[Questa è l’ottava puntata della rubrica dedicata alla formazione di fumettiste e fumettisti, che esce in vibrisse il martedì. La rubrica è a cura di Matteo Bussola. Ringraziamo Alessandro per la disponibilità].
Se cerco di andare indietro nel tempo per capire quando è nata la mia esigenza di fare fumetti capisco che non c’è risposta: mi sembra di avere letto fumetti da sempre (già da prima che imparassi a leggere guardavo le figure) e di aver subito scarabocchiato in giro immergendomi nei miei mondi (mio padre, che ha sempre assecondato la mia passione, racconta che quand’ero piccola dovette dipingere i muri di casa con pittura lavabile, che tanto io disegnavo anche lì).
Non sognavo di fare la fumettista, sognavo di fare “la pittrice” – intendendo con ciò genericamente la disegnatrice. Più crescevo e più credevo che avrei finito col diventare un’illustratrice, o qualcosa di simile, ma mai veramente una fumettista: quello era un sogno che mi sembrava così al di fuori della portata delle mie possibilità che neanche ci pensavo.
Poi, certo, c’era anche il fatto che per me disegnare storie a fumetti era una questione personale, di sopravvivenza: lo facevo allo stesso modo in cui mangiavo e respiravo, era parte di me, come avrebbe potuto diventare un lavoro?
Mi piacevano così tanto i fumetti che disegnarne di miei era anche un modo per prolungare il piacere che mi dava entrare dentro quegli universi – e infatti mi ispiravo a quello che mi capitava sotto mano a quei tempi, e che amavo, da Tex a Capitan Miki, storie con indiani e cowboy disegnate con qualsiasi cosa su qualsiasi supporto: carta da disegno, ma anche quaderni a righe, a quadretti, blocchetti della riffa, agendine.