Pensieri a cranio scoperchiato

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di Antonio Moresco

In calce all’articolo originale, pubblicato in Il primo amore, Moresco mette questa nota: “Se qualche giornale o qualche sito volesse pubblicare questo scritto, può farlo liberamente e gratuitamente, a patto di pubblicarlo per intero e di non mutilarlo pescando qualche frase qua e là e distorcendone il senso, e di citarne la fonte (Il primo amore)”. gm

In questi giorni di fine agosto i giornali stanno parlando molto dell’ennesima legge “ad personam” (in questo caso “ad aziendam”) che consente alla Mondadori di non pagare al fisco una cifra enorme. Dopo la presa di posizione pubblica di Vito Mancuso, che ha espresso i suoi dubbi se continuare a pubblicare con questo editore e che ha chiamato, nome per nome, alcune persone che pubblicano presso lo stesso a pronunciarsi, si è dato fuoco alle polveri. Opinionisti, giornalisti e politici abituati a capitalizzare fulmineamente ogni cosa si sono gettati sulla vicenda con continue richieste di abiura editoriale rivolte a scrittori e saggisti (i poeti -chissà perché- non vengono presi in considerazione) che pubblicano con questo editore e con questo gruppo. Argomenti moralmente e politicamente ricattatori, ironie e sfottimenti in caso di risposte non gradite o evasive, esibizione di superiorità civile e morale, soprattutto da parte di giornali di gruppi editoriali concorrenti e di persone bene acquartierate in essi. Perché in Italia le cose funzionano così.
Si invitano gli scrittori a schierarsi su questa “crisi di coscienza” trasformata in una macchina da guerra contro un’altra macchina da guerra, ad abbandonare questo editore per altri più virtuosi, ciascuno vantando le proprie benemerenze e la propria superiorità etica, in una battaglia che viene da lontano e che nasconde anche altri fini, sperando tra l’altro di scrollare l’albero e di accaparrarsi qualche frutto caduto, soprattutto se questo ha una buona quotazione di mercato e porta quattrini. Perché in Italia le cose funzionano così, tanto più in questi anni difficili, torbidi, in questo clima intossicato da una situazione politica, sociale e civile sempre più difficile da sopportare.

Così può succedere che persino gli scrittori -che in Italia non sono tenuti in gran conto, a meno che non rimpinguino i fatturati- vengano utili all’interno di questi movimenti militari e di queste campagne. Lavagnette e specchietti con tanto di elenchi e faccine dei buoni, dei meno buoni e dei cattivi, di quelli più virtuosi e di quelli meno virtuosi. Pareri usa-e-getta da inserire in questo mosaico, esibizione di muscoli, esercitazioni, parate. Perché in Italia le cose funzionano così.
Non metto in questo elenco gli scrittori cui, per ragioni di censura o di opportunità politica, sono stati rifiutati i libri da case editrici del gruppo Mondadori e che, giustamente, se ne sono andati.
Siccome anch’io ho le mie convinzioni e le mie passioni ma non sono un soldatino, siccome non ci sto a farmi appiattire su quest’unica dimensione e a farmi schiacciare su queste semplificazioni strumentali e parziali, ma siccome non mi è neppure congeniale starmene zitto e coperto, in attesa che la polvere torni a posarsi e che la bolla si sgonfi, provo a esprimere qui, per iscritto, i pensieri, tutti i pensieri che mi sono passati per la testa in questi giorni, compresi quelli scomodi, non eleganti, quelli che in genere si preferisce lasciare nell’ombra, senza autocensurarmi né autolobotomizzarmi.

La Mondadori oggi

E’ la più grande casa editrice e il più grande gruppo editoriale italiano, ma il suo assetto proprietario consegna anch’essa -come molte altre cose palesi e occulte nell’Italia di oggi- a un gigantesco conflitto di interessi. La sua acquisizione da parte di Berlusconi a spese di De Benedetti e i modi con cui questa è avvenuta sono noti e sono stati anche materia di un clamoroso processo.

La Mondadori ieri

Ma neppure in passato, ai tempi del mitico fondatore Arnoldo, il percorso di questa casa editrice è stato ineccepibile e lineare. Perché evidentemente, per diventare il più grande gruppo editoriale italiano bisogna anche avere delle grandi maniglie. Perché in Italia le cose funzionano evidentemente così.
Ma vediamo un po’ com’era la vecchia, mitica Mondadori:
Nata dall’intelligenza e dall’intraprendenza di un giovane di un paese del mantovano (un altro che, come suol dirsi -e ammesso e non concesso che le cose stiano esclusivamente così- si era “fatto da sé”), da piccola bottega diventa via via la più grande casa editrice italiana, anche attraverso rapporti privilegiati con i potenti di turno, opportunismi, trasformismi.
Ma è giusto ridurre tutto e solo a questo? All’interno di questa casa editrice hanno lavorato e si sono fatti le ossa uomini che poi sono diventati importanti editori, come Valentino Bompiani e Angelo Rizzoli, e soprattutto questa casa editrice non ha pubblicato solo il Vate o il fascistissimo Guido Da Verona, oppure un libro intitolato “Dux”, ma ha pubblicato anche e fatto conoscere in Italia scrittori come Kafka, Joyce, Gide, Alain-Fournier, Faulkner, Fitzgerald, Dos Passos, De Roberto, Pascoli, Verga, Pirandello, Thomas Mann, Lawrence, Vittorini, Malaparte, Brancati, Henry Miller, Sartre, Eliot, Ungaretti, Montale, Erich Maria Remarque, Hemingway, Bernanos, Döblin, London, Fante, Virginia Woolf, Saint-Exupéry e molti altri. Senza dimenticare tanti formidabili autori di “libri gialli” e di fantascienza, che ho letto con entusiasmo durante la mia adolescenza e che leggo ancora.
Hanno fatto un’azione eticamente riprovevole, si sono disonorati tutti questi scrittori e questi poeti (parlo naturalmente di quelli in vita al momento della firma dei contratti) a pubblicare con questo editore?
Per non parlare della casa editrice Einaudi, ora acquisita dal gruppo Mondadori, e degli autori che si trovano nel suo straordinario catalogo, i cui libri (quindi anche “Se questo è un uomo” e le “Lettere dei condannati a morte della Resistenza”) a detta di alcuni non sarebbe più eticamente e politicamente corretto comperare.
Una casa editrice è abitata da persone vive e che, in qualche caso, possono anche fare la differenza. Non si può ridurre tutto ai comportamenti dell’editore, al suo assetto proprietario e ai suoi consigli di amministrazione, che magari sono più che altro interessati a leggere i bilanci di fine anno e ad assicurarsi che siano in attivo. E che magari possono anche cambiare. Cinquant’anni fa la Mondadori era di Arnoldo, adesso della famiglia Berlusconi. Di chi sarà -se ancora ci sarà- fra altri cinquant’anni?

Torniamo ai nostri giorni

Nel comunicato della Mondadori viene criticato il giornale “La Repubblica”, reo di avere pubblicato la lettera di Mancuso e altri articoli sulla vicenda. Per quanto mi riguarda, “La Repubblica” è il giornale che leggo tutte le mattine da molti anni. Considero una fortuna che un giornale così esista in questo momento in Italia e che riesca ad arrivare a un gran numero di lettori. Ci trovo spesso articoli tra i più sostanziosi e liberi, che mi sono di aiuto a comprendere quello che sta succedendo. Ma, se vogliamo dirla tutta, bisogna anche dire che il suo proprietario è un altro imprenditore, il quale ha dei gravi e motivati conti da regolare con la proprietà della Mondadori, che gli ha soffiato come sappiamo la casa editrice. Perché in Italia le cose non sono mai così semplici come appaiono. Perché in Italia le cose funzionano quasi sempre così.

La restaurazione

Nel nostro paese è in atto da tempo una pesante restaurazione, a tutti i livelli, in tutti i campi. Anzi, qualcosa cui ormai va stretto il nome stesso di “restaurazione”. Per quel poco che vale, ho cominciato a dirlo diversi anni fa, attirandomi anche vere e proprie campagne di scherno. Perché in Italia, evidentemente anche nel libero regno della rete, le cose funzionano così. Ma già in quel mio primo scritto intitolato appunto “La restaurazione”, in cui cercavo di mostrare l’enormità di quello che stava accadendo sotto i nostri occhi, non schiacciavo e non chiudevo ogni cosa in un piccolo teorema, sostenevo anche che le singole persone possono fare la differenza, ancora, sempre, persino all’interno dei grandi gruppi editoriali che si vorrebbero invece vedere come blocchi senza spiragli, e che le fessure bisognava tenerle aperte, non chiuderle. E, soprattutto, che anche quando questa pesantissima situazione sarà finita -e io sono tra quelli che sperano che ciò avvenga il più presto possibile- non bisogna credere che poi ogni cosa andrà per il meglio, che ci sarà il bene al posto del male, perché l’intossicazione che è avvenuta in questi decenni è molto profonda e attraversa tutti i campi, non solo quello politico ed economico ma anche quello del costume e della cultura, che pure si crede superiore ma dove invece operano le stesse logiche che vediamo in atto in questi anni, comprese quelle mafiose. Perché Berlusconi è solo la punta dell’iceberg di quanto è successo nella nostra società sempre più inaridita e incanaglita, con la sua idolatria della sola dimensione economica e la cattiveria e grettezza che l’attraversano da parte a parte. Perché in Italia, da ormai troppo tempo, le cose funzionano, anche elettoralmente, così. E ci sarà bisogno non solo di un semplice avvicendamento di poteri ma anche di una rigenerazione molto più radicale e profonda, che investa tutta la nostra società e la nostra vita, non solo la sua testa ma anche la sua pancia e il suo cuore, per renderle più proporzionali ai problemi e alle sfide che abbiamo di fronte non solo nel nostro paese ma anche a livello planetario e di specie.

Il mio impegno

Il mio impegno consiste principalmente nei miei libri. Ma so bene cosa sta succedendo attorno a me, e non sono un ignavo. Dai venti ai trent’anni mi sono gettato nella lotta politica, vedendo le cose nella sola dimensione orizzontale della dinamica storica e delle sue contingenze. Ora non vedo più le cose così, ora per me il gioco non è mai così cortocircuitato e stretto. La dimensione in cui viviamo non è solo questa. Però non sono un pentito e, per il resto, non sono cambiato. Partecipo ancora alle battaglie che mi sembrano giuste e che mi convincono. Con alcuni amici, ad esempio, in una condizione di puro volontariato, abbiamo dato vita a un sito e a una rivista intitolati, leopardianamente, “Il primo amore”, perché crediamo che occorra suscitare anche altre forze dormienti dentro di noi, non solo quelle reattive ma anche quelle prefigurative, perché senza questa radicalizzazione e questo passaggio non ci sembra possibile uscire in modo pieno dalla situazione che stiamo vivendo, nel nostro paese e nel mondo, perché non basta il piccolo gioco della politica intesa solo come spostamenti di superficie ma occorrono invece smottamenti verticali. Non perché non desideriamo anche noi i cambiamenti contingenti, magari piccoli ma che possono dare sollievo alla vita, ma perché occorre guardare anche più in là, perché pensiamo che ci sia infinitamente di più da fare e da dare in questo drammatico momento della nostra vita nel mondo, e che nello stesso tempo -e proprio per questo- tutta la prateria sia aperta, tutto l’orizzonte sia aperto.

Il conflitto di interessi

Un simile conflitto di interessi avvilisce tutto, immiserisce tutto, comprese le persone che lavorano con intelligenza e passione all’interno delle case editrici del gruppo. Ma perché ci troviamo in una situazione simile? Che cosa è successo negli anni passati? C’è stata qualche trattativa? C’è stato un mercato? C’è stato qualche ricatto? C’è stata qualche furbizia di cui ancora paghiamo il prezzo? E, se le cose stanno così, che trattativa c’è stata, che mercato c’è stato, che ricatto c’è stato, che furbizia c’è stata? Verrà mai il giorno in cui riusciremo a saperlo? Perché i governi di centro-sinistra che si sono succeduti, nonostante le ripetute promesse elettorali, non hanno mai fatto e nemmeno tentato seriamente di far approvare una legge che rendesse impossibile un simile conflitto di interessi, come ce ne sono in altri paesi che pure vengono additati ogni giorno come fari delle democrazie occidentali? Perché i giornali che adesso mettono alla gogna gli scrittori reticenti a obbedire alla loro campagna e ad abbandonare le loro case editrici non hanno a suo tempo messo alla gogna i partiti e i governi che non hanno fatto e neppure tentato di fare una legge che rendesse impossibile la situazione che si è creata, anche se in molti casi erano proprio i loro partiti di riferimento?

La mia situazione personale di scrittore

Dopo avere esordito a quarantacinque anni, ho pubblicato una ventina di libri con una decina di editori tra piccoli e grandi. Non ho cambiato un così gran numero di editori per una mia congenita mancanza di fedeltà, capricciosità o avidità, ma semplicemente perché certe strade mi venivano chiuse e allora dovevo cercarne altre. Per questa ragione, dopo avere pubblicato diversi libri con Bollati Boringhieri, ho dovuto pubblicare con Feltrinelli “Gli esordi”, perché rifiutato dal mio primo editore. Per la stessa ragione, dopo avere pubblicato con Feltrinelli la prima parte di “Canti del caos”, ho dovuto pubblicare con Rizzoli la seconda, appunto perché mi era stata rifiutata dal mio precedente editore. Per ragioni analoghe sono approdato alla Mondadori per la pubblicazione dell’intero libro completo della terza parte, dopo che lo stesso mi era stato rifiutato persino da un altro editore considerato più “di cultura” facente parte dello stesso gruppo. Ma, come per i precedenti editori, non è stata un’entità editoriale astratta a decidere se accogliermi o meno ma sempre, alla fine, singole persone che hanno fatto la differenza. Nel caso della Bollati Boringhieri queste persone si chiamavano Giulio Bollati e Agnese Incisa prima e Alfredo Salsano poi. Nel caso della Feltrinelli, Gabriella D’Ina. Nel caso della Rizzoli, Benedetta Centovalli. Nel caso di Einaudi Stile Libero, Severino Cesari. Nel caso di un piccolo libro di favole che ho pubblicato con Einaudi, Paola Gallo. Un’altra persona che, nel mondo dell’editoria, ha creduto nel mio lavoro di scrittore e, in un paio di occasioni, mi ha dato una mano si chiama Luca Briasco.

Perché pubblico da Mondadori

Ogni tanto qualcuno mi chiede, magari con malizia, perché pubblico da Mondadori. Persone che, in qualche caso, sarebbero disposte a far prostituire la propria madre per pubblicare dallo stesso editore o che ci hanno provato senza successo, persone che magari il giorno prima mi scrivono che vorrebbero anche loro pubblicare col grande editore e che il giorno dopo mi attaccano o fanno dell’ironia su di me. Perché esiste anche la malafede, esistono anche le invidie, le gelosie. Perché esistono anche queste piccole miserie, in Italia. Non solo in Italia, purtroppo.
Pubblico da Mondadori, in ultima analisi, perché due persone che lavorano in questa casa editrice (ma so che ce ne sono molte altre degne) hanno voluto pubblicare “Canti del caos”, romanzo scritto durante quindici anni e che ha dovuto passare attraverso tre diversi editori per venire al mondo nella sua forma completa e definitiva. Anche qui non un’entità editoriale astratta ma (sia pure all’interno di una rete decisionale più vasta) persone con nomi e cognomi e che, in questo caso, si chiamano Antonio Franchini e Antonio Riccardi, che hanno avuto il coraggio di fare quello che altri non hanno avuto il coraggio di fare. E questa è una cosa che per me ha un peso e che non dimentico.
Per questa ragione pubblico e -se non sarà la casa editrice a buttarmi fuori- continuerò a pubblicare con Mondadori.

Editori virtuosi, editori non virtuosi

Ora arrivano queste continue esortazioni a passare ad altri editori più “virtuosi”. Ma io ero già presso questi editori più “virtuosi”! Non è colpa mia se mi hanno cacciato! Cosa dovrei fare adesso? Dovrei andare a bussare col cappello in mano alle stesse porte da cui sono stato cacciato? O magari, meglio ancora, in caso di reiterata non accettazione dei miei libri presso gli stessi editori (o altri dello stesso gruppo, perché in alcuni casi se sei stato messo fuori da uno, sei automaticamente fuori anche dagli altri editori del gruppo), dovrei spingere la mia probità etica e la mia virtù fino in fondo, introiettando a tal punto la punizione che mi è stata inflitta da infliggermene da me una più definitiva ancora, e cioè non scrivendo e non pubblicando più niente e castrandomi come scrittore?
Ma poi, non conta proprio niente quello che un editore pubblica, contano solo gli assetti proprietari e i loro posizionamenti? Allora come si spiega, ad esempio, che in questi anni il best seller di una casa editrice come la Feltrinelli sia stato “Tre metri sopra il cielo” di Moccia e quello di una casa editrice come la Mondadori “Gomorra” di Saviano?

Editori grandi, editori piccoli

Altra semplificazione che continua a tenere banco anche in questi giorni: che gli editori piccoli sarebbero sempre e comunque migliori di quelli grandi e che gli scrittori che ora pubblicano con case editrici del gruppo Mondadori dovrebbero invece pubblicare con loro. Anche qui bisogna vedere caso per caso, non si può generalizzare, perché a volte gli editori piccoli operano con le stesse logiche di quelli grandi, solamente più in piccolo e senza neppure avere gli aspetti positivi di quelli grandi.
Per quanto mi riguarda, ho pubblicato diversi libri con piccoli e piccolissimi editori e non è escluso che torni ancora a farlo, in futuro. I piccoli e piccolissimi editori con cui ho finora pubblicato sono: Bollati Boringhieri (5 libri), Effigie (3 libri), King Kamehameha Press (1 libro), Portofranco (1 libro), Fanucci (1 libro), Tre Lune (1 libro), Scheiwiller (1 libro).
Che sono più della metà dei libri che ho pubblicato.

Una cosa che non sta bene dire

Ma, sempre per dirla tutta, vorrei toccare anche un altro argomento considerato poco elegante e perciò tabù, e cioè che gran parte degli editori italiani non sono corretti nei pagamenti, i rendiconti raramente arrivano, ci sono disinvolture e irregolarità che a volte offendono. Non parlo qui dei piccolissimi editori, che vanno avanti per passione e tra mille difficoltà e acrobazie, con alcuni dei quali ho pubblicato senza chiedere né ricevere un centesimo. Parlo di altri un po’ più grandi, decisamente più grandi, magari facenti parte dell’elenco di quelli culturalmente “virtuosi” e anzi dei più virtuosi, ma che evidentemente non ritengono di dover spingere a tanto la propria virtù.
Io non sono una persona attaccata ai soldi e, per di più, sto parlando, nel mio caso, di piccole cifre. Però dispiace ugualmente vedersi presi in giro. Mi è capitato di sentir dire che alcune delle persone sulle quali adesso si ironizza per la presunta discrepanza tra le loro posizioni culturali e politiche e il fatto di pubblicare con case editrici del gruppo Mondadori hanno cambiato il precedente editore proprio perché stanche di questa mancanza di correttezza. Anche loro, credo, non per una particolare avidità e attaccamento al danaro ma perché certe cose non sono giuste, danno fastidio, e perché i rapporti devono essere limpidi, se no sono destinati a deteriorarsi.
Bene, in questo campo pare che Mondadori sia uno degli editori più corretti che ci sono in giro. I rendiconti arrivano. Anche i diritti, magri, nel mio caso.
Un giorno uno scrittore, che è anche un mio caro amico, mentre stavamo parlando di questo, mi ha detto con brutale franchezza: “Se le cose stanno così, se io per poter pubblicare e arrivare ai lettori con i miei libri devo passare attraverso un editore e un padrone, allora preferisco un padrone che paga piuttosto di uno che non paga”.
Potrei sottoscrivere questa affermazione, se non fosse che, come scrittore, non sento di avere un padrone, e se non fosse anche che il rapporto di uno scrittore con un editore non è quello del salariato. Però ha il pregio di focalizzare con chiarezza una situazione di cui si ha vergogna a parlare: molto spesso gli editori “virtuosi” non pagano, quelli non virtuosi sì.
Il discorso sarebbe finito qui, se mi accontentassi di questo e non mi venisse subito dopo da chiedermi: “Posso essere contento se il mio editore rispetta i termini del contratto ma nello stesso tempo non paga le tasse, o se addirittura mi paga il dovuto proprio perché non paga le tasse?” Perché in Italia, anche nel campo della cultura, le cose sembrano funzionare così. E ancora: “Devo essere più contento se il mio editore non mi paga il dovuto ma paga (si spera) le tasse, o se mi paga il dovuto ma non paga le tasse?”
Quanto a me, pago le tasse fino all’ultimo centesimo sui miei magri diritti.
Ma, anche in questo caso di etica fiscale come in quello del grave conflitto di interessi, sembra che improvvisamente siano gli scrittori i maggiori responsabili del disastro che è avvenuto in Italia e della colossale evasione in atto, non chi la persegue o chi aveva la possibilità di compiere azioni politiche in grado di migliorare le cose ma chissà per quale ragione non l’ha fatto.

Un’ultima domanda

Ma c’è un’ultima cosa da dire e un’ultima domanda da fare, che a mio parere è la più importante e che regge tutto. Una piccola cosa che nessuno dice più, pensa più, che non si può più dire, che non si può più nemmeno pensare. E che invece io voglio ugualmente dire e voglio continuare a pensare, anche se conosco già le reazioni di rigetto, di scandalo oppure -più in sintonia coi tempi- il piccolo cinismo, le piccole ironie e gli sfottimenti che suscitano certe affermazioni, certe convinzioni e certe domande: “Ma che sta dicendo quello lì? Chi si crede di essere? A chi pretende di paragonarsi? Adesso queste cose non si possono più dire, questi sogni non si possono più coltivare, sono inattuali.”
Insomma, la domanda che pongo è questa: “Non c’è nient’altro? C’è solo questo? Esiste solo questa dimensione orizzontale della vita e lì si gioca tutto? Non c’è possibile scarto, nella vita e nel mondo, tra ciò che crediamo di vedere e di concepire e tutto il resto? Ci sono solo delle rotelline che girano su un piano orizzontale? Esiste solo la contingenza, questa contingenza, che si mangia tutto? Niente fuoriesce, niente può fuoriuscire?”
Penso, ad esempio, agli scrittori del passato, e mi domando: “Chi erano i loro editori? Erano tutti virtuosi o non c’erano tra di loro -come si legge spesso nelle biografie di questi scrittori- anche persone poco o nient’affatto virtuose, disoneste, figli di puttana, persino?” Allora hanno fatto male, si sono disonorati, a stampare i loro libri da loro, da questi editori di cui adesso non si ricorda neppure il nome? E gli sconcertanti e a volte spregevoli committenti di musicisti, pittori? E Michelangelo che affrescava la Sistina per Giulio II? E Goya che fu pittore di corte per Carlo IV e Ferdinando VII? Le malefatte e le viltà dei loro committenti tolgono dignità, verità e forza alla loro creazione, alla loro visione, alla loro precognizione e al loro grido? Ricadono su Goya le colpe di Carlo IV e di Ferdinando VII, o su Tiziano quelle di Carlo V (quello del Sacco di Roma e delle stragi dei conquistadores), o su Leonardo quelle di Cesare Borgia? Eppure quei libri, quei dipinti, anche perché hanno avuto un canale che ha permesso loro di arrivare agli altri uomini, hanno attraversato lo spazio e il tempo e adesso possono farci ancora sentire la loro voce, la loro prefigurazione e la loro visione. Erano condannabili gli scrittori elencati prima, che pubblicavano da Mondadori mentre magari il loro editore stava baciando certe mani? E vengono forse diminuiti Kafka, Dostoevskij, Melville, Leopardi, Emily Dickinson e tanti altri, se adesso i loro libri vengono pubblicati da un editore che si chiama in un modo o nell’altro? Questo rende i loro libri e le loro voci e i loro universi paralleli meno necessari e meno veri?
Bisogna dirle anche queste cose, se no non si è detto niente. Bisogna allargare l’orizzonte, tanto più un simile angusto orizzonte. Bisogna sfondarlo. Anche l’etica, persino l’etica è solo una piccola cosa se sta tutta e solo dentro questo piccolo cerchio e quest’unica dimensione. Non c’è nient’altro? Ciò che è stato chiamato “letteratura” non è nient’altro, non può essere nient’altro? Solo un piccolo gioco di società, un passatempo, qualcosa che ci intrattiene in attesa dell’ora della nostra morte? Ma se è solo questo e non c’è nient’altro, se si può giocare tutto e solo dentro questo piccolo gioco, allora vuol dire che non c’è niente. E, se non c’è niente, allora anche tutti i baracconi editoriali e quelli giornalistici, e le persone che ci vivono e ci lavorano dentro, e i loro proprietari e i loro editori, quelli virtuosi e quelli non virtuosi, e i lettori, quelli che la pensano in un modo e quelli che la pensano in un altro, e gli scrittori, quelli che pubblicano con uno e quelli che pubblicano con l’altro, non sono altro che un puro transito di cibo e di feci.
Perché uno scrittore, anche oggi, non dovrebbe poter dire questo, se è così che sente la sua vita, la vive? Se non c’è nient’altro, allora anche lo scrittore non è niente, non conta niente, anche se sta dentro il cortocircuito contingente di un’etica e delle sue applicazioni. Se non c’è questa trascendenza, se non può esserci, se non può essere possibile questa invenzione dentro la vita, se la vita non può inventarsi la vita, allora non c’è niente, non c’è niente, non c’è neppure il territorio in cui anche l’etica può sognare un sogno più grande, e non solo essere la rotellina di un orologio in un universo dove non esiste più il tempo.

Ecco, sono questi i pensieri che sono passati dentro la mia testa scoperchiata, in questi giorni di fine agosto.

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29 Risposte to “Pensieri a cranio scoperchiato”

  1. Giovanni Says:

    Ritengo opportune le domande poste da Vito Mancuso dalle pagine di Repubblica (a se stesso più che agli altri, mi pareva), perché hanno avuto il merito di sollevare una questione che andava sollevata, anche per capire come la pensano sul gigantesco conflitto d’interessi che da 16 anni avvelena l’Italia vari autori Mondadori. Non mi sono piaciute le domande in forma di accusa che alcuni giornali o giornalisti o lettori hanno posto agli autori Mondadori, ma nemmeno le risposte aleatorie, furbe e interessate di tanti scrittori di sinistra (penso ad Augias, ad esempio) pubblicati da una prestigiosa casa editrice di proprietà del nostro capo del Governo (di cui è lecito pensare tutto il male possibile e combatterlo fino in fondo).
    Trovo assolutamente condivisibile quello che scrive Moresco, il modo in cui lo scrive, le parole che usa. Una casa editrice non è solo la proprietà, ma anche, e soprattutto, chi ci lavora (e penso con molta stima e affetto ad Antonio Franchini) e gli autori che vengono pubblicati, il cui elenco di quelli da me apprezzati sarebbe troppo lungo e forse di scarso interesse.

  2. paolab Says:

    quando ho letto l’articolo di mancuso mi sono irritata a morte. sono le parole di uno che si sente un’enorme coda di paglia, che vorrebbe avere la botte piena (cioè pubblicare con un editore potentissimo che gli dà visibilità, gli fa vendere di più ecc.) e la moglie ubriaca (cioè comportarsi secondo l’etica che lui stesso si è dato come propria o almeno come propria aspirazione, essere ed essere considerato “giusto”). sono le parole di uno che ritiene LUI ingiusto fare quello che fa, ma che vorrebbe farsi dire dagli altri: “ma sì, continua così non ti preoccupare, siamo tutti come te” (a cos’altro serviva se no quella chiamata in correo degli altri scrittori mondadori/einaudi?). mancuso vive la contraddizione oraziana: video meliora, deteriora sequor, ma anziché ammetterla come una debolezza, o rivendicarla con esplicite ragioni, esibisce la sua finta crisi di coscienza come nel peggiore salotto di maria de filippi. a me se uno pubblica o no con mondadori & controllate, importa poco o niente. non giudico. sono certa che ci sarà chi lo fa per ragioni che potrei condividere, e chi lo fa per ragioni che non condividerei. perciò non ci provo nemmeno a giudicare in blocco. però va detto anche il contrario: non mi va che si facciano passare per scemi o per moralisti quelli che hanno fatto la scelta opposta. per esempio: uno stajano che lascia einaudi per me è degno di parecchia stima. è un segno, una spina nel fianco. (per esempio: io boicotto da 20 anni la nestlè. lo fanno in molti. non per questo chi non lo fa è un servo delle multinazionali. però credo che questo gesto sia giusto). dopo di che, alla storia che uno scrittore non si relaziona con un’entità aziendale, ma con le persone con cui lavora ecc. e perciò non le vuole tradire ci credo fino a un certo punto (lo hanno detto in tanti, da Piccolo a Casarini). non conosco nessuno che, potendo andare a pubblicare con un grande editore, sia rimasto da un piccolo solo perché con le persone aveva “lavorato benissimo” (e non parlo di pubblicare un po’ con il grande e un po’ con il picccolo, ma di scegliere il piccolo al posto del grande). di solito si va da un (più) grande editore perché si aspira ad avere più visibilità, a vendere di più, a stampare più libri e (anche) ad avere più soldi. e pazienza se questo significa non lavorare più con le persone con cui si era lavorato tanto bene e che si stimava tanto. io capisco bene questa scelta, mi pare lecita e anche naturale. però, per magia, le persone con cui si lavora diventano irrinunciabili solo quando anche l’editore è vantaggioso per tutto il resto (livello dell’anticipo, tiratura, copertura dell’ufficio stampa, promozione, visibilità in libreria, potere nei premi letterari ecc.). sono tutte preoccupazioni lecite, giuste e importanti per un autore e io non ne farei colpa a nessuno. solo non vorrei vedere usare il rapporto con i professionisti che lavorano per gli editori come foglie di fico per coprire queste motivazioni. è come se gli autori stessi si vergognassero di ammettere quelle ragioni (di gran lunga prevalenti) e si rifugiassero nell’unica eticamente sostenibile: i rapporti umani. in questo senso apprezzo molto l’intervento di moresco, che non mette tra parentesi il fatto che uno scrittore sceglie l’editore che gli conviene (e uso il verbo in modo assolutamente neutro), anche se molto più spesso in realtà è una scelta obbligata, perché non ci sono altre proposte. scusate la lunghezza e la solita confusione.

  3. vbinaghi Says:

    La storia personale di un uomo (artista o meno) non si può condividere o condannare, va semplicemente rispettata. Ma quello che afferma alla fine Moresco, e che riguarda lo statuto dell’arte, è una posizione teorica che mi sembra non solo condivisibile, ma anche importante. Il linguaggio dell’arte è un linguaggio assoluto, nel senso che esso s’identifica interamente col proprio Significato, e se di arte si tratta, non è strumentalizzabile. Un dipinto di Van Gogh rimane Quella Parola anche nel malaugurato caso che venga rubata a un museo e giaccia nel bunker di un collezionista disonesto, a suo esclusivo piacere. La stessa cosa si può dire di un’opera letteraria, anche se non è un oggetto materiale unico ma la sua visibilità è affidata alla moltiplicazione delle copie. Non è importante chi la pubblica, ma chi la legge.
    Tutto qui, allora? Non proprio. So di ripetermi, ma io insisto per mantenere una distinzione tra lo scrivente e lo scrittore. Lo scrivente è autore di un’opera, lo scrittore è un personaggio che può prendere posizioni pubbliche, di tipo politico o generalmente culturale. La contraddizione nel caso Mondadori, se esiste, riguarda gli scrittori nella misura in cui assumono posizioni presuntamente rivoluzionarie, di negazione totale dell’economia di mercato, difficilmente conciliabili con la scelta di visibilità e di mercato che li porta a pubblicare per il maggiore editore italiano piuttosto che per altri. La soluzione sarebbe prendere atto del fatto che la categoria “rivoluzionario” è almeno per la persona in questione impraticabile, e chiedere di essere letto solo per ciò che scrive, e non per cosa rappresenta. Cosa che nel caso di Moresco è piuttosto facile, visto che è uno scrittore di razza. Non so se sarebbe lo stesso per i signori Casarini, Battisti ecc.

  4. Carlo Cannella Says:

    “Dai venti ai trent’anni mi sono gettato nella lotta politica, vedendo le cose nella sola dimensione orizzontale della dinamica storica e delle sue contingenze. Ora non vedo più le cose così, ora per me il gioco non è mai così cortocircuitato e stretto”.

    Ovvero: fin quando sei giovane e hai l’impressione di poter cambiare il mondo da un giorno all’altro, i principi hanno la meglio su tutto il resto. Puoi anche non mangiare tutti i giorni, ma non sarai mai disposto ad abbassare la testa, accettare compromessi, sporcare la tua integrita’. Quando invecchi e hai bisogno di medicine e scopri la fragilita’ dell’esistenza, la cosa piu’ importante diventa lasciare un’impronta sul mondo. I compromessi trovano un posto sull’ago della bilancia, sono ben sopportati. L’importante e’ che la tua scrittura sia ben distribuita, letta e possibilmente apprezzata. Per restare.

  5. Enrico Macioci Says:

    @binaghi
    Il parallelo Moresco/Van Gogh non regge perché Moresco dà il proprio assenso a Mondadori, Van Gogh invece no al collezionista ladro.
    @cannella
    Forse sei troppo severo con Moresco. Nella vita si cambia idea, non necessariamente in peggio però.
    Più in generale, continuo a non capire perchè si richieda quest’ossessiva assunzione di responsabilità agli scrittori quando per es. il giornalismo (non meno esiziale, civilmente parlando, della letteratura) versa in condizioni disperate. Non dico che non esista una questione d’opportunità riguardo Berlusconi, dico però che esiste ovunque e non solo in editoria. Nella vita ci si trova ad affrontare le questioni pratiche più disparate, e non sempre le questioni di principio possono o debbono avere la meglio sulle prime. Berlusconi si trova in maniera così clamorosa al vertice di quello che evidentemente è un sistema piramidale, che sono pochissime le cose fattibili evitando d’entrare in modo più o meno diretto nella sua sfera d’influenza – e il caso Mondadori mi pare uno di quelli in cui si entra nella sfera d’influenza di B. in maniera indiretta. Lo so che gli scrittori sono (dovrebbero) essere le persone più “civili” e più “impegnate”, tuttavia ripeto: perchè si domanda soltanto a loro una coerenza che rasenta l’autolesionismo? E siamo sicuri che non si potrebbe invocare altrettanto da categorie sociali più potenti e influenti degli scrittori, che proprio puntando i riflettori su quest’ultimi se ne restano all’ombra fresca del disimpegno?

  6. Carlo Cannella Says:

    @macioci
    Ma non avevo intenzione di essere severo o di giudicare. Sintetizzavo il discorso, cercavo di capire bene. Del resto potrei anche aver detto una cazzata, cioe’ aver capito malissimo. Resta il fatto che se un autore si sente sotto tiro e per trarsi d’impaccio sente il bisogno di spiegare e argomentare, allora e’ normale che chi legge o ascolta si faccia delle opinioni.

  7. Giulio Mozzi Says:

    Paola, come fai a dire che la “crisi di coscienza” di Mancuso è “finta”? Che ne sai?

  8. federica sgaggio Says:

    Enrico, hai ragione: la situazione del giornalismo è molto allarmante, e le responsabilità di noi giornalisti enormi.
    Però è anche vero che i giornalisti, se dipendono da una testata, sono lavoratori salariati.
    Intendo dire con questo che la loro condizione potrebbe andar contestualizzata all’interno di un rapporto azienda-lavoratore, con tutte le complicazioni e gli intrecci di piani che ne conseguirebbero, ovviamente.

    E comunque, sta di fatto che nessun giornale sarebbe disposto a dare alla mia (mia per dire: nel senso che la condividiamo in tanti) crisi di coscienza la stessa visibilità che la Repubblica ha dato a Vito Mancuso, anche se il miserabile stato del Paese è certamente più collegato al miserabile stato del giornalismo italiano che all’ipotetico miserabile stato delle lettere.

    Ci dev’essere un perché la nostra «crisi» non fa notizia.
    Di sicuro i giornalisti non san parlare di sé (forse nemmeno degli altri? Non lo so); ma secondo me c’è pure che tenere i giornalisti al di fuori del – facciamo – «ceto intellettuale» è una cosa che fa comodo a molti.
    Ai giornalisti per primi, lo ripeto.
    Agli editori, anche.
    Ma anche a tutti coloro che ai giornalisti pretendono di lasciare la bassa manovalanza, perché loro c’hanno invece da discettare di massimi sistemi.

    Voglio specificare che non alludo a nessuno, né interno né esterno a questo thread o a questa discussione che è cominciata da Mancuso in avanti.
    Dico solo che il processo è questo: giornalisti fuori, «intellettuali» dentro.
    E anche per colpa della mia categoria (lo ripeto, sì. Ancora).

    Concludo con una domanda sciocca, perdonatemi: chi dà voce alle crisi di coscienza dei giornalisti?
    C’è qualcuno, là fuori?

    Ciao a tutti, grazie.

  9. federica sgaggio Says:

    «Ci dev’essere un perché SE la nostra crisi non fa notizia», chiedo scusa.

  10. Enrico Macioci Says:

    @federica
    Grazie per la risposta sincera e lucida. E’ vero che i giornalisti fanno meno rumore degli scrittori o di Mancuso, in effetti. Ed è vero, come tu auspichi, che il problema del perchè andrebbe preso più seriamente.

  11. federica sgaggio Says:

    In realtà è stato il tuo intervento a muovermi questa domanda (chi dà voce alla crisi dei giornalisti?): perciò, grazie a te.
    Aggiungo una cosa: non basta un singolo giornalista, e non basta nemmeno un giornale, e non bastano nemmeno tre giornali. È il sistema delle informazioni che, insieme, produce – non so definire meglio – l’«interferenza civile».
    È il suo modo complessivo di funzionare, che induce nuovi sensi comuni nella consapevolezza collettiva.
    Dunque, la crisi va presa seriamente in esame.
    Tanto più che dieci, cento, mille interventi di intellettuali/autori/scrittori sui giornali non alterano la temperatura dell’ambiente politico-sociale. Non creano «interferenza civile».
    E anzi, proprio come noi giornalisti, rischiano di fare la figura della foglia di fico che consente ai giornali di blaterare di pluralismo.

    Concludendo, mi allargo.
    Altro che Mondadori!
    (Mi sono allargata troppo?).

  12. Sterco Says:

    E se la creaziome di mondi nuovi, mondi impossibili (Rabelais), fosse l’unica
    dignità dello scrittore? Con l’arte divina delle parole, delle dita-parole?
    Che ingiuria per il cuore preprint e la fantasia blisterata! E i marosi scatenati
    del sermo humilis dal medievo al web … che ci irride?!

  13. Giorgio Pozzi Says:

    …No, Antonio, perfino tu! Tu che hai vissuto davvero l’emarginazione, la solitudine: che senso ha abbandonarsi a questa filippica, solo perché hai avuto la fortuna (o il merito, o quello che vuoi) di pubblicare con Mondadori? Ma quanta coda di paglia dovete avere, per tornare continuamente su questo argomento che non interessa nessuno? Mi fate quasi pena, a difendere con i vostri “distinguo” quei miseri stipendi da cassintegrati. Mi viene in mente una famosa scena di “Todo modo”, un film di Petri degli anni 70 (ovviamente ancora attualissimo) in cui Ciccio Ingrassia si straccia le vesti davanti a Moro e a tutto il circo democristiano e urla, toccandosi il pacco: “ho avuto una vita d’inferno!”.
    Godetevi quello che vi siete conquistati e fatela finita…

  14. giorgio fontana Says:

    federica, la domanda è molto interessante.

    forse i giornalisti sono percepiti (da se stessi, dagli editori, dai lettori, da un po’ tutti) come “quelli che forniscono informazioni” e punto. insomma, come se la figura del giornalista fosse appiattita a quella del cronista tout court, quasi del pappagallo che ripete la notizia ansa condendola un po’ o andando sul posto e raccontando quel che succede punto – senza possibilità di rielaborazione ulteriore perché, be’, “perché un giornalista si deve limitare a fornire informazioni”.
    eh, no!
    però, di nuovo, perché non si dà voce alla crisi di coscienza dei giornalisti? perché fanno parte in primo luogo del sistema informazionale, e quindi è difficile immaginarsi un coro di voci dall’interno? perché effettivamente “fa poco notizia” e basta (se paragonata alla crisi di coscienza di uno scrittore, che, non ho ancora capito bene perché, godrebbe di un’aura intellettuale tutta sua)?

    poi non lo so. io devo ammettere che i giornalisti che ho conosciuto – quelli assunti e stabilizzati, diciamo, non i freelance o i collaboratori che non hanno un tubo da perdere – non mi sono parsi molto desiderosi di seminare dubbi nel sistema. tutt’altro. (il che non prova molto, visto che si tratta di un numero ristretto: mi piacerebbe però sapere qual è l’autopercezione della categoria a riguardo).

    insomma, non lo so, è un groviglio.

    tu che idea ti sei fatta?

  15. federica sgaggio Says:

    A modo loro, le redazioni sono universi chiusi, autoreferenziali e oserei dire quasi concentrazionari.
    Ne deriva che quel che accade dentro questi universi è giustificabile esclusivamente alla luce di logiche legittimate dall’impermeabilità del sistema.
    Nessuno, dal di fuori, esercita un’azione di controllo, se non in termini formali o – all’estremo opposto – in termini politico.

    Un po’ come il carcere, per fare un esempio estremo che serve a farsi capire, più che a istituire un autentico paragone.
    Se il capetto del braccio fissa una regola, quella regola vale indipendentemente dalla sua sensatezza, e produce conseguenze valide per tutti, anche se è contraria a qualunque regola sia vigente all’esterno della struttura chiusa.

    Un giornale non «conta» per le notizie che dà o per il numero di copie che vende, ma per la porzione di interessi politici ed economici che riesce a garantire.

    A quest’obiettivo viene asservito chiunque, consapevolmente o no; e indipendentemente dal ruolo.
    Un nerista, per esempio, sa che se descriverà la tal operazione di – facciamo – polizia nel tale quartiere come un’azione di contrasto al degrado, i cuoi capi saranno tranquilli, lo considereranno affidabile, e nessuno penserà che è un piantagrane.

    Lascio all’immaginazione cosa succede ai cronisti di politica.

    Tutto questo per dire cosa?
    Che con l’illusione di potere un giorno sedere alla destra del padre, e grati perché i potenti delle città danno loro del tu e magari li invitano a cena, i giornalisti accettano qualunque regola insensata, comprese quelle contrarie alla deontologia professionale.
    Accettano di calpestare i colleghi che si ribellano alle regole insensate, per esempio.
    Negano che esistano regole insensate.
    Sostengono che quelle regole sono solo apparentemente insensate, perché in realtà dobbiamo tutti renderci conto del fatto che non è più tempo di rivoluzioni.
    Ti dicono che bisogna fare i conti con la realtà.

    Ti trattano da stupido idealista, per esempio.
    Ti dicono che se continui a chiedere il rispetto di alcune minime garanzie di pervietà democratica, beh, allora faresti bene a rassegnarti all’idea che prima o poi dovrai andare a scrivere sui muri, e non più sulla carta.

    Dunque.
    Chi sente – à-la-Mancuso – la crisi di coscienza è, a seconda della convenienza del momento, un imbecille, un coglione, un illuso, un ingenuo, un sovversivo, la pietra dello scandalo, il capro espiatorio, la foglia di fico del pluralismo…

    E se a sentire la crisi di coscienza sono in cento, sono cento imbecilli coglioni eccetera.
    Se mille, mille coglioni espiatori.

    Fra i giornalisti è successo quel che è successo fuori: s’è spezzata la «classe». Non è una questione di privilegi, ma di funzione civile.

    Noi giornalisti siamo schiacciati dal potere di troppi, ciascuno dei quali ha il piacere di passare inosservato, e perciò non solo negherà di avere alcun potere sui giornalisti, ma sosterrà anche con entusiasmo e vivacità che la libertà di informazione è centrale, importante, nodale, cruciale, decisiva.

    E questo – tutto questo – è solo un pezzetto del problema.
    MInuscolo.

    Chiedo scusa per la cosa lunga.

  16. federica sgaggio Says:

    Aggiungo solo per cpmpletezza che queste cose accadono nei giornali indipendentemente dalla loro linea politica.
    In un giornale che ami definirsi di sinistra, per esempio, l’operazione di polizia non la chiameranno (necessariamente, ma a volte si vede anche là) «azione di contrasto al degrado», ma magari scomoderanno le categorie giornalistico-sociologiche del «disagio», della «marginalità»…

    Ma le parole d’ordine per riconoscersi fra simili ce le hanno tutti i giornali.
    È quando cominci a usare parole diverse che prendono il via i guai che poi conducono alle crisi di coscienza.

    Ma a quel punto sei già un coglione, un sovversivo, o – se serve – la testimonianza vivente del pluralismo della tua testata, perbacco.

  17. Antonio La Malfa Says:

    Tanto per rispondere sinteticamente all’ultima parte del ragionamento di Moresco, preferisco pensare orizzontale. Contingente. Piccolo piccolo. Preferisco una grigia società di ometti piccoli piccoli e insignificanti di cui nessuno si ricorderà in futuro, che non produrranno insigni e mirabolanti opere d’arte. Vedo le piramidi e penso alle migliaia di schiavi che hanno perso la vita per stanchezza, fame e malattie, che avrebbero preferito una società più equa, piuttosto che l’aver reso un servigio ai milioni di persone che vanno ogni anno a vedere questi monumenti, patrimonio dell’umanità. Preferisco pensare alle vite anonime di coloro che vivevano in capanne di paglia di cui abbiamo perso ogni traccia. Se il mercato delle opere d’arte deve passare per il riciclaggio di denaro sporco, denaro basato su pizzi, estorsioni, ammazzamenti – tanto per fare un esempio, a costo di essere giudicato “benaltrista” da Giulio Mozzi – preferisco che questo mercato sfiorisca in breve tempo e gli artisti si ciuccino il dito.
    Poi.
    Se un imprenditore non paga le tasse, ruba alla comunità. Ruba a ogni singolo cittadino appartenente al suo stato. E se un imprenditore è in una posizione così privilegiata da “inventare” una legge che gli consenta di pagare meno tasse, quell’imprenditore-politico è iniquo, non equo. Ci penserò ogni volta che vedrò un edificio scolastico pubblico che frequenta uno dei miei figli che necessita di essere ristrutturato ma non lo è per mancanza di fondi, o quando dovrò attendere ore in un pronto soccorso data l’esiguità del personale, o quando dovrò pagare l’esorbitante retta annuale dell’università di mio figlio. Quando vado in un ristorante – anche se ho mangiato in modo strabiliante – e non mi fanno la ricevuta, io in quel ristorante non ci tornerò più. Sono un libero professionista – forse per alcuni un coglione libero professionista – che emette ricevute fiscali a tutti i suoi clienti, avrei la possibilità di fare diversamente, ma sono contento così. E se, sulla base di un mio convincimento personale, di ciò che leggo e sento e vedo, penso che un editore-politico abbia favorito la promulgazione di una legge che gli consenta di pagare una enorme quantità di danaro in meno rispetto al dovuto, io non comprerò più i suoi libri, i suoi strabilianti libri.

  18. Giulio Mozzi Says:

    Giorgio Pozzi. Scrivi, rivolgendoti ad Antonio Moresco: “che senso ha abbandonarsi a questa filippica, solo perché hai avuto la fortuna (o il merito, o quello che vuoi) di pubblicare con Mondadori?”.

    Giorgio, come fai a dire che ciò che Moresco scrive ha quella causa lì, e solo quella? Che ne sai?

  19. sergio Says:

    A volte penso che chi fa lavori che gli permettono di sopravvivere (insegnanti, operai, impiegati, netturbini, autisti, camerieri e via dicendo) ha qualche difficoltà a permettersi “crisi di coscienza” pubbliche. Deve portare a casa lo stipendio, punto. Chi ha la possibilità di permettersele, perchè per lavoro ha spazi dove può scrivere quello che pensa ed essere letto, sarei felice, da lettore, se fosse il meno possibile autoreferenziale (io faccio così perchè, ho fatto cosà perchè eccetera), evitando di dedicarsi solo a (come dice @federica) un pezzetto del problema. Che poi annoia.

  20. Antonio D'Agostino Says:

    Ho stima di Moresco sia come persona che come scrittore (l’ho conosciuto di persona) , ma il problema su cui vorrei esprimere la mia opinione è più “circoscritto”. Quello che metto in discussione non è la figura dell’autore in quanto legato al gruppo Mondadori (gruppo su cui dal punto di vista giuridico non ha come virtù la trasparenza in materia di fisco!) . Il problema va posto sul piano politico : può un presidente del consiglio dei ministri favorire con una leggina su misura un’azienda di sua proprietà? Solo siu questo mi sento di voler aprire una discussione. Sulle sorti della Mondadori e dell’Einaudi non posso che augurare un futuro positivo . Ma la trasparenza in materia fiscale è un dovere che nessuna azienda può scavalcare con leggi a suo favore.
    Ultimo pensiero . Su questo mi esprimerò più di pancia : a me dispiace e avvilisce che una casa editrice come l’einaudi sia nelle mani di un imprenditore che in politica ha sciorinato tutto il suo allarmante senso di irresponsabilita etica!
    Qli autori-intellettuali dovrebbero avanzare critiche su questo punto , ripeto , molto circoscritto , ma che mette in luce un andazzo che un governo come il nostro ha reso cronico in tutte le azioni pubbliche e non solo! saluti di sitma

  21. Giorgio Pozzi Says:

    Giulio,
    mi sembra che questo tipo di interventi nascano da un senso di colpa (forse sarebbe meglio dire dalla consapevolezza di essere dalla parte del torto), a cui fa seguito la necessità di giustificarsi, di trovare degli appigli, di fare dei distinguo, cosa che a mio parere non fa altro che peggiorare la situazione. La più bella di tutti è quella di Lucarelli, quando afferma che gli sembra più utile “combattere il nemico dall’interno” piuttosto che dall’esterno…
    La questione che si è sollevata sarebbe prima di tutto politica – ma se perfino Bertinotti pubblica con Mondadori, che tipo di coerenza possiamo aspettarci da questa classe politica? E perché noi dovremmo essere migliori? In seconda battuta è una questione di coscienza, che ogni autore del gruppo dovrebbe affrontare da sé. Ma vedervi difendere il gruppo in questo modo, spostando l’attenzione dal fatto centrale (il conflitto di interessi) a questioni secondarie o meramente opportunistiche, mi fa male, mi sembra un atteggiamento ipocrita che né tu né Moresco meritate. Per cui il mio consiglio è ancora lo stesso: non abbassate la soglia di attenzione nei confronti del problema, ma godetevi serenamente i risultati che siete riusciti a ottenere. Non è un problema vostro.
    Se invece quello che io ho chiamato senso di colpa dovesse diventare intollerabile, agite di conseguenza.

  22. Antonio D'Agostino Says:

    dimenticavo! Un problema per me molto importante su cui non si parla mai è quello del costo , secondo me esagerato , di volumi che con l’euro (la scusa!) hanno praticamente raddoppiato i prezzi. un saggio einaudi (li compro spesso e da molti anni) costa in modo troppo rispetto ad un volume , spesso anche meglio curato , di altre casa editrici. Per non parlare della svendita de I Meridiani (di cui possiedo una collezzione da molti anni pagata a caro prezzo con rateizzi infiniti!). Quando ho saputo dell’uscita dei meridianii in edicola mi sono molto incazzato! Io sto ha pagare le rate e in edicola con una rata ne compro almeno 5! Su questo sono ancora arrabbiato e se avessi avuto soldi da spendere non avrei esitato a chiedere il danno!
    è normale?!

    p.s
    io I Meridiani li sto ancora a pagare ! la mondadori invece con tutti gli introiti che fa , viene favorita da una leggina !

    solo uno sfogo , ma anche questo conta!

  23. Antonio D'Agostino Says:

    perdonatemi gli errori di battitura e qualche svista!

  24. Giulio Mozzi Says:

    Giorgio Pozzi. Scusa, ma a me non risulta di aver “difeso il gruppo”.

  25. Giorgio Pozzi Says:

    Caro Giulio,
    il tuo post sulla “leggina ad hoc” non era un semplice esercizio di retorica, o un modo astratto per dimostrare che in Italia la stampa è faziosa e che i giornalisti spesso scrivono cose che non sono completamente veritiere o del tutto documentate. Per me smontando il pezzo di Giannini implicitamente difendi “il gruppo”, il suo buon nome e la sua onorabilità. Ma continuo a credere che distogliere l’attenzione da quello che è realmente il problema di fondo, sul quale tutti scoraggiati abbiamo perfino rinunciato ad esprimerci, non faccia altro che aumentare il solito polverone. E questo credo che sia un altro modo per “difendere il gruppo”…

  26. sergiogarufi Says:

    Io detesto Berlusconi, motivo per cui chiedo ufficialmente che Antonio Moresco continui a pubblicare per Mondadori, meglio se i Canti del Caos ad libitum, naturalmente ogni volta in volume unico assieme alle puntate precedenti, perché il solo modo serio per boicottare un’azienda è fargli perdere soldi, vedrete che dopo poche puntate a Segrate chiedono la bancarotta e a Roma cade il governo.

  27. caliceti giuseppe Says:

    A me, di questa cosa qui, colpisce soprattutto vedere, da queste dichiarazioni non richieste di tanti autori, che rappresentazione dello scrittore e dell’intellettuale italiano salta fuori….

  28. caliceti giuseppe Says:

    Ancora: qui nessuno ha messo in discussione gli scrittori, che pur si sentono chiamati in causa, ma un conflitto di interessi e una legge ad aziendam; il paradosso è che i responsabili massimi di mondadori non dicano niente su questa cosa qui e gli scrittori si sentano invece rilascino dichiarazioni non richieste in cui, involontariamente, rischiano di distogliere l’attenzione dal problema.

  29. Wu Ming 1 Says:

    Faccio uno strappo alla regola, e per una volta intervengo su questo tema nel commentarium di un altro blog. Finora lo avevo affrontato solo su Giap.
    Giuseppe, ma davvero ti sembra che queste dichiarazioni siano “non richieste”??
    Sono richiestissime, e in modo molto esplicito.
    Sono richieste da anni, e in modo assillante, fin da quando Giorgio Bocca lasciò Segrate.
    Le ha di nuovo richieste Mancuso, con tanto di megafono, nella seconda parte della sua prima lettera.
    Le “richiede” con grande foga la campagna “Mondadori no grazie”, che chiede prese di posizione degli autori e, curiosamente, cerca di “convincere” questi ultimi tramite un intimidatorio mail bombing.
    Le richiedono i lettori, disorientati dal can can.
    Non c’è sito o blog dove si discuta di questo tema in cui gli scrittori (e, attenzione, soltanto loro) non vengano chiamati in causa.
    Infatti, nessuno ha ancora chiesto agli editori “virtuosi” di boicottare le librerie Mondadori rifiutandosi di mandarci i libri che pubblicano, o di boicottare la distribuzione Mondadori non affidandole gli scatoloni. Del resto, anche gli editori concorrenti più “barricaderi” si guardano bene dal farsi avanti con un beau geste di questo tipo, che pure sarebbe molto più clamoroso e di sostanziale impatto della tanto reclamata diserzione di questo o quell’autore…
    Nessuno ha chiamato in causa editor e capi-collana etc.
    Tutti i chiamanti in causa hanno chiamato in causa gli autori. Che non si sono tirati indietro, e hanno fatto bene a rispondere, ciascuno a suo modo.
    Come fanno bene a spiegare alcune cose che sfuggono al “general public” e, soprattutto, sfuggono ai Boycott Boys.
    Ad esempio, che la famiglia Berlusconi è azionista del gruppo Rizzoli/RCS. Non solo è azionista direttamente, ma esercita un controllo azionario indiretto, dato che l’azionista di maggioranza è Geronzi.
    Non si contano le volte al giorno in cui, qui o là, veniamo invitati a lasciare Mondadori e addirittura Einaudi “perché è di Berlusconi”, e ci sentiamo dire che “esistono altri grandi editori, come Rizzoli”. Tra l’altro, ehm, noi per Rizzoli pubblichiamo già.
    E via così, col pilota automatico, ignorando davvero troppe cose.
    Non sono gli autori che rispondono a “distogliere l’attenzione dal problema”. E’ proprio il “problema” a essere articolato in modo distorto e fuorviante.
    Ieri ho fatto un supremo sforzo riassuntivo di quella che è per noi la “questione Einaudi” (noi lavoriamo con Einaudi, e quindi parliamo di Einaudi). E’ qui:
    http://bit.ly/baXLi0

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