Posts Tagged ‘Samuel Beckett’
La formazione dello scrittore, 26 / Federico Platania
20 novembre 2014[Questo è il ventiseiesimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice. Le due serie escono, ormai un po’ come viene viene, il lunedì e il giovedì. Ringrazio Federico per la disponibilità. gm]
La formazione del non-lettore
Tutti i miei compagni di scuola avevano la tv a colori. Io no. La mia casa era piena di statue. Nessuno dei miei compagni di scuola poteva dire altrettanto.
Credo che la mia relazione con la cultura sia stata segnata da questa diversità che io ho sempre vissuto con orgoglio. Mio nonno, Pasquale Platania, era uno scultore (ero il nipote di uno scultore!). La mia casa era piena di libri (quanti? sicuramente più di quanti ne vedevo nelle case dei miei compagni di scuola). A otto anni ero affascinato dall’atmosfera del salotto di casa mia con tutte quelle statue, quei libri e quel vecchio televisore dove mi rassegnavo a vedere Jeeg Robot D’Acciaio in bianco e nero.
Così affascinato che l’idea di prendere uno di quei libri per leggerlo non mi ha mai sfiorato. Per anni.
Ricordo però quel pomeriggio in cui mio padre, dopo aver preso un volume da uno scaffale, mi disse: vedi questo libro? Pensa che ci sono persone, anche molto intelligenti, che non sono riuscite a finirlo.
Quel libro era l’Ulisse di Joyce. Ecco. Se oggi sono un “lettore forte” è perché quel giorno mio padre (il quale, per paradosso, faceva parte di quel gruppo di lettori che non è riuscito a finire l’Ulisse) mi ha indicato una vetta da scalare, un traguardo da raggiungere. Sono stato folgorato sulla via della letteratura non grazie alla promessa di un piacere, bensì alla prospettiva di una difficoltà.
Dieci anni dopo sono sulla scalinata esterna dell’Aula Magna dell’Università La Sapienza di Roma. Ho quella copia dell’Ulisse tra le mani. E non mi sembra vero. Mi sento come uno scalatore che dopo una serie di ferrate in montagna giunga finalmente al giorno in cui è pronto per affrontare l’Everest.
La formazione dello scrittore, 9 / Giuseppe Genna
17 luglio 2014[Questo è il nono articolo della serie La formazione dello scrittore, che appare in vibrisse il giovedì (ed è parallela a quella La formazione della scrittrice, che appare invece il lunedì). Ringrazio Giuseppe per la disponibilità. Il prossimo ospite della rubrica sarà Marco Candida. gm]
Non so nemmeno a quale formazione fare riferimento; per me, cresciuto negli anni Settanta e Ottanta e Novanta, è adesso più confusione e sbigottimento che ricordo il dire del me stesso, chi incontrò, cosa fece, come arrivò alla scrittura. Inoltre si tratta di “io” e qui sta un problema storico. Utilizzare questo pronome radicale è stato difficile nel corso dei due decenni in cui ho pubblicato. Ho tentato di costruire un ologramma, un avatar, che attirasse fulmini e saette, giusto livore e ingiusto rancore, lasciando in pace la persona in un silenzio e in un respiro ampi, secondo l’insegnamento di un poeta che annovero tra i miei maestri e che era Antonio Porta (così, noto al secolo; si chiamava Leo Paolazzi, in verità).
Prendo molto sul serio questo invito di Giulio, che certamente è tra gli scrittori e intellettuali i quali più stimo da tanti anni, con cui a me è parso di fare un po’ di strada insieme (vorrei citare, insieme a lui, tra i miei coetanei editoriali, quelli per me più decisivi: Tommaso Pincio e Aldo Nove). Dice Giulio: scrivi quello che vuoi sulla formazione tua, meglio se lungo il pezzo, anziché breve. Quindi scrivo questo autoritratto, sommario e forse un po’ peccaminoso, seguendo le metriche suggeritemi.
La formazione dello scrittore, 7 / Vitaliano Trevisan
3 luglio 2014[Questo è il settimo articolo della serie La formazione dello scrittore, che appare in vibrisse il giovedì (ed è parallela a quella La formazione della scrittrice, che appare invece il lunedì). Ringrazio Vitaliano per la disponibilità. gm]
‘Was that, my friend smyled, ‘where “you have your roots”?
No, only where my childhood was unspent,
I wanted to retort, just where I started:
By now I’ve got the whole place clearly charted.
Philip Larkin, I remember, I remember
Mi accade, di tanto in tanto, di non riuscire a dormire. Meglio lasciare il letto subito, prima che i demoni inizino con le loro insinuanti litanie. Una passeggiata notturna, lunga quanto basta perché si stanchino di aspettare. Naturalmente il paese è deserto e discretamente buio, cosa che in fondo apprezziamo, dato che non c’è niente da vedere. In questo posto, per trovarci qualcosa uno dev’esserci nato. Ma se ci è nato, com’è il caso di chi scrive, non è affatto detto che da quel qualcosa scaturiscano ricordi belli e piacevoli.
La formazione dello scrittore. Disagio è la prima parola che mi viene in mente. Molto a disagio. Anzitutto presuppone il fatto di essere formato, idea che non mi piace, specie se in riferimento alla mia scrittura – mia in corsivo non per rimarcarne il possesso, ma, viceversa, perché sono sempre più convinto che essa non sia mia. Al contempo, identificazione dello scrittore nella sua scrittura – corsivo come sopra. A questo punto, non mi è più chiaro chi stia scrivendo di chi.
La formazione della scrittrice, 23 / Elisabetta Bucciarelli
16 giugno 2014[Questo è il ventitreesimo articolo della serie La formazione della scrittrice (esce il lunedì), alla quale si è da poco affiancata la serie La formazione dello scrittore (esce il giovedì). Ringrazio Elisabetta per la disponibilità. La prossima ospite sarà Simona Vinci. gm].
Erano i racconti di mia nonna, di paese marchigiano, spiritismo e magia, che mi catturavano più di ogni altra cosa. Mi ricordo che ascoltavo mentre lavava i piatti e intanto pensavo che avrei dovuto scriverli per non perderli, per non perdere lei più che le sue parole, ma non l’ho mai fatto.Per questo succede che ogni incontro di persona importante, “lo scrivo”, lo imprigiono nelle mie parole e lo rendo mio per sempre sulla carta. Così resta, rimane con me.
Nei temi raccontavo storie. I miei venivano convocati per sapere se fossero vere. Non lo erano quasi mai. La mia fortuna è che non mi hanno mai fatto sentire diversa o bugiarda, la mia fortuna è che potevo permettermi di essere quello che ero perché sembravo altro.
A casa giravano tanti libri, ma la formazione di autrice è passata piuttosto dall’ascolto, dalle parole dette, dai contrasti, dalle azioni, dalle negazioni. Le parole lette arrivano dopo, almeno nella memoria.
Erano i libri di psicologia di mia madre che mi attiravano, i volumi degli esistenzialisti francesi, di Sartre, Camus e soprattutto, di Simone de Beauvoir. Alle medie non erano previsti, ne parlavo con gli adulti, soprattutto quelli che non avevano parole adatte a parlare con i bambini.
La formazione dello scrittore, 1 / Valerio Magrelli
22 Maggio 2014Ritorno e ricordo: al mio liceo
[Questo è il primo articolo della serie La formazione dello scrittore (parallela a quella La formazione della scrittrice), che apparirà in vibrisse il giovedì. Ringrazio Valerio per la disponibilità. Il prossimo ospite sarà Mario Benedetti. gm]
Per anni ho frequentato il “Liceo Statale Sperimentale”. La mia formazione e quella dei miei compagni si svolse tutta nel segno di un ossimoro simile a quello che in Messico è affidato al “Partito Rivoluzionario Istituzionale”. Studiavamo la devastazione. I nostri compiti a casa riguardavano Pollock e Beckett, Cage e Joyce. Afasia, dislessia, sabotaggio, erano già materie d’esame. Insomma, l’avanguardia era la tradizione. In breve ci trovammo a rovesciare, nostro malgrado, il motto di Mallarmé. Se il poeta francese esclamava: “La distruzione fu la mia Beatrice”, noi, miti cavie del laboratorio post-moderno, mormoravamo: “La distruzione è la nostra Perpetua”. Più che una musa, infatti, la distruzione ci appariva come una vecchia Tata, rassicurante e burbera. Naturalmente, il primo mio saggio fu una monografia sul Dada.
Il rischio, però, è di finire dal Cabaret Voltaire di Tzara, al Bagaglino di Pippo Franco (riferimento a uno sciagurato spettacolo dell’epoca, poi trasformato in programma televisivo): un luogo dove applaudono solo gli sprovveduti. Per spiegarmi, vorrei accennare a una mia particolare idiosincrasia, vale a dire il fastidio, si badi bane, non contro la Merda d’artista di Piero Manzoni, bensì contro il tipo di ricezione dimostrato nei suoi riguardi. Un lavoro del genere, al pari della pisciata di Carmelo Bene contro il pubblico in sala, poteva fare un effetto scandaloso su chi ignorava l’Orinatoio, ideato da Duchamp nel 1916 e con ben altre implicazioni teoriche. Questa provocazione in differita di mezzo secolo, poteva scandalizzare l’italietta del neorealismo o di qualche cittadina pugliese, ma per il resto andava e va considerata nient’altro che un’elegante chiosa, un omaggio, un d’après, se proprio non vogliamo parlare di plagio.
La formazione della scrittrice, 18 / Sandra Petrignani
12 Maggio 2014[Questo è il diciottesimo articolo di una serie che spero lunga e interessante. Ringrazio Sandra per la disponibilità. Chi volesse proporsi, mi scriva mettendo nell’oggetto le parole “La formazione della scrittrice”. gm]
Nella leggenda familiare si dice che intorno ai quattro anni fui messa su una sedia a recitare la poesia di mia invenzione: “Son piccina, son carina/ son la gioia del papà/ ma se sporco la vestina/ il papà mi fa tò-tò”. Riconosco nei contenuti e nei versi approssimati non la mia piccolezza, ma la retorica borghese che regnava in casa, dunque immagino che i veri autori fossero proprio i miei genitori. Nel corso del tempo, probabilmente, osservando le mie inclinazioni letterarie, si sono confusi e hanno attribuito a me la proprietà di versi che non mi preme minimamente rivendicare. Anzi, appena ho avuto la possibilità di scegliere, il mio gusto e le prime prove artistiche si sono subito mosse in senso contrario: a me piaceva tutto ciò che era spiazzante, inedito, bizzarro. Una delle prime poesie che potevo a buon diritto riconoscere mie e che affidavo a un quadernetto segreto durante le elementari, inneggiava alla felicità dello sporcarsi da capo a piedi rotolandosi nei campi. Molto presto ho scoperto l’esistenza di un genio di nome Kafka imbattendomi nei suoi racconti alla biblioteca scolastica delle Medie. Fu un’emozione così forte che non riuscii più ad aprire uno dei Delly che pure avevano deliziato la mia prima adolescenza promettendomi grandi amori romantici.
La formazione della scrittrice, 15 / Silvia Cassioli
21 aprile 2014[Questo è il quindicesimo articolo di una serie che spero lunga e interessante. Ringrazio Silvia per la disponibilità. Chi volesse proporsi, mi scriva mettendo nell’oggetto le parole “La formazione della scrittrice”. gm]
Felicità è un viaggio in macchina con mia madre per leggere i cartelli stradali l’anno che ho imparato a leggere. La felicità era in questo: decifrare il senso di cose correnti che avevo sempre registrato sotto un altro aspetto: l’aspetto della forma e del colore, che però era secondario (lo sospettavo) rispetto all’asse principale del messaggio. Un asse di lettere chiare: Bar, Farmacia, Stop.
Scrivere per me è qualcosa di simile, con un processo inverso. Come se per affrontare le cose bisognasse riconfigurarle in segni, forme e posizioni nello spazio. Ricostituirle daccapo. Raggiungerle, anche.
Volevo continuare a giocare senza avere ogni volta la seccatura di tirare fuori le bambole dalla scatola, apparecchiare le scene, passare sopra al fatto che Ken aveva solo un completo da tennis, inadatto alla maggior parte dei ruoli, e che quasi tutte le Barbie sorridevano con i denti, in spregio a ogni verosimiglianza drammatica. Scrivere cioè è stato il prolungamento di un gioco, il superamento di alcuni problemi che però si è subito tirato dietro problemi di tipo diverso. Il primo: il tempo. Nello spazio mentale del gioco il problema non si poneva, ma nel passaggio alla versione scritta tutte le mie storie improvvisamente diventavano corte, striminzite e secche.