di Matteo Giancotti
[Questo articolo è apparso domenica 8 aprile 2012 in La lettura, supplemento del Corriere della sera. gm]
Spesso è difficile, e comunque non basta a dar conto delle capacità narrative di Giulio Mozzi, dire dei suoi racconti se sono belli o brutti; è uno dei sintomi della complessità e dell’originalità della sua voce. Il racconto più bello, nella nuova edizione Laurana, del suo secondo libro La felicità terrena potrebbe essere Gilda T., che nella raccolta del ’96 pubblicata da Einaudi non c’era. Ma i due “racconti in più” e quello “in meno”,la postfazione dell’autore e lo scritto di Carlo Dalcielo (eteronimo di Mozzi) che caratterizzano la riedizione che sarà in libreria da venerdì [13 aprile 2012] non cambiano la struttura profonda del volume. L’assenza di Migrazione, scritto con Marco Franzoso, rende anzi la raccolta più fedele alla sua coerenza interna, perché quel testo, dal ritmo accelerato e dalle pulsazioni “anni ’90”, non sembra a tempo col metronomo più compassato, in superficie, di Mozzi, e con la sua scrittura senza picchi. La quale, oscillando tra una semplicità quasi primitiva e la sofisticazione del semplice, raggiunge un obiettivo tematico che si trova agli antipodi della semplicità, immergendo il lettore in un magma di vita interiore, denso di dubbi, nel quale diventa difficile orientarsi moralmente. Una delle ossessioni principali dei personaggi di questa raccolta, la paura di fare il male – che inibisce il pur forte desiderio del bene -, è già infatti il male in presenza; un’altra, l’impulso di mescolarsi, di immettere l’individuale nel collettivo, è sempre legata a una percezione problematica della propria irriducibile individualità di pensiero e comportamento, così come lo struggente desiderio di amore e di affetto si rivela, appena enunciato, un destino di solitudine.