Posts Tagged ‘Vittorio Giardino’

La formazione della fumettista, 29 / Antonella Vicari

9 giugno 2015

di Antonella Vicari

[Questa è la ventinovesima puntata della rubrica del martedì, dedicata alla formazione di fumettiste e fumettisti. La rubrica è a cura di Matteo Bussola. Ringraziamo Antonella per la disponibilità. gm].

antonella_vicariOtto anni, i titoli di coda di un cartone animato di Hanna & Barbera mi hanno fatto capire cosa avrei fatto da grande: la disegnatrice.

Da sempre il disegno ha fatto parte della mia vita. Non è stata una scelta ma una necessità. Scarabocchiavo, creavo piccole vignette, storie, costringevo la mia sorellina a stare ferma per ore per farle un ritratto, avevo sempre con me un taccuino, un block-notes o qualsiasi altra cosa dove poter disegnare. Ero la prima della classe in disegno.
Ho letto tantissimo sin da piccola cominciando con Topolino e Paperino. Mi affascinavano i fumetti dalla linea chiara franco-belga: Hergè, Juan Gimenez, Vittorio Giardino, Giraud/Moebius. Ma anche autori sudamericani, dalle atmosfere più cupe e noir, José Mûnoz, Barreiro & Risso, Jordi Bernet. Poi c’era Hugo Pratt. Ero attirata da entrambi gli stili, uno più “chiaro e leggero” e l’altro più “scuro e deciso”. Non avevo ancora chiaro quale sarebbe stato il mio stile.

Credo che il fumetto sia una delle tante possibilità che abbiamo di raccontare, e credo che ci siano un’infinità di modi per farlo. Ho sempre trovato straordinario lo spazio bianco tra le vignette che viene riempito dalla nostra fantasia. Tutto accade lì.

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La formazione della fumettista, 8 / Patrizia Mandanici

16 dicembre 2014

di Patrizia Mandanici

[Questa è l’ottava puntata della rubrica dedicata alla formazione di fumettiste e fumettisti, che esce in vibrisse il martedì. La rubrica è a cura di Matteo Bussola. Ringraziamo Alessandro per la disponibilità].

patrizia_mandaniciSe cerco di andare indietro nel tempo per capire quando è nata la mia esigenza di fare fumetti capisco che non c’è risposta: mi sembra di avere letto fumetti da sempre (già da prima che imparassi a leggere guardavo le figure) e di aver subito scarabocchiato in giro immergendomi nei miei mondi (mio padre, che ha sempre assecondato la mia passione, racconta che quand’ero piccola dovette dipingere i muri di casa con pittura lavabile, che tanto io disegnavo anche lì).
Non sognavo di fare la fumettista, sognavo di fare “la pittrice” – intendendo con ciò genericamente la disegnatrice. Più crescevo e più credevo che avrei finito col diventare un’illustratrice, o qualcosa di simile, ma mai veramente una fumettista: quello era un sogno che mi sembrava così al di fuori della portata delle mie possibilità che neanche ci pensavo.
Poi, certo, c’era anche il fatto che per me disegnare storie a fumetti era una questione personale, di sopravvivenza: lo facevo allo stesso modo in cui mangiavo e respiravo, era parte di me, come avrebbe potuto diventare un lavoro?
Mi piacevano così tanto i fumetti che disegnarne di miei era anche un modo per prolungare il piacere che mi dava entrare dentro quegli universi – e infatti mi ispiravo a quello che mi capitava sotto mano a quei tempi, e che amavo, da Tex a Capitan Miki, storie con indiani e cowboy disegnate con qualsiasi cosa su qualsiasi supporto: carta da disegno, ma anche quaderni a righe, a quadretti, blocchetti della riffa, agendine.

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