[Questo è il secondo articolo di una serie che spero lunga e interessante. Ringrazio Veronica per la disponibilità. Per ragioni pratiche ho cominciato invitando a scrivere delle scrittrici amiche. Chi volesse proporsi, mi scriva mettendo nell’oggetto le parole “La formazione della scrittrice”. gm]
Ero una bambina triste, tutto qui. Ma a tratti, con i nonni ad esempio non lo ero, soltanto che mi fregava un dettaglio introspettivo della mia indole, cioè stavo sempre a pensare, giocavo sola, molto spesso, avevo una barbie con i capelli ispidi e una bambola che tenevano però i nonni, a Terni, si chiamava Debora, aveva le pile dentro il pancino perché camminava, bisognava stare attenti che non si rompesse. Invece per il resto giocavo o litigavo con un alter ego o non so chi fosse, mi ha tormentato per anni, mi induceva a pensieri orribili, un tale che mi suggeriva la cattiveria e assurde bestemmie. E’ la prima volta che ne parlo, che lo ammetto persino, fu un fatto terribile, vissuto con sofferenza, me ne sono liberata, ma appena in parte. Forse quella era già la scrittura che si metteva di traverso tra me e le cose, come in seguito mi scrisse Dario Voltolini in prefazione a un’orribile raccolta che non piacque nemmeno a lui. La mia scrittura è stata la solitudine, il disagio intraducibile, il modo di stare al mondo, di guardarlo, di raggiungere le cose. La scrittura sono stati i libri innanzitutto. Cominciai molto presto, disordinatamente, mio padre ha ancora una libreria importante, non ho finito di leggere secoli di letteratura. Pescavo a caso, mi ritrovavo tra le mani Bonura o Malaparte o Stendhal. Leggevo. Avevo esaurito i romanzi concessi ai bambini, avevo già amato la Alcott e Tom Sawyer e I ragazzi della via Paal. Ero curiosa e mi annoiavo facilmente, era anche quella noia la scrittura che procedeva, l’assillo che mi toglieva la pace, finanche la vergogna di ammetterlo o di chiamarlo per nome.