[Questo è il quindicesimo articolo di una serie che spero lunga e interessante. Ringrazio Silvia per la disponibilità. Chi volesse proporsi, mi scriva mettendo nell’oggetto le parole “La formazione della scrittrice”. gm]
Felicità è un viaggio in macchina con mia madre per leggere i cartelli stradali l’anno che ho imparato a leggere. La felicità era in questo: decifrare il senso di cose correnti che avevo sempre registrato sotto un altro aspetto: l’aspetto della forma e del colore, che però era secondario (lo sospettavo) rispetto all’asse principale del messaggio. Un asse di lettere chiare: Bar, Farmacia, Stop.
Scrivere per me è qualcosa di simile, con un processo inverso. Come se per affrontare le cose bisognasse riconfigurarle in segni, forme e posizioni nello spazio. Ricostituirle daccapo. Raggiungerle, anche.
Volevo continuare a giocare senza avere ogni volta la seccatura di tirare fuori le bambole dalla scatola, apparecchiare le scene, passare sopra al fatto che Ken aveva solo un completo da tennis, inadatto alla maggior parte dei ruoli, e che quasi tutte le Barbie sorridevano con i denti, in spregio a ogni verosimiglianza drammatica. Scrivere cioè è stato il prolungamento di un gioco, il superamento di alcuni problemi che però si è subito tirato dietro problemi di tipo diverso. Il primo: il tempo. Nello spazio mentale del gioco il problema non si poneva, ma nel passaggio alla versione scritta tutte le mie storie improvvisamente diventavano corte, striminzite e secche.