[Questo è il trentaquattresimo articolo della serie La formazione della scrittrice (esce il lunedì), alla quale si è da tempo affiancata la serie La formazione dello scrittore (esce il giovedì). Ringrazio Franca per la disponibilità. gm].
Cedere la parola
Ci si forma per distruzione. Una parte di noi precipita in un luogo senza fondo. Piccole bolle risalgono verso la superficie: lievi increspature poi nulla, più nulla. Un silenzio compatto, una sepoltura perfetta. Un sacrificio che compie qualcuno per noi esaudendo il nostro voto (la nostra paura più grande) o che compiamo noi stessi bendati e inconsapevoli, spinti da invisibili mani.
Scrivo perché ho ceduto la parola. Cedo la parola alla bocca degli altri. La cedo fino a perderla, fino a ritrovarmi ammutolita, imbavagliata, a una frazione di secondo dalla possibilità di ritornare. Ma quel secondo è decisivo, in quel secondo si è già pattuito, giudicato, stabilita la visione delle cose, intessuta la discussione, riso e deciso anche per te: alla presenza di te che affondi in una delle tante scuciture, maglie allargate e strappi del reale. Sprofondi nell’ascolto, lentamente perdi consistenza, cadi a capofitto. Le parole si stagliano altissime, come nuvole bianche contro un cielo nitido. Appartengono agli adulti, a un mondo che si svolge, che continua ad accadere. Finché qualcuno ha la parola ascolti, persuasa del suo diritto a occupare uno spazio di senso e di suono, della sua ragione a esistere così, nella forza che ha chi prende la parola, contenendosi entro i propri confini o cancellando anche i tuoi labilissimi contorni. Perdendo la parola divento un animale docile, un albero che fruscia. Tutti i graffi e i segni che porto, le fratture, il sangue perso, vengono da questa sfasatura rispetto al reale che accade. Una fenditura in cui è caduto anche qualche grano di polvere. Un giorno vi ho trovato un filo d’erba.