di Alessandro Zaccuri
[Termina con questo intervento il “convegno online” dedicato a Mario Pomilio. Nei prossimi giorni pubblicheremo altri interventi che, grazie alla generosità di alcuni, si sono aggiunti a quelli programmati: alcuni ci sono già pervenuti, altri li attendiamo].
Pubblicati a quasi quarant’anni di distanza l’uno dall’altro, Il quinto evangelio di Mario Pomilio (1975) e Il Regno di Emmanuel Carrère (2014) sono come lo stesso libro scritto da due autori diversi, in condizioni storiche e personali diverse, con strumentazioni tanto diverse da risultare opposte e complementari. Una montagna scalata da versanti differenti, anche se la cima è unica. Ma la cima è, per sua natura, evidente e nello stesso tempo sfuggente.Questa che proverò ad argomentare non è propriamente una tesi critica, ma la convinzione che ho maturato nella mia storia di lettore di Pomilio e di lettore di Carrère. Dell’uno e dell’altro, non dei due contemporaneamente, perché per molte ragioni – la più banale delle quali deriva dall’anagrafe – ho conosciuto Pomilio e Carrère in tempi successivi. Ho letto Il quinto evangelio da ragazzo, mentre Il Regno mi è venuto incontro nel pieno dell’età adulta, e prima di lui c’è stato L’Avversario (2000), il libro nel quale Carrère, inaugurando la sua pratica dell’autofiction, tradisce quell’inquietudine teologica che ha reso ai miei occhi Il Regno stesso un libro meno sorprendente di quanto sia stato per altri. Un uomo che affronta in quel modo il mistero del male non può non essere attratto, con forza uguale e contraria, dal mistero del bene. Chi ha raccontato la dannazione, non può sottrarsi al racconto della salvezza, sia pure una salvezza possibile ed eventuale, qualcosa che balena giusto per un istante prima di perdersi nelle nebbie dello scetticismo.
È lo stesso annuncio portato dall’Angelo della Realtà di Wallace Stevens, l’epifania necessaria che si mostra all’improvviso sulla prosaica porta di casa, sempre restando “un’apparizione apparsa in / apparenze tanto lievi a vedersi che se appena / volge le spalle, subito, ahi subito svanisce”. Eppure, dice ancora di sé l’Angelo parlando ai paysans da cui è circondato, “Sono uno di voi ed essere uno di voi / vale essere e sapere quel che sono e so”. Per me la letteratura sta in questa comunanza di destino, in questa rivelazione fugace e ricorrente, indiscutibile nella sua indimostrabilità. Il quinto evangelio e Il Regno potrebbero essere letti, in questo senso, come un commentario ai versi di Stevens, ma vale anche l’ipotesi contraria, vale più che altro la constatazione per cui, in questo arcipelago di parole e segni, ogni testo commenta ogni altro e ne è a sua volta commentato.