di Andrea Ponso
[continua il “convegno online” dedicato a Mario Pomilio].
Ipse enim liber est, qui pro pelle carnem
habuit et pro scripturam Verbum Patris.
Garnerio
Esso potrebbe essere allora, con le stesse caratteristiche, quella che viene chiamata riserva escatologica, vale a dire la funzione tipologica che impedisce alle figure dei racconti evangelici di chiudersi in se stesse. Da quest’ultimo punto di vista mi pare fondamentale la riflessione di Paul Beauchamp sulla figuralità nei due testamenti. La figura è in un rapporto particolare con la cosa perché, come dice Beauchamp, “marcando la differenza tra significante e significato, la legge rinvia l’avvento del significato, lo differisce” (Paul Beauchamp, Le récit, la lettre et le corps, Paris, Ed. Du Cerf, 2007, p. 51). Tuttavia, non si tratta di disgiunzione dualistica ma di relazione e cooperazione che, per altro, non avviene fuori dal corpo (della vita, della lettera, della scrittura) ma dentro, in quella modalità immersiva e ripetitiva tipica anche del rito: ci troviamo in una specie di pienezza che lo stesso Beauchamp paragona al nome ebraico della “manna”, mân hu che letteralmente significa “che cos’è?”:
L’equilibrio di questa coincidenza nella manna ha per condizione la fugacità della cosa; gli ebrei la dicevano “che cosa?” (mân: Es 16, 15), da cui il suo nome, posato sul quasi niente. La sua apparizione è anche una sparizione, che ne impedisce l’acquisizione e il farne provviste. Si tratta di un oggetto del desiderio, ma anche di sazietà: “ancora manna …”. (Nb 11, 6) (Beauchamp, cit., p. 50)
Questo continuo riproporsi dell’interrogazione è la modalità principale per non cadere nell’idolatria e nella sicurezza della fede come possesso e proprietà di una conoscenza; per rimanere aperti alla grazia e alla storia nel suo farsi, in cui l’uomo è essenzialmente colui che riceve gratuitamente la rivelazione al di là di tutti i possibili significati che da solo può costruire e gestire: