Posts Tagged ‘Lev Tolstoj’
14 agosto 2016

La lasagna
di Emanuela Canepa
[Le Regole del gioco].
Sposo mio carissimo,
ho ritirato oggi presso l’ufficio postale la tua lunga lettera – la seconda dall’inizio della settimana, ed è martedì – e la rileggo con l’attenzione e la cura che metto sempre in tutte le cose che faccio, e in misura particolarissima in quelle che riguardano gli affetti che mi sono più cari.
Ti manco moltissimo, mi scrivi, e io non ne dubito, così come tu non devi dubitare che nella stessa misura voi mancate a me. I bambini, Natasha, Pierre, Nikolenka, Sonia e il chiassoso, amorevole caos di Lysye Gory.
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Tag:Emanuela Canepa, Lev Tolstoj
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24 novembre 2014
di Vanni Santoni
[Questo è il ventisettesimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice. Le due serie escono, ormai un po’ come viene viene, il lunedì e il giovedì. Ringrazio Vanni per la disponibilità. gm]
La base di tutto: in casa mia c’erano molti libri e fumetti, e io li leggevo. Ho cominciato a scrivere molto tardi ma a leggere molto presto, e anche molto seriamente. Mio nonno mi leggeva i classici; dalla biblioteca di mio padre attingevo indifferentemente libri da bambini e libri da adulti, fumetti da bambini e da adulti (c’erano del resto a disposizione collezioni integrali di Linus, Corto Maltese, Alter, L’Eternauta…). I miei libri preferiti da bambino erano quelli di Calvino, Borges, Andrea Pazienza e Umberto Eco; tra quelli effettivamente destinati all’infanzia apprezzavo molto il romanzo La pietra del vecchio pescatore e tra i fumetti la Pimpa di Altan e tutta la produzione di Carl Barks. Anche i Ronfi di Adriano Carnevali non erano male.
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Tag:Adriano Carnevali, Alan Moore, Alberto Moravia, Allen Ginsberg, Altan, Andrea Pazienza, Andrea Zanzotto, Antonin Artaud, Arthur Rimbaud, Carl Barks, Carl Jung, Carlo Emilio Gadda, Céline, Cormac McCarthy, Curzio Malaparte, David Foster Wallace, Dino Buzzati, Dino Campana, Don DeLillo, Dylan Thomas, Edwin Abbott Abbott, Elio Vittorini, Emily Dickinson, Frank Miller, Friedrich Dürrenmatt, Garth Ennis, George Orwell, Giorgio Manganelli, Gustave Flaubert, Hubert Selby Jr, Ingeborg Bachmann, Italo Calvino, Jorge Luis Borges, Joris Karl Huysmans, Julio Cortázar, Lautréamont, Lev Tolstoj, Lewis Trondheim, Michel Houellebecq, Neil Gaiman, Pat Mills, Pat O' Shea, Paul Éluard, Paul Celan, Philip K. Dick, Philiph Roth, Pierpaolo Pasolini, Roberto Bolaño, Samuel Tylor Coleridge, Sylvia Plath, Thomas Mann, Thomas Pynchon, Thomas S. Eliot, Tomas Tranströmer, Truman Capote, Vanni Santoni, Voltaire, W.G. Sebald, Wilfred Owen, William Burroughs, William Butler Yeats, William Faulkner, William T. Vollmann, William Wordsworth, Wolfgang Goethe, Yukio Mishima
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13 novembre 2014
di Flavio Santi
[Questo è il venticinquesimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice. Le due serie escono, ormai un po’ come viene viene, il lunedì e il giovedì. Ringrazio Flavio per la disponibilità. gm]
Domanda. Si può amare la scrittura avendo come stella polare questa frase di Joseph Conrad: “Il peggior nemico della realtà sono le parole”? Io volevo dipingere. Anzi, no. Disegnare fumetti. Fare il liceo artistico e poi chissà (oltre a voler fare il calciatore nelle file dell’Udinese). Invece a metà terza media – dopo che il mio rendimento scolastico era calato bruscamente, frequentavo teppistelli, importunavo vecchiette per strada e prendevo una nota sul registro a settimana – trovo un’antologia scolastica di mio padre ferroviere (i miei non leggevano, un po’ mio nonno materno che non ho mai conosciuto ma che mi ha lasciato in eredità un bel po’ di Bur grigi stagionati). Iliade e Odissea. Nelle traduzioni neoclassiche di Vincenzo Monti e di Ippolito Pindemonte. Traduzioni che oggi troverei indigeribili, al limite dell’illeggibilità, guarda tu che effetto sortiscono su un povero tredicenne. “… contra i Greci / pestiferi vibrò dardi mortali”, “Nove giorni volâr pel campo acheo / le divine quadrella”, “E come quando di Favonio il soffio / denso campo di biade urta” ecc. ecc. Basta poco e mi innamoro delle parole. Non voglio più giocare a calcio – l’allenatore della Pozzolese viene sotto casa a implorarmi di giocare, e io niente – manco dei fumetti me ne frega più e mi metto a studiare come un forsennato latino e greco. Gli anni del liceo. Spesso mi capita di fermarmi a pensare a quegli anni di letture totalizzanti e mi domando, un po’ inebetito dai ricordi: Lo rifarei? Lo rifarei di leggere per tutta la notte le tragedie di Seneca, le commedie di Plauto, gli annali di Tacito? Con mio padre che rientra a casa dal turno di notte, mi trova chino su Orazio e mormora sconsolato: “Ho un figlio cretino…”? Sì, probabilmente lo rifarei. Lì scopro la bellezza della traduzione (oltre a tante altre cose, però quei primi esperimenti dal greco e dal latino in italiano sono inebrianti).
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10 novembre 2014
di Enrico Macioci
[Questo è il ventiquattresimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice. Le due serie escono, ormai un po’ come viene viene, il lunedì e il giovedì. Ringrazio Enrico per la disponibilità. gm]
La mia formazione di scrittore si divide in quattro fasi piuttosto nette.
La prima fase va dai sette ai quattordici anni ed è forse la più importante, quella che ha indirizzato e condizionato il seguito nel bene e nel male. Una mattina di febbraio del 1983 nevicava forte. Frequentavo la seconda elementare, la mia classe affacciava su un vicolo che la bufera imbiancò in un amen. La maestra propose di scrivere una poesia sulla neve. Noi alunni ci guardammo perplessi; cos’era una poesia? La maestra ci diede un’ora di tempo o forse due, non ricordo; ciò che ricordo è che allo scadere un solo bambino aveva prodotto una cosiddetta poesia, e quel bambino ero io. Una filastrocca che però conteneva un seme di ritmo e di suono, e qualche timida metafora. Tornai a casa e raccontai l’accaduto consegnando il manoscritto; mio padre, sorpreso e inorgoglito, mi comperò un drago di plastica verde e giallo che conservo ancora. Da lì in avanti, e fino ai tredici anni, scrissi altre trentaquattro poesie più un numero enorme di racconti e romanzi, la maggior parte dei quali non terminati, stipati in decine di quaderni a righe e a quadretti. Leggevo moltissimo e assorbivo lo stile e i contenuti degli autori per poi scimmiottarli; divorai Emilio Salgari, Jules Verne, Francis Hodgson Burnett, Mark Twain, Robert Luis Stevenson ed Edgar Allan Poe; mi sciroppai Pinocchio qualche decina di volte (Pinocchio è un capolavoro della letteratura mondiale, non dimenticatelo mai, specie la scena notturna in cui il gatto e la volpe, avvolti in neri pastrani, braccano il burattino all’uscita dall’osteria del Gambero Rosso); attraversai la fase dell’avventura, quella dell’orrore, quella umoristica e persino quella calcistica (il mio nume tutelare era Gianni Brera). A ben riflettere la produzione in prosa fu sin da allora incomparabilmente più abbondante della produzione in poesia, ma era quest’ultima a suscitare interesse e curiosità. In alcune delle mie poesie c’era in effetti qualcosa di singolare, di troppo precoce, una specie di tristezza matura, un anticipo sui tempi; vinsi dei premi (i premi di poesia per bambini andrebbero aboliti e sostituiti con gare di calci di rigore, o di corsa a ostacoli o di freccette); cominciai a sentire puzza di bruciato. Possedevo un dono bizzarro che si manifestava improvviso e al di fuori del mio controllo, una sorta di lampo o illuminazione indipendente dalla mia volontà, troppo remoto anche per poterlo associare all’istinto; d’un tratto mi sedevo e scrivevo, come sotto dettatura. Questo dono mi regalava attimi brevi ma intensi di felicità – meglio: di rapimento e pienezza, di totale sintonia col mistero chiamato mondo; però allo stesso tempo mi separava dal mondo, dal mondo e dagli amici. Non era vero naturalmente, ma quando mai ciò che è vero ha contato un soldo bucato nelle nostre vite? Conta solo ciò che crediamo, e io credevo con fermezza che la poesia (non il racconto o il romanzo, si badi bene, solo la poesia) scavasse un fossato fra me e i miei coetanei, mi rendesse “diverso” (una parola dubbia e ambigua, una parola limacciosa, una parola che è una palude). In realtà gli amici e le amiche si limitavano a manifestare equanimità, stupore o addirittura ammirazione quando s’imbattevano nei miei versi, ma il mio astio verso il “dono” divenne via via più inflessibile. Da un certo punto in avanti non volli che si parlasse delle mie poesie e ne proibii la circolazione; se qualche parente diffondeva la voce del poeta m’arrabbiavo; staccai dal muro un diploma di merito e lo nascosi sotto il letto, dietro le scatole delle scarpe, nel regno della polvere e dell’oblio; infine, sei giorni dopo aver compiuto quattordici anni, buttai giù l’ultima poesia da bambino e decisi che non avrei più scritto. Fu una risoluzione netta, fredda e consapevole, non certo un capriccio. Ci diedi un taglio con l’affilata lama della vergogna intinta nel veleno del senso di colpa. Non scrissi (e non lessi) più nulla per i successivi tredici anni.
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7 luglio 2014
di Grazia Verasani
[Questo è il ventiseiesimo articolo della serie La formazione della scrittrice (esce il lunedì), alla quale si è ora affiancata la serie La formazione dello scrittore (esce il giovedì). Ringrazio Grazia per la disponibilità. gm].
In casa mia non c’erano molti libri. Qualche Cassola, qualche Berto, La Divina commedia illustrata da Doré, I Quaderni dal carcere di Gramsci, le poesie di Pascoli, Carducci, Ungaretti, e naturalmente Il capitale di Marx. Dico naturalmente perché mio padre, ex partigiano, nella libreria di tek del salotto, a parte montagne di copie ingiallite de L’unità, teneva i libri che aveva letto da ragazzo e soprattutto autori appartenenti alla sua stessa “ideologia”. C’erano anche un paio di enciclopedie: una di scienze e l’altra sulla seconda guerra mondiale.
Il primo libro che ebbi per le mani fu Guerra e pace di Tolstoj. Avevo dieci anni e, dato che mio fratello diciottenne era a letto malato, mi costrinse a leggergli quel tomo ad alta voce. Ci capii qualcosa? Non me lo ricordo. Ma per ragioni misteriose amavo i libri, e presto chiesi a mio padre di comprarmene sempre di più. Non romanzi rosa, non ero una bambina sentimentale, ma mi piacquero da subito l’Aleramo, la Ginzburg, la Fallaci e i romanzi di Pratolini e Moravia.
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5 giugno 2014
Nascita di uno scrittore (a partire dal naso)
di Tullio Avoledo
[Questo è il terzo articolo della serie La formazione dello scrittore (parallela a quella La formazione della scrittrice), che appare in vibrisse il giovedì. Ringrazio Tullio per la disponibilità. gm]
Penso di essere diventato scrittore a causa del mio naso.
Credo sia cominciato tutto con l’enciclopedia Conoscere.
Era un’enciclopedia per ragazzi degli anni ’60. La compravi a fascicoli, in edicola, e quando avevi completato la raccolta dei fascicoli di un volume li facevi rilegare. L’odore di colla del volume appena rilegato (da un cugino di mio padre che lo faceva di mestiere) era semplicemente fantastico.
A casa mia arrivarono solo tre volumi, di quell’enciclopedia: l’XI, il XII e il XIII. Non so perché. Forse la cosa fu dovuta al fatto che nel 1966 uscì la terza edizione del Grande dizionario enciclopedico UTET, che rese immediatamente obsoleta Conoscere.
Ma la mia prima formazione alla lettura avvenne sui tre volumi di quell’enciclopedia, che aveva un odore buonissimo e la caratteristica di non essere organizzata per argomenti, o secondo criteri logici: due pagine sui Sumeri potevano seguirne due sul sistema solare, e precederne altre due su Leone Tolstoj.
Il Dizionario enciclopedico UTET piombò su quel mondo caotico e colorato con l’impatto devastante di un meteorite. Sulle rovine fumanti di una giungla d’informazioni e illustrazioni si levò un monolito che aveva sul dorso la scritta A-APO.
Ricordo ancora, a distanza di quasi cinquant’anni, la sequenza degli indici di quei volumi: A-APO, APP-BEQ, BER-CAQ, CAR-CLE, CLI-DAN… Nomi simili a quelli di divinità oscure, a un cupo rituale di evocazione lovecraftiano.
La UTET stava a Conoscere come i tripodi marziani di George H. Wells stavano alle brigate di cavalleria dei Terrestri. Era l’iPod contro il mangianastri, l’iPhone contro un telefono a disco combinatore.
Eppure…
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28 aprile 2014
di Carola Susani
[Questo è il sedicesimo articolo di una serie che spero lunga e interessante. Ringrazio Carola per la disponibilità. Chi volesse proporsi, mi scriva mettendo nell’oggetto le parole “La formazione della scrittrice”. gm]
Quand’ero piccola, alla domanda: cosa farai da grande, rispondevo per inerzia: l’architetto. I miei genitori erano architetti e del loro lavoro mi piaceva tutto tranne il peso della responsabilità nei crolli. Così ho fatto l’architetto di strutture immaginarie. L’inizio della mia formazione si può far coincidere con una notte, era settembre, il 1969; la notte in cui, con sette bambole e sette pupazzi a forma d’animale antropomorfico, rimasi accoccolata sul sedile dietro della Peugeot bianca dai sedili azzurri mentre venivo trasportata dal nord al sud l’Italia, oltre lo stretto, fino in Sicilia. La luna mi accompagnava e le ero grata, ma intanto mi scoprivo a indugiare con la mente su piccole torture, bambini della mia età o poco più grandi che producevano taglietti nei ventri rotondi di bambini un po’ più piccoli. Lasciavo via della Rimembranza, città elettiva del mio più caro amico immaginario, Tano Bilò e dei suoi compagni d’avventura, il Dano e la Dana; non so perché scelsero quel giorno di restare indietro, non so se li cacciai, certo da allora sulla mia strada non li ho più incontrati. Lasciavo la cittadina veneta umile e garbata, incuriosita della sua stessa crescita economica, per andare – dove? Io non ne avevo idea.
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21 aprile 2014
di Silvia Cassioli
[Questo è il quindicesimo articolo di una serie che spero lunga e interessante. Ringrazio Silvia per la disponibilità. Chi volesse proporsi, mi scriva mettendo nell’oggetto le parole “La formazione della scrittrice”. gm]
Felicità è un viaggio in macchina con mia madre per leggere i cartelli stradali l’anno che ho imparato a leggere. La felicità era in questo: decifrare il senso di cose correnti che avevo sempre registrato sotto un altro aspetto: l’aspetto della forma e del colore, che però era secondario (lo sospettavo) rispetto all’asse principale del messaggio. Un asse di lettere chiare: Bar, Farmacia, Stop.
Scrivere per me è qualcosa di simile, con un processo inverso. Come se per affrontare le cose bisognasse riconfigurarle in segni, forme e posizioni nello spazio. Ricostituirle daccapo. Raggiungerle, anche.
Volevo continuare a giocare senza avere ogni volta la seccatura di tirare fuori le bambole dalla scatola, apparecchiare le scene, passare sopra al fatto che Ken aveva solo un completo da tennis, inadatto alla maggior parte dei ruoli, e che quasi tutte le Barbie sorridevano con i denti, in spregio a ogni verosimiglianza drammatica. Scrivere cioè è stato il prolungamento di un gioco, il superamento di alcuni problemi che però si è subito tirato dietro problemi di tipo diverso. Il primo: il tempo. Nello spazio mentale del gioco il problema non si poneva, ma nel passaggio alla versione scritta tutte le mie storie improvvisamente diventavano corte, striminzite e secche.
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17 marzo 2014
di Chandra Livia Candiani
[Questo è il decimo articolo di una serie che spero lunga e interessante. Ringrazio Chandra Livia per la disponibilità. Chi volesse proporsi, mi scriva mettendo nell’oggetto le parole “La formazione della scrittrice”. gm]
A scuola ero un asino. Facevo fatica a capire un po’ tutto. Soprattutto i numeri, per esempio che avessero un nome, perché sapevo che tre e due fa qualcosa ma il nome cinque non sempre saltava fuori. Molte lettere poi le avevo imparate al contrario, perché il mio primo maestro involontario era stato mio fratello. Lui studiava seduto alla scrivania, io mi piazzavo di fronte a lui appollaiata su uno sgabello, con davanti foglio e matita e ogni tanto gli chiedevo: “Che lettera è questa?” E lui, distratto: “A”. E io la disegnavo, diligentemente, al contrario. Così sembravo scema a scuola. Non sapevo spiegare il perché, tutto qua.
Prima di andare a scuola, attorno ai cinque anni, c’è stata la faccenda di Pascoli. Sempre Max, mio fratello, studiava una poesia a memoria, diceva e ridiceva parole strane, sonore ma che creavano in corridoio delle immagini: rondini, nidi, bambole al petto, cavalline, stelle. Camminando lungo quel brutto e anche un po’ cattivo corridoio, le parole mi colpirono alla schiena, mi immobilizzai e le ricevetti, correvano le immagini un po’ di qua e un po’ di là e io mi dissi solo: “Da grande scriverò in quella lingua.” Finito, non ci pensai più. Ma continuavo a vedere. Chi parlava, chi raccontava, erano tutti circondati da immagini viventi e io restavo stupefatta che facessero finta di niente. Ricordo cosa successe quando mio padre gridò, per fortuna all’aperto, “Porca Madonna!” Apparve una Madonna tradizionale in veste bianca e manto azzurro, ma col viso di porco. Ero terrorizzata dallo spiazzamento. Esperienze incollocabili, come è spesso stato il resto della vita.
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Tag:Cesare Pavese, D. di san Faustino, Eugenio Montale, Fëdor Dostoevskij, Giuseppe Ungaretti, Italo Calvino, Johann Wolfgang von Goethe, Lev Tolstoj, Robert Musil, Salvatore Quasimodo, Thomas Mann
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