Posts Tagged ‘Milan Kundera’

Due passi nella materia oscura

19 ottobre 2018

di Franco Foschi

 

Chi, come il sottoscritto, legge narrativa con passione e attenzione da più di quarant’anni, sa che grossomodo la letteratura sceglie due grandi linee, per narrare storie: quella più realistica, sequenziale, dove invariabilmente 1+1 fa 2, e quella più svolazzante, dai margini ineffabili, che potremmo chiamare metafisica, o con una accezione più moderna ‘sperimentale’. Ovviamente ci sono fulgidi esempi di narratori capaci di smarginare con eleganza di qua e di là a seconda del bisogno (Kafka, Kundera, tanto per citare un paio di grandi campioni), ma più spesso l’editore e il lettore vogliono che il bianco sia bianco, e che il nero sia nero.

La letteratura sperimentale, dunque, non ha mai avuto vita facile, salvo qualche rara eccezione (i francesi del secolo scorso, da Roussel, uno dei capostipiti, poi Sarraute, Claude Simon tanto da arrivare persino al Nobel, Sollers, fino a Perec; in Italia un Savinio, un Landolfi, sono sempre stati ammirati incondizionatamente dai critici e premiati da editori di prestigio, ma hanno fatto storcere il naso al 90% dei lettori). Sarà che lo sperimentatore preferisce uscire dai sentieri segnati, perché è un ex-grege, sarà che gli strumenti che sceglie sono spesso ostici, diciamo che i conti in banca di chi ha scelto di lavorare sulla letteratura sperimentale non sono mai stati troppo pingui.

Però c’è un altro tipo di tesoretto che si può produrre, un tesoretto che non ha niente a che fare col Dow Jones o con il bilancino di precisione, e tantomeno con la grassa soddisfazione che produce la letteratura d’intrattenimento. E’ forse un tesoro che riguarda i felici pochi, ma è impagabile. Passa attraverso un sentiero meno facile (anzi, facilone) di tanti romanzi pop, passa attraverso le circonvoluzioni di chi per fortuna ancora le usa, invece di assorbire acriticamente, passa attraverso la ricerca delle emozioni in modo forse un po’ lambiccato, ma più solido e duraturo.

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Perché non si parla mai del fatto che con i libri digitali si possono fare cose che con i libri di carta non si possono fare, e viceversa? (con un link in fondo)

30 marzo 2017

di giuliomozzi

Il titolo è ovviamente esagerato, e serve solo ad attirare l’attenzione. Non è che non si parli mai della faccenda. Nel 2014-15 (oggi si sono un po’ calmati tutti) mi imbattevo a ogni piè sospinto in discorsi che celebravano le virtù del libro digitale o le virtù del libro cartaceo: mi stupiva che questi discorsi celebrassero di solito in assoluto le virtù del libro digitale o in assoluto le virtù del libro cartaceo; quando a me pareva, e tuttora pare, che i libri digitali e i libri cartacei siano oggetti differenti, e che l’uno non possa essere migliore in assoluto dell’altro, bensì che in quanto oggetti differenti – differenti in alcune cose sostanziali e in una quantità di dettagli – siano questi migliori per certi impieghi e questi altri migliori per altri impieghi. Inoltre in questi discorsi trovavo in continuazione affermazioni puramente sentimentali (“Ah! L’odore della carta, dell’inchiostro, della colla…”, come se un tascabile d’oggi fosse tecnologicamente simile a una cinquecentina) o semplicemente false (“Gli editori sono disperati per l’avvento del digitale”, come se gli editori non vendessero libri digitali – guadagnando, su ogni singolo scaricamento, più di quanto non guadagnino dalla vendita di una copia cartacea) o iperboliche (“Con un lettore digitale puoi avere a disposizione decine di migliaia di libri, tutti lì, a portata di mano”, come se avere a disposizione decine di migliaia di libri fosse di per sé un bene o una necessità universale) o basate su preconcetti improbabili (“I libri digitali se li leggeranno solo i nativi digitali”, che è sensata tanto quanto “I telefoni touch screen li useranno solo i nativi digitali”), e così via.

E allora adesso, stimolato da un paio di domande che mi sono state fatte in questi giorni, provo a mettere giù una lista di affermazioni relative al rapporto tra libro digitale e libro cartaceo. Sia chiaro che tutto ciò che dirò vale per l’ambito italiano.

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“Maps of the Imagination: the Writer as Cartographer”, di Peter Turchi

24 settembre 2016

di Franco Foschi

[A volte succedono cose strane. Chiesi questa recensione a Franco Foschi ben due anni fa. Ieri, convinto di averla a suo tempo pubblicata, la cerco. Non la trovo. In effetti, non la pubblicai a suo tempo. Mi scuso con Franco].

peterturchi_mapsofimaginationCi sono dei libri che partono con dei presupposti arditi. Il libro di cui parleremo nelle pagine seguenti ne possiede uno apparentemente sconcertante, e cioè quello di assimilare il lavoro dello scrittore a quello del cartografo. Un gioco intellettuale, un paradosso per professori universitari, un bob bon per degustatori dello sfizio culturale?

A ben pensarci, la premessa teorica non è poi così forzata: se quando scriviamo pensiamo di andare in un luogo, e non di costruire qualcosa, ogni similitudine di questo libro appare chiara. Ma Peter Turchi si sforza di andare oltre. Le metafore non le cerca affatto, e quando accade soprattutto non le forza. Non si arrotola su testi o citazioni per rinvigorire il suo postulato. Non si arrocca in un linguaggio tecnico comprensibile solo ai felici pochi. No. Quel che fa è proprio tuffarsi in un gioco solare, sorridente, comunicativo e affabile, per dire tanto, raccontare, senza annoiare.

Ma veniamo al nucleo del suo argomentare. Le carte geografiche e la scrittura creativa, cos’hanno in comune? Sono, i loro linguaggi, in qualche modo sovrapponibili?

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Tereza a Tomáš (Lettere delle eroine, 11)

8 agosto 2016

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di Cristian Miotto

[Le regole del gioco].

Tomáš,

e già – adesso che sono solamente voce e pulviscolo di luce e questa lettera non è niente altro che voce e ti arriverà a folate, con il vento – già, anche adesso che tu non puoi vedermi (il tuo sguardo!) né io posso vederti, io non dico la parola, quella che per un attimo solo mi era parso adesso di poter articolare al posto di Tomáš, una parola che non ti ho mai detto e che tu mi hai detto – tante volte, anche troppe volte – la parola che non a te, non davanti a te, ma dentro di me forse ho pensato che potevo dire quando ti ho guardato quel giorno che lavoravi sul tuo camion e per la prima volta ti avevo visto vecchio, quando tu però – vecchio ormai e relegato in un villaggio di campagna – tu non eri più tu, Thomàs, e allora io non ero più io, e né io né te eravamo più quelli della nostra storia – la parola che tu potevi dire io no, Thomas, la parola amore.

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“L’amore ai tempi della deindustrializzazione”, di Gianni Dezanni

3 febbraio 2016

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La formazione dell’insegnante di lettere, 1 / Deborah Donato

5 novembre 2014

di Deborah Donato

[Questo è il primo articolo della rubrica La formazione dell’insegnante di lettere, che uscirà ogni (si spera) mercoledì. Gli insegnanti che volessero partecipare possono scrivere al mio indirizzo, scrivendo nella riga dell’oggetto: “La formazione dell’insegnante di lettere”. Ringrazio Deborah per la disponibilità. gm]

Deborah DonatoInsegno Lettere, adesso ho scelto.
Forse sono un’insegnante di Lettere un po’ atipica, perché ho a lungo studiato la letteratura da un’altra prospettiva. Mi sono laureata in Filosofia nel 1997, con una tesi sull’estetica e la semiotica di Umberto Eco. Fin da quei tempi, il mio interesse era “imparare a leggere”. La mia tesi, infatti, nasceva dall’interesse verso la figura del lettore modello e della cooperazione fra autore e lettore nei testi. Mi sono addentrata non solo nella filosofia di Eco e nella letteratura di Borges e Calvino, per fare la tesi, ma ho preso dimestichezza con Roland Barthes e la semiologia, Derrida e il decostruzionismo. L’interesse per il fenomeno del linguaggio mi ha poi portato a svolgere un dottorato sulla filosofia di Ludwig Wittgenstein e a indagare la differente concezione di linguaggio in filosofi quali Croce, Russell, Frege, Gadamer, Morin. Il lavoro accademico, proseguito con una borsa post-dottorato, si alternava all’apprendistato di insegnante. Nel 2004, infatti, presi l’abilitazione per insegnare filosofia e storia nei licei.
L’attenzione verso la lingua si è imposta anche attraverso il mio lavoro di traduzione di alcuni testi di Hegel e di Schrödinger; mi sono resa conto che la traduzione è un genere sommo di scrittura, che coinvolge non solo competenze grammaticali, ma conoscenza degli stili, delle pause di un autore, del suo lessico e perfino della sua cattiva punteggiatura.

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La formazione dello scrittore, 8 / Alessandro Zaccuri

10 luglio 2014
Gianni De Luca, Amleto, da William Shakespeare (Il Giornalino, 1976)

Gianni De Luca, Amleto, da William Shakespeare (Il Giornalino, 1976)

di Alessandro Zaccuri

[Questo è l’ottavo articolo della serie La formazione dello scrittore, che appare in vibrisse il giovedì (ed è parallela a quella La formazione della scrittrice, che appare invece il lunedì). Ringrazio Alessandro per la disponibilità. gm]

1.

alessandro_zaccuriL’ultima storia sarebbe questa.
Muore un uomo, si prepara il suo funerale. La malattia è stata lunga, metodica com’era stata la sua esistenza. Il lavoro in banca, la cura perfino eccessiva nell’organizzare le giornate, l’abitudine di arrivare in stazione anche un’ora prima quando c’era da prendere il treno, l’insistenza nel leggere prima le istruzioni, sempre. Mai in ritardo a un appuntamento o a una scadenza.
Quest’uomo ordinato muore, dunque, e si prepara il suo funerale. In un giorno qualunque, a inizio settimana. In un paese di provincia, dove fino ad allora nulla è accaduto. Ma quel giorno, proprio all’altezza della cittadina dove nulla accade, un furgone sbarra l’accesso all’autostrada che da Milano va verso Como, un camion si mette di traverso sulla carreggiata, uomini con il passamontagna scendono, gettano chiodi a tre punte. Impugnano kalashnikov, sparano. Il blindato del portavalori viene assalito e svuotato. Pochi minuti per la rapina del secolo. Pochi minuti per liberare i demoni del caos. I banditi scappano, l’autostrada è bloccata, il blocco dell’autostrada provoca l’effetto domino sulla viabilità della zona, dell’area metropolitana, dell’intera regione. Arrivare al funerale diventa un’impresa. Tutti i contrattempi, tutti i ritardi evitati nel corso di una vita si accumulano in quell’ultimo giorno, in un ingorgo spaventoso e insieme allegro. Inspiegabilmente, meravigliosamente allegro.
Ecco, questa è l’ultima storia che mio padre mi ha raccontato. Non a parole, perché di parlare aveva smesso da anni. Il morto era lui, il funerale era il suo. Quel giorno pioveva, tra l’altro.

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