivo-disciplinare di “conoscenza”, ma fa anche riferimento ad aspetti pratici delle nostre professioni. Una riflessione se si vuole infondata ma certo presente nelle riflessioni preparatorie ai documenti è stata proprio questa: noi sappiamo (fare) il nostro meglio dei nostri fratelli maggiori, eppure siamo relegati, per lo più – anche molti fra quelli che, a detta dei malevoli, hanno già posizioni di rilievo nell’industria culturale – a un’eterna postadolescenza lavoristico-esistenziale.
    Una novità generale del manifesto è che il sospetto non si pratica più sulla terminologia. Salta, o è vicino a saltare, il problema uso citazionistico vs rifiuto radicale che è l’asse di opposti il cui punto di equilibrio è l’ideologia postmoderna. Il punto non è più “creare un nuovo linguaggio” come valore in sé o utilizzare citazionisticamente un po’ tutti i linguaggi novecenteschi; ma proprio andare a vedere cosa è ancora utile, e semmai risemantizzarlo. E’ una funzione del moderno, se si vuole, che non è ancora finito, ma che del “moderno classico” rinuncia al nuovismo avanguardista, ma non alla possibilità di riferirsi direttamente alle cose, di individuare come piano regolativo un’ideale di autenticità, verità.
    Per questo, ribadisco: la lettura di Mozzi era parziale, e riguardava l’aspetto della professionalizzazione, che non può essere preso a sé, fuori dal contesto politico. Ci siamo battuti come leoni in questi mesi per far passare dentro e fuori da TQ l’idea che le due cose non possono stare separate. Non ho alcun dubbio, e credo non lo si possa ragionevolmente avere, almeno allo stato, sul fatto che la prospettiva di TQ sia molto più che professionalistica, e sia invece pienamente politica.

  6. enrico Says:

    sbagliato “denunciata”! quello che volevo dire è “rilevata”… “segnalata”… oppure, ancor meglio, “inferita”… ma il mio commento era su altro però…

  7. GiusCo Says:

    Le competenze sono skill acquisibili con lo studio (e infatti sono largamente inflazionate, oggigiorno), mentre il talento e’ un asset individuale bisognoso di crescita, assistenza e sviluppo in rapporto 1:1.

    E’ tipicamente di sinistra omologare i profili individuali per scopi di lotta di classe, dunque TQ e’ giustappunto di sinistra come movimento politico / sindacato che si pone a difesa di un gruppo di persone che possiedono un certo tipo di competenze, contrapposte alle logiche del turbomercato. Questo, ben prima di discutere degli eventuali talenti individuali, che spessissimo a sinistra vengono emarginati quando non funzionali allo scopo di classe. Qui e’ la repulsione mia e di tanti altri all’ “ideologia” che Binaghi, buon ultimo e con lucidita’, ha denunciato nel colonnino sotto.

    Chi ha un’altra concezione della vita e della societa’, diciamo liberale (ce ne sarebbe una terza in Italia, cristiana, ma e’ roba di Mozzi e Binaghi), ritiene discriminante il talento, perche’ le competenze sono acquisibili in un certo tempo da parte di tutti, mentre il talento ce l’hai o no, e purtoppo ce l’hanno in pochi. Ragionare sul talento, insomma, scopre il vaso di Pandora di ogni aggregazione, perche’ ovviamente tutti credono di esserne piu’ dotati degli altri ma all’atto pratico, naturale, alcuni ne hanno di piu’: Bolt corre piu’ veloce di Powell e Tyson Gay; Abeni e Guerneri traducono alcuni poeti di ambito anglofono meglio di me; Mozzi e’ un editor piu’ accurato e consapevole di X, addirittura capace di porsi come “libero professionista” potenziale in questo tipo di mercato; e cosi’ via. Questo e’ il fondamento della societa’ liberale.

    Ecco che allora il mercato, quando funziona, interviene a trattare le persone in base al talento e alla disponibilita’ delle risorse (perche’ di un milione di editor competenti non sappiamo che farcene, ce ne servono al massimo mille ma buoni). E qui si chiude il nodo posto dalla Pinto: cosa ci fa un movimento di sinistra con un manifesto di lessico sostanzialmente in alveo pienamente liberale? Qui dovreste lavorare, perche’ qui matura il corto circuito tutto italiano della malafede: quello di pre-sumere che cerchiate pedine, soldati, emarginati e poveri veri che aderiscano al vostro movimento per far si’ che voi capoccia vi godiate la rendita contrattando migliori condizioni per voi stessi: spazi sui giornali, spazi in case editrici piu’ grandi, spazi da direttori di collane meno scalcagnate, ecc., in nome del numero di pedine che portate al banchetto (cioe’ di copie vendute, partecipanti ai corsi, ecc. ecc.). Questa, regolarmente, e’ la prassi della sinistra italiana degli ultimi trent’anni e il TQ, da come e’ nato e da come si inizia a muovere, non sembra modificare il seminato.

    Poi arriva Mozzi, la variabile di talento (oltre che di competenze specifiche) e di diversa ideologia a spiazzare queste logiche abbastanza trite, prevedibili, concedendo un avallo che divide gli stessi fondatori. Al che noialtri esterni, liberali e talentuosi, compriamo il popcorn e ci mettiamo a guardare.

  8. Stefano Says:

    Noi ‘esterni, liberali e talentuosiì? Il mercato premia il talento innato e non le aggregazioni? Davvero? In quale videogame? Nei Sims? O in Grand Theft Auto?
    Ah, noto l’escamotage: ‘quando funziona’. Allora non mi preoccupo più, era solo una costruzione retorica.

  9. Filippo Albertin Says:

    Nei commenti dentro Vibrisse mi permetto di suggerire una regola (che, intendiamoci, io stesso non ho seguito, ma che seguire di certo intendo, e diligentemente): la brevità. Pochi concetti espressi con pochissime parole. Una specie di schema haiku, insomma. Penso che una cornice del genere permetta di evitare molti fastidi, molte inutili polemiche fin troppo infiammate, e, consentitemi la (piccola e ultima) frecciata, molti errori di mera grammatica, sintassi, punteggiatura, per non parlare di un uso piuttosto disinvolto e adolescenziale della lingua. (Un cavallo non è una bistecca di carne di cavallo, anche se quest’ultima forma può costituire il suo fine ultimo in un mercato senza maneggi.) Dilagano più qui che altrove, e, pensando a un blog che parla di editoria e letteratura, la cosa un po’ mi inquieta. Chiedo perdono per il fuori tema, ma a livello di galateo formale ci stava.

  10. federica sgaggio Says:

    Come Christian non faticherà ad immaginare, l’analisi di Valeria colpisce corde che sento moltissimo: non per niente ci ho scritto una parte delle mie trecento paginelle.
    Dice Vincenzo: no, abbiamo espunto il termine «meritocrazia» e abbiamo parlato di «competenza».
    Va bene.
    Ma io – in modo serio e non polemico, intendo – ho bisogno di sapere che cosa sia la qualità, come la si possa misurare, e chi la possa determinare.

    E ho anche bisogno di sapere che cosa significa che «noi sappiamo (fare) il nostro meglio dei nostri fratelli maggiori, eppure siamo relegati, per lo più – anche molti fra quelli che, a detta dei malevoli, hanno già posizioni di rilievo nell’industria culturale – a un’eterna postadolescenza lavoristico-esistenziale».

  11. federica sgaggio Says:

    (Particolarmente mi interessa sapere da dove derivi la certezza che «noi sappiamo fare […] meglio dei nostri fratelli maggiori»).

  12. Giulio Mozzi Says:

    Vincenzo, scrivi: “Per questo, ribadisco: la lettura di Mozzi era parziale, e riguardava l’aspetto della professionalizzazione, che non può essere preso a sé, fuori dal contesto politico. Ci siamo battuti come leoni in questi mesi per far passare dentro e fuori da TQ l’idea che le due cose non possono stare separate. Non ho alcun dubbio, e credo non lo si possa ragionevolmente avere, almeno allo stato, sul fatto che la prospettiva di TQ sia molto più che professionalistica, e sia invece pienamente politica”.

    Come ho già detto, hai ben colto il senso del mio intervento.

    Propongo un percorso: è attraverso la riflessione sulla propria condizione di lavoratori (del complesso editoriale-industriale, nello specifico) che si produce una coscienza politica. Se invece la “prospettiva politica” arrivasse come premessa, si rischierebbe il mero discorso ideologico.
    Il mio sospetto è che la centralità del lavoro sia la novità di Tq. E questo mi par bene. Non solo perché permette, come suggerisce Giuseppe Cornacchia (GiusCo) di disinnescare il “corto circuito tutto italiano della malafede” (cioè: non sono per ragioni di miglior comunicazione della cosa). Ma soprattutto perché apre la possibilità di una vera riflessione e costruzione politica.

    Spero di essere riuscito a spiegarmi.

  13. Giulio Mozzi Says:

    La discussione salta tra qui e Nazione indiana. Dove Valeria Pinto ha così replicato a Christian Raimo:

    @ Giulio Mozzi. Onorata dell’accoglimento in “Vibrisse”. Credo che la divaricazione sia illuminante, e cerco quindi di illustrare meglio la mia perplessità (che – @ Christian Raimo – non è lessicale, o meglio lo è in rapporto a una scelta di campo, dunque grazie, parliamo, ma la piaga per me va affrontata a partire da questo). Per continuare a discutere qui: io appunto non ho parlato di “richiamo etico” in senso generico o morale (un appello che parla alle coscienze, il foro interiore ecc.) ma precisamente di una “deontologia professionale dell’operatore della conoscenza” – in questo caso qualcosa di non diverso, secondo me, da una “etica sociale di impresa”.

    Se una grande azienda dà il proprio sostegno a una campagna di Save the Children o dell’Unicef in vista di questo o quest’altro obbiettivo benemerito; se una multinazionale mette sui propri prodotti un bollino che certifica che non si fa ricorso al lavoro minorile; se piccola azienda fuori dai grandi circuiti di distribuzione adopera il marchio “Indy”, per certificare che si sono seguite certe procedure (“buone pratiche”) e non altre e così via… tutto questo può andare bene non andare bene, essere molto o essere poco: dipende dall’obbiettivo perseguito. Se l’obbiettivo è una prassi che disinneschi la “messa in concorrenza generalizzata” propria dei meccanismi neoliberisti (i.e. il “Parliamo, compagni, dei rapporti di proprietà” che cita Nevio), tutto questo è pochissimo. Il “neoliberismo epidemia dell’Occidente” (e l’Oriente no?) di cui parla il manifesto è all’avanguardia in queste pratiche “etiche”, che anzi esso stesso formalizza, incentiva e promuove. Il bollino etico può andare, anzi va, tranquillamente insieme al contratto di lavoro NewCo di Pomigliano, il quale può essere presentato proprio come una scelta etica di responsabilità. Lo stesso per la cosiddetta valutazione, che è un meccanismo di controllo mai visto prima (e dai rilevanti interessi economici), che si presenta appunto come uno strumento di moralizzazione, avverso ai privilegi di casta e agli sprechi (value for money) e a favore della responsabilità sociale (accountability).

    Il fatto è che non è vi è per nulla, come anche si sente dire in giro, un indebolimento, un declino della politica; piuttosto le politiche (al plurale) neoliberiste funzionano non più nella forma dello Stato che legifera dall’alto e dall’esterno, ma bensì funzionano delegiferando e impiantando ovunque “politiche di autogoverno” (governance), centri di responsabilità, in breve un’etica (pubblica) produttrice dei valori. Questi devono essere incorporati (embedded) affinché il meccanismo funzioni, perché esso in realtà funziona soltanto col consenso, o anche, si può dire, con la complicità di tutti gli attori. Ad esempio – per parlare di un meccanismo che conosco meglio – tutti gli “esperti” di valutazione sottolineano la necessità della diffusione capillare di una “cultura della valutazione”, ossia che attorno a queste pratiche si crei un clima di intima convinzione anzitutto da parte di coloro che vi sono soggetti; la “naturalizzazione”, l’incorporeamento del meccanismo rappresentano un processo consapevolmente lento (qui la differenza di questo progetto di educazione permanente da una semplice propaganda, che lavora sullo shock e non incide nel profondo), sicché molte stime individuano un tempo non inferiore ai vent’anni per il funzionamento ottimale di questi dispositivi. I “valori etici” hanno qui un senso etimologico di formazione dell’ethos – dell’ethos cioè (dalla guerra umanitaria alla valorizzazione del merito) più congruente con l’affermazione delle pratiche neoliberiste.

    Queste sono le mie riserve sulle prospettive etiche, per quanto nobili e attraenti: nella migliore delle ipotesi vanno a costituire delle enclave, ma nella peggiore, ovvero per lo più, assumono una funzione di lubrificante, un (diabolico) effetto di vanificazione di ogni attrito e resistenza. (Per fare qualche esempio di come – @ Christian Raimo, con o senza “paraculaggine” non importa – riferimenti al piano morale finiscano con l’essere funzionali a trasformazioni politiche di destra: Report che magnifica il “bellissimo editoriale di Giavazzi e Alesina” sull’esclusione dei giovani; Anno Zero che, nell’empatia per il comprensibile risentimento dei “cervelli in fuga”, dà spazio alle lodi per le più aggressive “enterpreneurial universities” statunitensi; in un altro contesto, la concordia, eticamente motivata affinché non “siano i poveri a pagare l’università dei ricchi”, con cui uno schieramento parlamentare che va da Pietro Ichino a Ignazio Marino, da Tiziano Treu a Francesco Rutelli, sollecita al Governo l’aumento delle tasse universitarie sul modello britannico…).

  14. andrea inglese Says:

    a giulio mozzi,

    che scrive

    “Propongo un percorso: è attraverso la riflessione sulla propria condizione di lavoratori (del complesso editoriale-industriale, nello specifico) che si produce una coscienza politica. Se invece la “prospettiva politica” arrivasse come premessa, si rischierebbe il mero discorso ideologico.”

    Il punto sollevato da Vincenzo è molto importante, anche se si chiarirà nel tempo. Si tratta dell’articolazione tra etica e politica nel progetto TQ. Su questa articolazione mi riservo di intervenire in seguito e con un discorso approfondito. Per ora mi limito a questo.
    Quando dici, Giulio, è dalla riflessione sul proprio lavoro che emerge una coscienza politica, hai perfettamente ragione, Anche perché così è sempre stato. Ma questa riflessione non avviene in un vuoto di vocabolario politico. Io capisco quando tu stigmatizzi la prospettiva politica come premessa. Ma le cose sono ancora più complesse.
    Senza un vocabolario politico i nodi di carattere etico non assumono una prospettiva, ossia una visione in cui il problema locale, professionale, si collega ad un panorama più vasto, in parte determinato da linee di governo, da discorsi ideologici, da circostanze economiche.
    Ora rispetto ai problemi attuali, vissuti sulla propria pelle della generazione TQ, ad esempio, ogni vocabolario politico è in parte “vecchio” e “inappropriato”, d’altro parte non esistono mille vocabolari politici, un vocabolario politico non si rinnova ogni giorno come una linea di cosmetici.
    Ogni movimento contestatario non è mai sincrono con il proprio vocabolario politico. Ma il vocabolario politico, per inadeguato che sia, è indispensabile per nominare fenomeni, articolazioni, classi di oggetti. Senza di esso tutto si limiterebbe ad un discorso di lavoro coscienzioso. Fare bene il proprio lavoro. Purtroppo, il secolo scorso ha mostrato una volta per sempre che fare bene il proprio lavoro è un principio che anche i peggiori carnefici possono rivendicare per se stessi.
    Tornando a TQ: quello che mi sembra stia accadendo è un fenomeno di non facile sincronizzazione tra condizioni molto determinate storicamente e socialmente, da un lato, e un vocabolario politico ereditato – vocabolario a sua volta stratificato e non omogeneo -, che emerge come strumento indispensabile per avviare proposte di cambiamento efficaci.

  15. Giulio Mozzi Says:

    Andrea, scrivi: “il secolo scorso ha mostrato una volta per sempre che fare bene il proprio lavoro è un principio che anche i peggiori carnefici possono rivendicare per se stessi”. Io direi la medesima cosa (credo) con altre parole: nel secolo scorso è stato mostrato una volta per sempre che è possibile concepire un “bene” puramente tecnico e prestazionale.
    Io preferisco pensare che “fare bene il proprio lavoro” significhi “fare il proprio lavoro in modo che sia un bene”. Ma a questo punto si esce dall’etica e dalla politica per entrare nella metafisica.

  16. Filippo Albertin Says:

    Oddio: l’equazione è encomiabile. Mi chiedo e vi chiedo, però, cosa significa “fare bene il proprio lavoro” in un mercato dove interi scaffali di libri risultano monopolizzati dai cloni dei vampiri di Twilight? Cioè, in questo specifico caso, la “doppiezza” di cui si parlava in che modo si può — ammesso che si possa — declinare?

    Esiste cioè un “dictat mercantilista” che possa in qualche modo ingabbiare qualsiasi volontà di fare il bene nel proprio lavoro? Sto ovviamente estremizzando. Non credo che esista un male totale, né un bene totale. Però mi sembra sia questa la domanda.

  17. Giulio Mozzi Says:

    Filippo: fare bene il mio lavoro, per me, consiste nel proporre per la pubblicazione delle opere letterarie che mi sembrino belle, sperando che si possano anche vendere (e battendomi poi eventualmente perché l’editore accetti l’idea di correre un rischio), anziché proporre opere vendibili a prescindere da un giudizio sulla loro bellezza. E consiste nel lavorare affinché questi libri belli vendano quanto basta perché io sia considerato uno che non fa perdere soldi (con il che conservo l’opportunità di lavorare, e continuare a proporre). E consiste nell’occuparmi a tal punto di libri belli a prescindere dalla vendibilità, da diventare uno dei possibili punti di riferimento per gli autori che scrivono opere belle. Ecc.
    Che è poi l’esempio scritto nel manifesto Tq per l’editoria.
    E naturalmente, nel giudicare della bellezza di un’opera posso sbagliarmi. Così come posso non riuscire a far vendere abbastanza un’opera bella. Ecc.

  18. vbinaghi Says:

    @Ostuni
    “Non ho alcun dubbio, e credo non lo si possa ragionevolmente avere, almeno allo stato, sul fatto che la prospettiva di TQ sia molto più che professionalistica, e sia invece pienamente politica.”

    Neanch’io ho alcun dubbio su questo.
    E non ci sarebbe niente di male se la “politica” fosse quella della “res publica” e non quella della setta gnostica o pseudorivoluzionaria, il che si evince facilmente anche dagli amori letterari che vi si praticano.

    Lamentate l’esiguità dei lettori italiani che cercano “la qualità” a fronte delle orde di consumatori di Moccia, thriller svedesi e Melissa P e chiedete spazi e denaro pubblico per un’editoria protetta, che preservi l’impegno anticapitalistico e lo sperimentalismo nell’arte non sacrificata all’onnipotenza del mercato.
    Ma non vi passa mai per la testa che avete i lettori che vi meritate? Ancor più chiaramente, che la presunta complessità e la ricercatezza di cui vi ammantate nasconde un tale vuoto d’anima, una rappresentazione nichilistica e umiliante dell’essere umano, una incapacità di offrire all’uomo visioni di futuro, che non può che respingere chi ancora non ha contratto lo stesso morbo? Perchè i miei nonni con la terza elementare leggevano Manzoni e Tommaso Grossi e un perito elettronico di oggi chiude Moresco (o uno qualsiasi degli autori per cui strillate al capolavoro) a pagina 17?
    La storia ridotta al cannibalismo degli antagonismi economici, l’amore alla negoziazione sessuale, l’opera alla superfetazione di un corpo e di una lingua senza soggetto, questo è quello che offrono le vostre rappresentazioni artistiche, e vi stupite che chi tiene più alla vita che all’estetica della decadenza preferisca letteratura di basso consumo con tanto di lieto fine?
    Basta considerarne le conseguenze sulla psicologia dell’attuale generazione per accorgersi di quella che Henri J.M. Nouwen chiama “la paralisi dell’uomo nucleare”, il quale “ha perduto il senso della propria creatività, che sarebbe poi il senso dell’immortalità. L’uomo, quando non sa più guardare oltre la propria morte, mettendosi in rapporto con ciò che giace oltre lo spazio e il tempo della propria esistenza, perde il desiderio di creare e l’eccitazione di essere uomo”.
    E’ questo, cari miei, il problema fondamentale, e non istituire riserve protette per lo scrittore o l’editoria post-moderna.
    Per fare quel che dite di voler fare, cioè rinnovare le patrie lettere e dare una nuova moralità al circuito culturale dovreste cominciare da voi stessi, rinnegando una visione del mondo che è umiliazione dell’uomo e suicidandovi come militonti e settari per rinascere come persone.
    Non lo farete, e al posto del berlusconismo in declino ci offrirete l’ennesima versione di un politically correct sterilizzato da ogni autentica pulsione vitale: la cosmetica del cadavere, prima di consegnare al sepolcro il caro estinto, cioè quella che fu un tempo la scommessa europea, nata dal felice incontro di Atene, Roma e Gerusalemme e oggi moribonda tra i diktat della finanza internazionale e il globalismo dell’accidia.

  19. Valeria Pinto Says:

    Sono intervenuta su Nazione Indiana, cercando di rispondere a un po’ delle cose dette lì ma anche a qualcuna di quelle dette qui. L’intervento è questo – http://www.nazioneindiana.com/2011/07/27/documenti-tq/#comment-154515 – e per parte mia vale da provvisoria conclusione e proposta. Su questi ultimi sviluppi della discussione su Vibrisse invece non entro, ci sono letture diverse del nichilismo, ma qui non importa.

  20. Francesco Terzago Says:

    Caro Giulio,
    queste tue osservazioni sono senza dubbio le più interessanti fatte fino ad adesso su Tq.

    Forse sono la dimostrazione che “al mondo non si scappa”?

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