di Giovanna Rosadini
[Questo è il nono articolo di una serie che spero lunga e interessante. Ringrazio Giovanna per la disponibilità. Chi volesse proporsi, mi scriva mettendo nell’oggetto le parole “La formazione della scrittrice”. gm]
La prima parola che mi viene in mente, sul tema, è solitudine. La seconda, mamma. La scrittura come solitudine di matrice materna? (Probabilmente, in origine – prima di approdare, con la piena consapevolezza della maturità, a quella solitudine corale che rappresenta, secondo un’azzeccatis- sima definizione dell’amica Maria Grazia Calandrone, la condizione di chi scrive)…
Ma andiamo con ordine.
Se ripenso a me stessa bambina, agli albori della succitata consapevolezza, mi rivedo in piedi di fronte ai ripiani della libreria di casa, sola nel grande salone viola che affaccia sul giardino che guarda, da mezza collina, il mare.
La libreria è un’emanazione materna, stipata di volumi einaudiani, i dorsi dei Supercoralli ritmicamente allineati, Bassani, Cassola, Vittorini, Pavese, Calvino… e, lo conservo ancora qui a casa a Milano, ingiallito e con la copertina usurata, il volume delle Poesie di André Breton, il suo profilo nella foto solarizzata di Man Ray in prima di copertina…
Au temps de ma millième jeunesse
j’ai charmé cette torpille qui brille
nous regardons l’incroyabe et nous y croyons malgré nous (…).