di Marco Foderà
[Questa è la quindicesima puntata della rubrica del martedì, dedicata alla formazione di fumettiste e fumettisti. La rubrica è a cura di Matteo Bussola. Ringraziamo Marco per la disponibilità. gm].
Quando Bussola (io e Matteo ci diamo del tu ma scrivendo/dicendo i nostri cognomi, come si fa a scuola) mi ha chiesto di scrivere un pezzo per questa rubrica, gli ho risposto fintamente scocciato: “Bussola, mi chiedi troppo, è quasi un lavoro… e tra l’altro anche in relativa fretta, visto che debbo completarlo per domenica, ti odio!”. In realtà sto romanzando un po’, non ho usato esattamente queste parole, ma se prova a smentirmi, gli scriverò ancora più fintamente scocciato.
Ormai sono anni (circa venti di carriera) che evito accuratamente di parlare del mio lavoro in giro. I miei amici sono abituati e, da quel punto di vista, non mi “cagano” più… per loro è un mestiere come un altro, solo lievemente più curioso, ma neanche tanto. Dicevo, non ne parlo mai, se non quando son costretto… Ripeto sempre la solita manfrina, la solita storiella… e ovviamente tutti fanno (come è normale che sia) le solite domande. Ma questo discorso vale solo quando incontro dal vivo le persone, sui social invece sono fin troppo presente e pubblicizzo ciò che faccio… In un certo senso mi comporto da “sborone” (ma sui social un po’ tutti si sentono legittimati a farlo, l’autocelebrazione passa dal fumettista, al pizzaiolo, al gommista, ecc.: e’ lì e solo lì il nostro momento di gloria). Sto divagando. Dicevamo: io faccio il fumettista, in realtà non da vent’anni (come ho scritto sopra) ma fin da ragazzino… iniziando alle elementari e disegnando per gli amichetti i vari Jeeg Robot e Goldrake. Già allora ero un po’ sborone (decenni prima dei social). Finita la scuola dell’obbligo pensavo di andare a lavorare, ma il mio migliore amico dell’epoca mi convinse a coltivare la mia passione per il disegno (diciamo arte? Ma sì… continuiamo a bullarci inutilmente). Feci cinque anni di liceo artistico (nella mia città, Latina), ma l’indirizzo preso fu architettura (a dispetto di quello che si potrebbe pensare ora). I miei genitori, come è normale che sia, non vedevano di buon occhio questa mia “tendenza all’arte: in famiglia non c’erano precedenti, eravamo una famiglia di operai (per famiglia intendo il termine esteso a parenti vicini e lontani, e garantisco che siamo numerosissimi).
Finiti i cinque anni pensavo di dover studiare architettura a Roma, ma ero poco convinto. Mi stavo riconvincendo a fare lavori più concreti e fisici, nel frattempo leggevo vagonate di fumetti (soprattutto Bonelli, anche se il primo amore fu verso i Disney, i primi fumetti bonelliani che lessi furono un Tex disegnato da Giovanni Ticci e un Mister No disegnato da Roberto Diso. Che culo, ho iniziato col meglio – senza saperlo).
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