Posts Tagged ‘Pier Paolo Pasolini’

Come sono fatti certi libri, 1 / “Il circolo Otes”, di Giuseppe D’Agata, prima parte

14 luglio 2017

di giuliomozzi

[In questa rubrica vorrei pubblicare descrizioni, anche sommarie, di libri che – al di là della storia che raccontano o del tipo di scrittura – presentano una “forma” un po’ particolare, o magari bizzarra. Che cosa io intenda qui per “forma” risulterà, credo, evidente. Se altri volessero contribuire, si facciano vivi in privato (giuliomozzi@gmail.com)]

Anche se non lo sapete, sapete qualcosa di Giuseppe D’Agata: se non altro perché vi sarà capitato di vedere il film, protagonista Alberto Sordi, Il medico della mutua, tratto dall’omonimo romanzo appunto di D’Agata, o perché vi ricordate qualcosa, magari vagamente, dello sceneggiato Il segno del comando (quello del 1971, il rifacimento del 1992 non fa testo), che aveva tra gli sceneggiatori appunto D’Agata; il quale, ma con comodo, nel 1987, ne ricavò anche un romanzo. Quindi sapete qualcosa di Giuseppe D’Agata, anche se non sapete di saperlo. Tanto perché sia chiaro che non vi sto parlando di uno di quegli scrittori assurdi che ogni tanto mi piace tirare fuori dal cappello. Se volete saperne di più, c’è un bel sito dedicato a lui, sommario ma preciso: www.giuseppedagata.it.

Vi parlerò dunque di un romanzo che si intitola Il Circolo Otes, svelandovi subito che Otes è acronimo per Operai, Tecnici e Scienziati. Comincerò dai dintorni del romanzo vero e proprio, dal cosiddetto paratesto, perché ci fu un tempo in Italia (il romanzo è del 1966) nel quale era tale la capacità progettuale di certi autori e di certi editori (l’editore di questo romanzo è Feltrinelli), che opera letteraria e quarta di copertina e bandelle e immagine di copertina e segnalibro (alcune collane avevano su un segnalibro quel tipo di testi che noi oggi siamo abituati a trovare nelle bandelle o nelle quarte) finivano col costituire un tutt’uno.

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Complessità/semplificazione: tre specie di opere

18 aprile 2017

Due eroi della narrativa d’intrattenimento

di Alberto Cristofori

[Ricevo e volentieri pubblico. Altri articoli sullo stesso argomento. gm]

La discussione innescata da Gilda Policastro e poi sviluppata da Giulio Mozzi e altri [Alessio Cuffaro, Valentina Durante, Edoardo Zambelli, Alessandro Canzian, gm] sullo spazio gestito da quest’ultimo [e altrove, gm] ha suscitato in me qualche riflessione che spero possa risultare utile. Provo a dire sinteticamente.

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“Fare i conti con il ragazzo che ero e l’uomo che sono diventato”.

24 marzo 2017

[Esattamente un anno fa Conforme alla gloria veniva pubblicato da Voland e iniziava la sua vita negli scaffali delle librerie. Proprio in questi giorni Chiara Pasin ha discusso una tesi dal titolo Tra umano e disumano. Dal corpo memoria di Primo Levi al corpo-performance contemporaneo (relatore Alessandro Cinquegrani) , in cui un’intera parte, la terza e conclusiva dal titolo Tra corpo-memoria e corpo-performance: il caso di Conforme alla gloria di Demetrio Paolin, è dedicata al mio testo. La sua tesi ha come appendice una intervista che Chiara mi ha fatto nei giorni in cui completava il suo lavoro. Con il suo permesso e con molta mia gioia la pubblico qui. dp]

Chiara Pasin&Demetrio Paolin

Le pagine di Conforme alla gloria racchiudono numerosi riferimenti a fonti più o meno esplicite: Levi, Fergnani, Arendt, Kakfa, Celan, Covacich, solo per citarne alcuni, ma anche artisti e performer. Quali sono i suoi modelli più cari?

“È certamente difficile stabilire un canone letterario, ancorché personale e privato. Se dovessi dire le fondamenta sulle quali poggiano le pagine di Conforme alla gloria, direi che il primo testo di riferimento è la Sacra Scrittura. Soprattutto l’Antico Test amento e gli scritti di Paolo; credo che il Dio che compare più volte nel romanzo debba molto a queste mie letture, che sono state anche le letture della mia infanzia. […]Nello stesso tempo mi rendo conto che in Conforme alla gloria Cristo è assente, l’agnello mite e sacrificale, colui che prende e porta sulle sue spalle i peccati di tutti, non c’è. Dal punto di vista teologico, questo romanzo è stato scritto prima della nascita di Cristo, e il Dio a cui io faccio riferimento è il Dio dell’Antico Testamento e quindi concetti come colpa, peccato e male hanno nel romanzo risuonano al lettore in un modo diverso. Sono, se posso usare un termine, più tragici e originari. Hanno qualcosa che riguarda le scaturigini più profonde nel nostro essere umano.

Altrettanto fondamentali sono state per me le opere di De Sade. Dell’opera del marchese mi interessava soprattutto il trattamento dei corpi. Ovvero mi pare che in De Sade, so che sto semplificando, ma mi si perdonerà, c’è in germe l’idea del corpo asservito a una idea, anzi meglio ancora una ideologia, che è poi quello che sottolinea Pasolini – altra fondamenta del mio testo – in Salò. A me interessava questa ipotesi di corpi che passivamente diventano un luogo dove una ideologia si incarna e fa male.”

Leggi l’intervista di Chiara Pasin a Demetrio Paolin su Conforme alla gloria

Modernità e postmodernità di Mario Pomilio

9 novembre 2015

Intervista a Andrea Cortellessa

[Andrea Cortellessa, critico letterario, è il responsabile della collana fuoriformato, nata presso l’editore Le Lettere e oggi publicata dall’editore L’orma. In questa collana – molto particolare, come si vedrà – è stata ospitata la nuova edizione de Il quinto evangelio di Mario Pomilio].

Mi hai detto in privato, Andrea, di aver letto Il quinto evangelio «quasi vent’anni fa». Quindi, dato che siamo nel 2015 e tu sei del 1968, più o meno trentenne. Che ricordo hai di quella prima lettura? E quando l’hai riletto in vista della nuova pubblicazione in Fuori formato, ne hai ricavato un’impressione diversa?

pomilio_evangelio_LormaDoveva essere il 1996. Ci arrivai per una via doppiamente obliqua, che i pomiliani puri e duri (se esistono) potrebbero forse trovare offensiva, per la sua memoria, o comunque riduttiva. Offensiva spero non sia, riduttiva lo è senz’altro. Ha ragione Demetrio Paolin: all’Università, Pomilio, non si studiava (non credo si studi neppure adesso, se è per questo). Naturalmente ne avevo sentito parlare, però. Dai manuali ne usciva l’immagine di uno scrittore conservatore, un neorealista attardato con un di più d’inquietudine confessionale, cattolica (ma senza il torbido sensuale e controriformista che a noi miscredenti sessuomani fa tanto amare i cattolici veneti; il suo veniva presentato invece come un cattolicesimo socialdemocratico, pallidamente riformista, infeltrito e un po’ nasale, appenninico e terrone). Date queste premesse si potrà capire forse che, nella mia smania d’aggiornamento d’allora, sebbene leggessi un po’ di tutto e freneticamente, ritenessi che prima di lui c’erano tanti altri autori da leggere.

In particolare prima di lui avevo letto suo figlio Tommaso. Non dirò che per me Mario Pomilio fosse allora, prima di tutto, il padre di Tommaso; ma più o meno era così, in effetti. Anche perché Tommaso non era solo l’autore di libri esoterici e misteriosi, che mi affascinavano, ma era anche una persona, viva e squisita, ed esoterica e misteriosa, che mi affascinava (e tuttora mi affascina). Va aggiunto che Tommaso è stato il mio grande passeur, il mio iniziatore alla poesia contemporanea (per me allora la poesia si concludeva, come da programmi universitari, più o meno con la Z di Zanzotto; era luil’ultimo poeta, come da allora è continuato a essere per Giulio Ferroni, i cui seminari allora seguivo con passione); sottobanco, nei corridoi della «Sapienza», mi metteva a parte dei «sodalizi clos-iniziatici» (mi è rimasta impressa questa sua formula) in cui era coinvolto in prima persona. Ma con un di più di pudore mi faceva capire, in pari tempo, che quella scelta remota e per certi versi comprensibile – di cambiarsi il cognome da «Pomilio» in «Ottonieri» –, dopo la scomparsa di Mario aveva preso a pesargli. Perché a dispetto di tutto – dei conflitti che aveva avuto con lui e colla cerchia di amicizie che lui aveva avuto in vita, e che anche dopo la morte continuavano a soffocarlo nel cordone sanitario dello “scrittore cattolico” – lui, Tommaso, era convinto che si trattasse di uno scrittore importante. Non solo per lui, voleva dire (che in nome del padre ha poi scritto il suo libro forse più bello, Le Strade Che Portano Al Fucino: che la sorte vorrà sarò proprio io a pubblicare, nella prima fuoriformato, quella de Le Lettere). Così lessi Il quinto evangelio – e scoprii quello che era, non solo per me evidentemente, un capolavoro sconosciuto (non fu certo quella, del resto, né la prima né l’ultima mia lettura tardiva). Un libro di una modernità, o forse di una postmodernità, sconvolgente. Che fuoriusciva da tutte le scuole, che eccedeva tutti i canoni, che veniva da tutti i libri e da nessuno.

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Appunti su Mario Pomilio, “Il quinto evangelio”

29 ottobre 2015

di Demetrio Paolin

[Continua il “convegno online” dedicato a Mario Pomilio].

Antefatto. “Come una narrazione”

Mario Pomilio

Mario Pomilio

Nell’agosto di quest’anno ero seduto fuori da una piccola chiesa in un luogo non ben definito tra Abruzzo, Marche e Lazio. Questa piccola chiesa, il Santuario dell’Icona Passatora, ha conservato in ottimo stato un bellissimo ciclo di affreschi del ‘400. Mentre sono lì che aspetto il sacerdote perché venga ad aprire l’edificio, penso che Pomilio potrebbe aver passato una domenica tra queste montagne. Me lo vedo seduto, come me, sul bordo di una fontana di pietra di fronte la chiesa a contemplare un paesaggio così simile a quello che lui descrive ne Il quinto evangelio [QE]: montagne, boschi e chiese solitarie, nelle quali eremiti e abati scrivono e dialogano tra di loro su un fantomatico testo che corre lungo la storia dell’uomo e che potrebbe cambiarla.

Quando il prete arriva, mi fa entrare e accende le luci: il colpo d’occhio è incredibile; è come se tutte le immagini mi venissero incontro. C’è qualcosa di familiare, ma non riesco a spiegarlo in nessun modo, il mio interlocutore mi toglie dall’imbarazzo, dicendomi: “Sembra che parlino alle persone. Era il modo che aveva la Chiesa di annunciare l’evangelio”. Dice proprio “evangelio”, in questo modo, così come il titolo del libro. Mi sorride e continua: “Una volta per annunciare la novella si usavano le immagini. Questo affresco è qualcosa di più: non ci sono solo le storie del vangelo e quelle della pietà popolare, ma anche rappresentazioni dei concetti presenti nelle lettere apostoliche”. Così mi porta verso un dipinto: si intravede una collina, con tre croci innalzate. “È una crocifissione”, dico io. Lui mi guarda: “No, questa è la lettera di San Paolo ai Corinzi, in particolare il passaggio dove Cristo viene indicato come il nuovo Adamo”. Guardo con più attenzione e vedo che il pittore ha fatto in modo che il sangue dei piedi di Cristo scenda lungo il legno per filtrare in una specie di montagnola di terra dove si intravede un teschio. “È il teschio di Adamo”, dice il prete, “il sangue di Cristo salva l’umanità che viveva nella morte rappresentata da Adamo”. Dopo un po’ di silenzio, il prete aggiunge: “Tutti, così ci ha salvati”. Quindi mi saluta e va da altri turisti a raccontare le storie di questi affreschi.
Così non appena penso di scrivere le mie note di lettura al QE, mi torna alla memoria quel giorno d’agosto e l’affresco, come se lì davanti a quei dipinti avessi intravisto il significato della bellezza del romanzo di Pomilio, di cui gli appunti a seguire sono un semplice tentativo di razionalizzazione.

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Tramandato per secoli, sparito negli anni ʼ80. “Il quinto evangelio” tra finzione narrativa e realtà editoriale

28 ottobre 2015

di Mario De Santis

[continua il “convegno online” dedicato a Mario Pomilio].

Mario Pomilio

Mario Pomilio

Il quinto evangelio di Mario Pomilio, letto oggi, spiazza ancora di più rispetto a quando è uscito. Sottoposto a differenti inattualità, tanto da farne una sorta di libro a suo modo distopico, nel senso che è come un monolite capitato in un’epoca sbagliata. Provo a ragionare su questi due punti parlando di ciò che sta fuori dalla soglia del testo e dentro esso. La casa editrice L’Orma lo recupera dall’oblio editoriale e da un’epoca storica entro la quale era così ben collocato – il 1975 della pubblicazione, la discussione post-conciliare, il movimento cattolico che si confrontava con le istanze sociali eccetera. Da un lato lo colloca nelle stesse librerie dove hanno successo romanzi che agitano spettri di un cristianesimo medioevale, ombroso e templare, ritenuto ancora capace di influire sul nostro mondo – ecco i successi di Dan Brown su tutti o in Italia di Carrisi – un cristianesimo che sembra tuttavia più una maschera da videogame che un’entità reale.

È curiosa la coincidenza tra il narrato letterario e la vicenda editoriale, con le debite proporzioni: un libro scomparso, che riemerge, è questo il tratto che unisce il plot del romanzo e la sua disavventura culturale. Il romanzo in sé ebbe successo, con diverse edizioni, e poi fu inghiottito dall’oblio, non assoluto, negli anni dopo il 1980, ma di fatto non era più ristampato e dunque reale. Riappare oggi, in una società italiana ampiamente secolarizzata che non frequenta, se non una minoranza, le chiese e ancora meno la diretta parola di Dio, i libri evangelici, la Bibbia. E in un paese di non lettori, in un paese di cattolici di facciata e certo non frequentatori delle Scritture, che senso ha riproporre un libro come quello di Pomilio? Se il contesto in qualche modo può legarsi a un libro e illuminarne una parte del senso, c’è da dire tuttavia che l’inattualità di Pomilio rispetto all’uditorio del pubblico italiano si ribalta in kairos: arriva al momento giusto, se pensato nella coincidenza del mutamento indotto dall’istanza pauperista, di apertura, che il Papato di Francesco sta facendo emergere. Il contenuto del Quinto evangelio ridiventa ancora una volta attuale – di fronte a una Chiesa curiale, politica, conservatrice e al tempo stesso fortemente compromessa con il secolo, dal punto di vista economico e politico, come era stata e in parte è quella che dominava la scena fino all’elezione di Bergoglio. Cosa lega il destino di un romanzo come Il quinto evangelio? La questione della fede nella parola letteraria collegata alla presenza sociale della fede cattolica, da quegli anni in poi. Qui si si può provare a sovrapporre “il cattolico medio italiano” al “lettore medio italiano”.

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La parola e le catene (editoriali)

26 ottobre 2015

di Gabriele Frasca

[Questo intervento di Gabriele Frasca apre il “convegno online” Il ritorno di Mario Pomilio, scrittore europeo. Vedi l’introduzione di Demetrio Paolin].

[Preleva l’intervento di G. Frasca in pdf]

Mario Pomilio

Mario Pomilio

Nessuno può tenere in catene la parola. Con questa variazione da un ben noto passo deuteropaolino, che recita in verità “non s’incatena [dedetai] la parola di Dio” [2 Tim 2, 10], iniziavo il saggio che ora accompagna la nuova edizione del Quinto evangelio che con questo nostro convegno telematico in qualche modo festeggiamo; e ne sono personalmente felice, e grato a chi ne ha avuto l’idea. La citazione, tratta da quella stessa seconda lettera a Timoteo in cui l’apostolo (o chi per lui) esorta a rifuggire i più tipici piaceri intellettuali (i “vaniloqui profani” [2, 16] e le “ricerche insensate e non istruttive” [2, 23]), mi è servita in quell’occasione per tentare di seguire una doppia parabola: quella disegnata nel testo, vale a dire l’affannosa ricerca del vangelo nascosto che lo anima, e l’altra che il romanzo di Pomilio, letteralmente sparendo dopo l’iniziale successo, è come se avesse a sua insaputa intercettato. C’è qualcosa di sorprendente, lo sappiamo, nella storia stessa della ricezione di quest’opera, che è come se insomma avesse finito col contenere inconsapevolmente se stessa, e avesse messo in scena un dramma, un dramma culturale, quello per l’appunto della sparizione di un testo, che l’avrebbe vista inopinata protagonista. Nessuno può tenere in catene la parola, concludevo a un certo punto di quel saggio; sempre che un assordante rumore di fondo non la riduca a un bisbiglio.

Di motivi per questo strano destino che si è abbattuto sul Quinto evangelio, ho provato a fornirne in quell’occasione; eppure non si può dire che ne abbia trovato uno così convincente da acquietarmi. Di sicuro la svolta ultraliberista dell’intero sistema occidentale a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, e dunque la progressiva nascita dei monopolî editoriali, potrebbe bastare a motivare l’improvvisa sfortuna di un’opera che non nacque certo per intrattenere. Magari per far riflettere, persino per salvare, ma non di sicuro per limitarsi a far trascorrere il tempo da una stazione della metro all’altra, ove mai si fosse così fortunati da trovare un posto a sedere, o l’angolo giusto dove aprire il proprio libro senza sbatterlo in faccia al malcapitato vicino. Non c’è più tempo, e magari nemmeno spazio, in un mondo governato da quello che Alain Supiot ha recentemente definito la “gouvernance par les nombres”, per avere a che fare con un testo che non nasconde la voglia d’imbrigliare il lettore, e sprofondarlo nelle sue riflessioni. Con l’intento fra l’altro persino dichiarato di farne ben altro che una x valore di variabile. Sarà dunque questo il motivo della sua sparizione, fino alla meritevole edizione che stiamo in qualche modo salutando.

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Il ritorno di Mario Pomilio, romanziere europeo (da lunedì 26 ottobre )

24 ottobre 2015

di Demetrio Paolin

Mario Pomilio

Mario Pomilio

Più o meno a maggio di quest’anno avevo tra le mani la copia della nuova edizione del Quinto Evangelio (L’orma editore, 2015) di Mario Pomilio; nella mia libreria facevano mostra di sé la ristampa de Il nuovo corso (Hacca, 2014) e di Scritti cristiani (Vita e pensiero, 2014). E mentre ero indeciso su come scrivere, qui in vibrisse, mi è capitato di leggere un’affermazione di Giulio Mozzi sul suo profilo di facebook che diceva più o meno che il Quinto Evangelio era il più bel romanzo italiano del dopoguerra. Alla sua affermazione mi venne solo da dire: Dio mio, sì! Giulio ha ragione.

La letteratura, sappiamo, non è una classifica di calcio, ma spesso è utile cercare di stabilire un qualche ordine di grandezza, cercando – in parole povere – di fornire una sorta di canone dei testi. E sicuramente il romanzo di Pomilio, ma sarebbe meglio dire la sua opera, dovrebbe essere contemplato al suo interno. In realtà, però, dell’autore abruzzese si è parlato poco o niente, relegandolo al ruolo marginale nell’economia della nostra storia letteraria.

Per questo motivo in quel giorno ho pensato di scrivere una breve mail a tre amici, scrittori e lettori forti dell’opera pomilana, dicendo loro che volevo provare a costruire sul Quinto Evangelio e sull’opera di Pomilio non una semplice recensione o saggio ragionato, ma qualcosa di più.

Gli amici in questione erano Giulio Mozzi, Alessandro Zaccuri e Gabriele Dadati e il qualcosa in più che avevo pensato e immaginato è quello che leggerete nei prossimi giorni qui sul sito di vibrisse ovvero una sorta di convegno on line dal titolo Il ritorno di Mario Pomilio, romanziere europeo, in cui scrittori, critici, teologi e giornalisti sono stati chiamati a scrivere un loro contributo.

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La formazione dello scrittore, 23 / Roberto Deidier

6 novembre 2014

di Roberto Deidier

[Questo è il ventitreesimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice. Le due serie escono, ormai un po’ come viene viene, il lunedì e il giovedì. Ringrazio Roberto per la disponibilità. gm]

di Roberto Deidier

Si forma, uno scrittore? E come? Ci sono modi che possiamo riconoscere o condividere? Certo non ci sono modi standard. Forse ce ne sono stati in passato, quando la poetica non era un’opzione ma una norma; lo scrittore moderno, al contrario, ha saputo conquistarsi una dose di libertà, sufficiente per affrancarsi da imposizioni e diktat d’ogni genere. Cosa abbia saputo fare di questa libertà, com’è ovvio, diventa un altro discorso. Resta che a ciascuno sono spettati i modelli e le letture, in cui si è imbattuto quasi sempre per caso.

Per me, come per tanti altri, la scuola è stata un’occasione importante. Non solo quella del liceo, che mi ha messo in contatto con i classici, ma quella primaria, con le filastrocche e le poesie del sussidiario. E con un maestro che ci metteva sotto gli occhi gli antenati di Calvino e i personaggi impronunciabili delle Cosmicomiche: vero carburante per l’immaginazione di ogni bambino. Gli infiniti di Leopardi erano già dietro la porta. Ma ricordo, tra i soliti poeti delle elementari (Pascoli e Ungaretti furoreggiavano nei libri di testo), Prévert, con una curiosa poesia, la prima lunga poesia che mi fu chiesto di mandare a mente. Non ne so più un verso: s’intitolava Per fare il ritratto di un uccello e suggeriva, per la riuscita dell’impresa, di cominciare dal disegno di una gabbia, per poi rappresentare l’uccello con le piume colorate; infine si doveva cancellare la gabbia. Strana e bella allegoria della scrittura che tenta di imprigionare il mondo, e poi ne apre tanti altri più ampi, ma allora non potevo saperlo e pure se lo avessi saputo non lo avrei compreso. Così cominciavo a scrivere senza capire quello che stavo facendo: la gabbia era diventata la mia stanza, ascoltavo i muri, la loro vita interna fatta di tubi e suoni misteriosi e appuntavo queste sensazioni in un quaderno che finì perso da un trasloco all’altro.

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La formazione dello scrittore, 19 / Romolo Bugaro

20 ottobre 2014

di Romolo Bugaro

[Questo è il diciannovesimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice (che per qualche settimana sarà sospesa, mentre le “formazioni” degli scrittori usciranno sia il giovedì sia il lunedì). Ringrazio Romolo per la disponibilità. gm]

Sono stato fortunato, fortunatissimo. Sono nato in una famiglia senza particolari problemi economici e capace di offrire molte cose.
Mio padre, medico, era un uomo con mille interessi. Amava la musica, la storia, la letteratura. Avevamo la casa piena di libri. Edizioni e collane bellissime: la Medusa della Mondadori, gli Scrittori Stranieri della Utet.
Ricordo il suo primo consiglio. “Vedi se ti piace questo.” Era Vicolo Cannery di John Steinbeck. Ho cominciato a leggere, non mi piaceva granché. Forse rivendicavo una specie di autonomia di giudizio. Ben presto l’ho abbandonato.
Però sono rimasto sugli americani. Winseburg, Ohio di Sherwood Anderson è la prima lettura significativa di cui abbia memoria. A distanza di trenta o quarant’anni non ricordo praticamente nulla delle storie, dei personaggi. Ricordo invece gli ambienti, il paesaggio. Campagne invernali con pochi alberi, pochi suoni. Colline dove la distanza era pura luce.
Dopo Anderson, come alcune migliaia di lettori desiderosi di scrivere in proprio, sono passato a Hemingway. A partire da Il sole sorge ancora in un’edizione oggi introvabile (ovviamente di mio padre): Jandi Sapi di Roma. Anno di pubblicazione: 1944. Traduzione: Rosetta Dandolo. Prezzo di vendita – testualmente, dal dorso del libro: “in Roma L. 150 (esente da aumento) fuori Roma: L. 160 (esente da aumento)”.
La guerra stava ancora infuriando nel Nord Italia, fascisti e nazisti avevano appena fondato la Repubblica Sociale, e nella capitale già si stampavano gli autori proibiti dal regime.

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Cosa o come insegnare a scuola / L’endecasillabo e gli altri

18 agosto 2014

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La formazione dello scrittore, 10 / Marco Candida

24 luglio 2014

di Marco Candida

[Questo è il decimo articolo della serie La formazione dello scrittore, che appare in vibrisse il giovedì (ed è parallela a quella La formazione della scrittrice, che appare invece il lunedì). Ringrazio Marco per la disponibilità. Con questo articolo la rubrica va in vacanza: riprenderà giovedì 4 settembre con il contributo di Raul Montanari. gm]

Marco CandidaHo scritto il primo romanzo a dodici anni. 1990. Quell’anno passavano in televisione la serie televisiva Twin Peaks. Avevo visto La Casa Russia con Sean Connery e Michelle Pfeiffer. A scuola leggevamo in classe Zanna Bianca di Jack London e avevo trovato presso le bancarelle in Piazza Duomo a Tortona Martin Eden e Il richiamo della foresta nell’edizione cartonata e molto voluminosa dei Fratelli Melita. Il richiamo della foresta è stato un grande libro, ma Martin Eden è stato un libro che ha rappresentato per me, come per molti altri, un caposaldo. Casa Russia. Twin Peaks. Martin Eden. Ricordo d’essermi seduto per la prima volta alla scrivania nella mia stanza soprattutto con le suggestioni e le atmosfere date da queste storie nella testa – come non rimanere suggestionati dalla colonna sonora composta da Angelo Badalamenti per la serie televisiva girata da David Lynch? E’ venuto fuori un romanzo lunghissimo scritto in sei mesi con tre diversi tipi di penne (una penna biro blu, una Bic nera e poi un bavoso tratto pen) in un quadernetto con la copertina rigida (che recava l’immagine della maglietta della Juventus con qualche adesivo acquistato in un negozio sottocasa dal nome Chewing-gum, vera e propria oasi di colori, plastica e gomma nel grigiore paludoso, di pietra e di stucco, della mia città natale) con fogli a spirale a quadretti e poi a righe. Ora che lo riguardo mi accorgo come nel quaderno i caratteri della grafia diventino sempre più piccoli man mano che la narrazione procede. Più il romanzo si scioglie e diventa solo una storia e non il tentativo di un ragazzo di scrivere, di fare lo scrittore e più la grafia si rimpicciolisce, cosa che forse suggerisce una forma di pudore: nelle parti dove non stavo facendo lo scrittore, ero soltanto me stesso con una penna e dei fogli e questo mi procurava imbarazzo, e scrivevo piccolo per rendere quello scritto accessibile solo a me, comprensibile solo ai miei occhi e a nessun altro sguardo occasionale – mi figuravo i miei genitori curiosare tra le mie cose e poi me li figuravo leggerle agli Elemento o ai Taverna o a Piero e Assunta. Ciò che è davvero interessante del quadernetto si trova nella prima pagina. C’è una griglia con un calcolo approssimativo del numero di parole all’interno del romanzo. Se non ricordo male era un discorso letto per la prima volta proprio presso Jack London. Tenere conto del numero di parole in uno scritto. Mi stupisce ora pensare che un ragazzino di dodici anni si appassionasse a dettagli come calcolare il numero di parole dei suoi romanzi perché è una questione molto molto tecnica – e nemmeno particolarmente praticata presso i più affermati scrittori nostrani. Di qua avevamo un ragazzo che aveva attaccato il suo romanzo con la descrizione del canto del gallo, delle foglie nella rugiada, l’alba e di là lo stesso ragazzo vedeva tutte quelle cose con sguardo aritmetico, considerava ogni emozione e palpito dato dalla prosa come quantità.

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La formazione della scrittrice, 23 / Elisabetta Bucciarelli

16 giugno 2014

di Elisabetta Bucciarelli

[Questo è il ventitreesimo articolo della serie La formazione della scrittrice (esce il lunedì), alla quale si è da poco affiancata la serie La formazione dello scrittore (esce il giovedì). Ringrazio Elisabetta per la disponibilità. La prossima ospite sarà Simona Vinci. gm].

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Erano i racconti di mia nonna, di paese marchigiano, spiritismo e magia, che mi catturavano più di ogni altra cosa. Mi ricordo che ascoltavo mentre lavava i piatti e intanto pensavo che avrei dovuto scriverli per non perderli, per non perdere lei più che le sue parole, ma non l’ho mai fatto.
Per questo succede che ogni incontro di persona importante, “lo scrivo”, lo imprigiono nelle mie parole e lo rendo mio per sempre sulla carta. Così resta, rimane con me.

Nei temi raccontavo storie. I miei venivano convocati per sapere se fossero vere. Non lo erano quasi mai. La mia fortuna è che non mi hanno mai fatto sentire diversa o bugiarda, la mia fortuna è che potevo permettermi di essere quello che ero perché sembravo altro.

A casa giravano tanti libri, ma la formazione di autrice è passata piuttosto dall’ascolto, dalle parole dette, dai contrasti, dalle azioni, dalle negazioni. Le parole lette arrivano dopo, almeno nella memoria.
Erano i libri di psicologia di mia madre che mi attiravano, i volumi degli esistenzialisti francesi, di Sartre, Camus e soprattutto, di Simone de Beauvoir. Alle medie non erano previsti, ne parlavo con gli adulti, soprattutto quelli che non avevano parole adatte a parlare con i bambini.

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La formazione dello scrittore, 3 / Tullio Avoledo

5 giugno 2014

Nascita di uno scrittore (a partire dal naso)

di Tullio Avoledo

[Questo è il terzo articolo della serie La formazione dello scrittore (parallela a quella La formazione della scrittrice), che appare in vibrisse il giovedì. Ringrazio Tullio per la disponibilità. gm]

tullio_avoledoPenso di essere diventato scrittore a causa del mio naso.
Credo sia cominciato tutto con l’enciclopedia Conoscere.
Era un’enciclopedia per ragazzi degli anni ’60. La compravi a fascicoli, in edicola, e quando avevi completato la raccolta dei fascicoli di un volume li facevi rilegare. L’odore di colla del volume appena rilegato (da un cugino di mio padre che lo faceva di mestiere) era semplicemente fantastico.
A casa mia arrivarono solo tre volumi, di quell’enciclopedia: l’XI, il XII e il XIII. Non so perché. Forse la cosa fu dovuta al fatto che nel 1966 uscì la terza edizione del Grande dizionario enciclopedico UTET, che rese immediatamente obsoleta Conoscere.
Ma la mia prima formazione alla lettura avvenne sui tre volumi di quell’enciclopedia, che aveva un odore buonissimo e la caratteristica di non essere organizzata per argomenti, o secondo criteri logici: due pagine sui Sumeri potevano seguirne due sul sistema solare, e precederne altre due su Leone Tolstoj.
Il Dizionario enciclopedico UTET piombò su quel mondo caotico e colorato con l’impatto devastante di un meteorite. Sulle rovine fumanti di una giungla d’informazioni e illustrazioni si levò un monolito che aveva sul dorso la scritta A-APO.
Ricordo ancora, a distanza di quasi cinquant’anni, la sequenza degli indici di quei volumi: A-APO, APP-BEQ, BER-CAQ, CAR-CLE, CLI-DAN… Nomi simili a quelli di divinità oscure, a un cupo rituale di evocazione lovecraftiano.
La UTET stava a Conoscere come i tripodi marziani di George H. Wells stavano alle brigate di cavalleria dei Terrestri. Era l’iPod contro il mangianastri, l’iPhone contro un telefono a disco combinatore.
Eppure…

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La formazione della scrittrice, 21 / Claudia Priano

2 giugno 2014

di Claudia Priano

[Questo è il ventunesimo articolo della serie La formazione della scrittrice (esce il lunedì), alla quale si è ora affiancata la serie La formazione dello scrittore (esce il giovedì). Ringrazio Claudia per la disponibilità. gm].

Scrivo per necessità. Scrivo perché la parola scritta è stata per me un modo importante per capire e per esprimere quello che sentivo, vedevo e leggevo nella realtà, questo in sintesi, molto in sintesi.

Ero da bambina una timida speciale, patologicamente timida. Non mi andava di parlare, soprattutto non mi riusciva, se mi rivolgevano una domanda mi facevo rossa, balbettavo. Spesso ero silenziosa e malinconica, e ciò infastidiva i miei familiari, li metteva in imbarazzo, rispondi alla signora, mi dicevano, ma io muta non cedevo, ritenevo che mi rivolgessero domande alle quali non sapevo dare una risposta, gli adulti lo fanno spesso, mentre spesso i bambini si aspettano di sentirsi fare domande opportune e non del tutto idiote. Ti piace la scuola?, li mangi gli spinaci?, fai la brava? Avrei dovuto rispondere mentendo, e allora me ne stavo zitta, è fatta così, è tanto timida, ma è brava, si scusava mia madre.
Quel ma è brava mi infastidiva, mi faceva salire una rabbia al punto tale che avrei voluto farglielo rimangiare in qualche modo, ma non sapevo come. Non c’era modo di spiegarglielo, perché non trovavo le parole, le cercavo ma mi si asciugavano in gola, sulla lingua giungevano secche, polverizzate, sputavo quel che rimaneva in ritardo, nel momento sbagliato, quando avevano perso di significato.
Non so se sia per via del concetto di tempo che non mi era chiaro, ma fatto sta che dentro di me regnava una lentezza, ero sempre in ritardo ogni volta che dovevo spiegare, parlare, chiedere.

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L’esibizione del dolore

27 febbraio 2011

di Gilda Policastro

[Questo articolo di Gilda Policastro è apparso il 25 febbraio 2011 nel quotidiano il manifesto].

Quando Christian, uno dei protagonisti del romanzo La Torre di Uwe Tellkamp, in procinto di partire per il campo di prereclutamento, ne indossa l’uniforme, il narratore ci informa che egli lo fa «non per orgoglio, ma perché voleva farsi compatire…, una sensazione masochistica del genere “guardate qui”, la messa in mostra della sofferenza». Il romanzo di Uwe Tellkamp, ambientato nella Ddr, è scritto in terza persona, ed è un libro corale, affollato di storie, alcune delle quali legate al mondo editoriale. Altro personaggio chiave è infatti Judith Scevola, la scrittrice che sconta con la marginalità pubblica la propria incapacità a irreggimentarsi.
Ma di questo, più avanti; è invece quella finzione della divisa indossata con voluttà masochistica a interessare, adesso: torna in mente la categoria utilizzata sulle colonne del «Manifesto» dal critico Daniele Giglioli a proposito di Gomorra, all’indomani della sua uscita e alla vigilia del suo successo mediatico e planetario (qui). Saviano, scriveva Giglioli, va sui luoghi della malavita e del malaffare «al posto nostro»: sacrificandosi per noi, diventa l’eroe che tutti vorremmo essere e al tempo stesso ci solleva dall’obbligo di esserlo a nostra volta.

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Sempre Piero è

23 gennaio 2009
Particolare della Storia della vera Croce, di Piero della Francesca.

Particolare della Storia della vera Croce, di Piero della Francesca.

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