di Valter Binaghi
La settima parte è qui.
b) La teofania nel Verbo
Abbiamo visto che l’ordine cosmico della religione antica ha nell’uomo la sua struttura radiante, comunque si voglia interpretare questo fondamento (ingenua proiezione di un antropomorfismo in gran parte inconscio o consapevolezza della centralità umana nell’universo). Da questo punto di vista, il monoteismo ebraico rappresenta più una sintesi che una rottura. Il libro della Genesi affida all’uomo (creato per ultimo come colui a cui tutto sarà affidato) il compito di custodire ma soprattutto di significare la creazione: “Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome”(133). L’uomo non è semplicemente il custode o il pastore di un gregge che non gli appartiene ma è colui che, nel linguaggio, svela la chiarezza dell’ordine naturale e dunque, nelle iniziali condizioni paradisiache, è in grado di avvertire la presenza del Creatore nel mondo e di dialogare con Lui. Si potrebbe affermare che, nel giardino dell’Eden, non ci sono le condizioni per una conoscenza simbolica, dal momento che non c’è distanza tra ciò che appare e l’Autore che vi appare, oppure che vi è massimamente realizzata la condizione simbolica proprio perchè l’Oggetto della conoscenza è pienamente presente ed evidente nelle immagini che lo manifestano. Abbiamo infatti notato più volte che la polarità del simbolo corre tra il significare altro da sè e il renderlo presente, in un rapporto che non si lascia esaurire nella secca alternativa tra identità e differenza.