Posts Tagged ‘Giovanni Pascoli’
4 febbraio 2015
di Emanuela Scicchitano
[Questo è l’undicesimo articolo della rubrica La formazione dell’insegnante di Lettere, che si pubblica in vibrisse il mercoledì. Gli insegnanti che volessero partecipare possono scrivere al mio indirizzo, scrivendo nella riga dell’oggetto: “La formazione dell’insegnante di lettere”. Ringrazio Emanuela per la disponibilità. gm]
Sono cresciuta dentro una biblioteca di ciliegio, divisa fra pannelli chiusi e varchi aperti che si alternavano fra loro in un gioco di pieni e vuoti, fra i quali mi perdevo. Puntualmente alla ricerca di un libro che fosse sempre più nascosto e impolverato di quello che la mia mano riusciva a raggiungere. Quale fosse l’ordine per cui un libro potesse essere disposto e disponibile sullo scaffale a vista o adagiato e dormiente nella pancia di quella libreria ancora mi sfugge. E i cambiamenti che i libri hanno subito nel tempo fra traslochi, dismissioni e acquisizioni mi hanno sempre depistata, fin quando non sono stata abbastanza matura per far miei i libri attraverso alcuni adolescenziali criteri di sistemazione: tutti basati su istintive modalità di abbinamento, che nessun sistema Dewey tiene in conto. Una volta affinate, non permisi più a nessuno di metterle in discussione: mi erano costate anni di ripensamenti ed esplorazioni, tutte elaborate dal mio punto di osservazione privilegiato: la neoclassica poltrona di pelle punzonata che fiancheggiava la libreria e mi permetteva di vivere, lì seduta, le mie pigre avventure di pensiero di bambina molto lettrice e poco saltellante. Eppure ero contenta di avere ciò che allora mi bastava: mi bastava stare in compagnia di me stessa e dei miei libri: ovvero, dei libri che mia madre, insegnante di italiano, aveva accumulato nel suo tempo. Ma anche nelle case altrui cercavo i miei libri: mia nonna li teneva accatastati dietro al divano del suo soggiorno e cercavo sempre di acquisirli a me. Tutte queste letture, bulimiche e poco consapevoli, me le tengo dentro come l’odore di cuoio della poltrona di casa mia o del sugo caldo di pomodoro che mia nonna mi faceva assaggiare, prima di condirci la pasta, mentre leggevo i libri che, a casa sua, i figli avevano deposto nel tempo.
Sì, sono stata una bambina “poco uscita”: me lo ricorda, ridendo, il mio fidanzato, anche lui insegnante, che ha trascorso la sua adolescenza in un’isola del Mediterraneo simile a quella di Arturo. Ma io gli inseguimenti sugli scogli o la noia della pesca non li ho vissuti uscendo, ma solo entrando in un libro che me la raccontasse. L’isola di Arturo della Morante, appunto. Ma non rimpiango l’essere “poco uscita”: ci rido sopra con nostalgia e consolidata abitudine. E con lo sguardo retrospettivo di chi, poi, è diventato insegnante di lettere e si è ritrovata un deposito di letture a cui attingere e con cui confrontarsi. A volte, molto aspramente.
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6 novembre 2014
di Roberto Deidier
[Questo è il ventitreesimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice. Le due serie escono, ormai un po’ come viene viene, il lunedì e il giovedì. Ringrazio Roberto per la disponibilità. gm]
di Roberto Deidier
Si forma, uno scrittore? E come? Ci sono modi che possiamo riconoscere o condividere? Certo non ci sono modi standard. Forse ce ne sono stati in passato, quando la poetica non era un’opzione ma una norma; lo scrittore moderno, al contrario, ha saputo conquistarsi una dose di libertà, sufficiente per affrancarsi da imposizioni e diktat d’ogni genere. Cosa abbia saputo fare di questa libertà, com’è ovvio, diventa un altro discorso. Resta che a ciascuno sono spettati i modelli e le letture, in cui si è imbattuto quasi sempre per caso.
Per me, come per tanti altri, la scuola è stata un’occasione importante. Non solo quella del liceo, che mi ha messo in contatto con i classici, ma quella primaria, con le filastrocche e le poesie del sussidiario. E con un maestro che ci metteva sotto gli occhi gli antenati di Calvino e i personaggi impronunciabili delle Cosmicomiche: vero carburante per l’immaginazione di ogni bambino. Gli infiniti di Leopardi erano già dietro la porta. Ma ricordo, tra i soliti poeti delle elementari (Pascoli e Ungaretti furoreggiavano nei libri di testo), Prévert, con una curiosa poesia, la prima lunga poesia che mi fu chiesto di mandare a mente. Non ne so più un verso: s’intitolava Per fare il ritratto di un uccello e suggeriva, per la riuscita dell’impresa, di cominciare dal disegno di una gabbia, per poi rappresentare l’uccello con le piume colorate; infine si doveva cancellare la gabbia. Strana e bella allegoria della scrittura che tenta di imprigionare il mondo, e poi ne apre tanti altri più ampi, ma allora non potevo saperlo e pure se lo avessi saputo non lo avrei compreso. Così cominciavo a scrivere senza capire quello che stavo facendo: la gabbia era diventata la mia stanza, ascoltavo i muri, la loro vita interna fatta di tubi e suoni misteriosi e appuntavo queste sensazioni in un quaderno che finì perso da un trasloco all’altro.
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7 luglio 2014
di Grazia Verasani
[Questo è il ventiseiesimo articolo della serie La formazione della scrittrice (esce il lunedì), alla quale si è ora affiancata la serie La formazione dello scrittore (esce il giovedì). Ringrazio Grazia per la disponibilità. gm].
In casa mia non c’erano molti libri. Qualche Cassola, qualche Berto, La Divina commedia illustrata da Doré, I Quaderni dal carcere di Gramsci, le poesie di Pascoli, Carducci, Ungaretti, e naturalmente Il capitale di Marx. Dico naturalmente perché mio padre, ex partigiano, nella libreria di tek del salotto, a parte montagne di copie ingiallite de L’unità, teneva i libri che aveva letto da ragazzo e soprattutto autori appartenenti alla sua stessa “ideologia”. C’erano anche un paio di enciclopedie: una di scienze e l’altra sulla seconda guerra mondiale.
Il primo libro che ebbi per le mani fu Guerra e pace di Tolstoj. Avevo dieci anni e, dato che mio fratello diciottenne era a letto malato, mi costrinse a leggergli quel tomo ad alta voce. Ci capii qualcosa? Non me lo ricordo. Ma per ragioni misteriose amavo i libri, e presto chiesi a mio padre di comprarmene sempre di più. Non romanzi rosa, non ero una bambina sentimentale, ma mi piacquero da subito l’Aleramo, la Ginzburg, la Fallaci e i romanzi di Pratolini e Moravia.
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Tag:Alberto Moravia, Antonio Faeti, Antonio Gramsci, Carlo Cassola, Dante Alighieri, Ernest Hemingway, Françoise Sagan, Francis Scott Fitzgerald, Gianni Celati, Giosue Carducci, Giovanni Pascoli, Giuseppe Berto, Giuseppe Ungaretti, Grazia Nidasio, Gustave Doré, Italo Calvino, John Dos Passos, John Steinbeck, Karl Marx, Lev Tolstoj, Marie Cardinal, Natalia Ginzburg, Oriana Fallaci, Roberto Roversi, Sibilla Aleramo, Stefano Benni, Tonino Guerra, Vasco Pratolini
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29 Maggio 2014
di Mario Benedetti
[Questo è il secondo articolo della serie La formazione dello scrittore (parallela a quella La formazione della scrittrice), che apparirà in vibrisse il giovedì. Ringrazio Mario per la disponibilità. L’ospite della prossima settimana sarà Tullio Avoledo. gm]
Dove sono nato? In un capoluogo di provincia, Udine. Poi sono vissuto in un paese della pedemontana tra Cividale e San Daniele del Friuli. Lì quasi tutte le strade erano non asfaltate e senza fognatura. Dalle frazioni di montagna giungevano i bambini per andare alle Elementari e avevano il passo di chi sa unicamente arrampicarsi o scivolare, con il corpo che perde peso. Erano strani e stavano per conto loro. Ricordo che da un ragazzo universitario, fatto eccezionale, di quelle borgate dopo qualche anno avevo ricevuto un libro per metà illustrato, il romanzo La nausea di Sartre ma non so quale edizione fosse. I cortili che davano sulle vie avevano orti con anatre, galline, letame. C’era una segheria, la pesa pubblica, boscaioli, contadini. Come nel romanzo I ragazzi della via Pal. Da qualche casa uscivano i lamenti di un anziano, di un coetaneo, e di loro si parlava a bassa voce. Non so se ricordo prima Ferenc Molnár o Cesare Pavese: qualche poesia di Lavorare stanca che raccontava della vita di paese. Bei temi in quinta elementare, mi diceva la maestra, uno sulle screpolature che avevano i palmi delle mani di mio padre, e poi la lettura di un racconto commovente di David Maria Turoldo, le prose brevi di Ivan Turgenev e le lettere della Povera gente di Dostoevskij. Certo, Delitto e castigo, anche questo fornito di illustrazioni. Nessuna fiaba. Ricordo alcuni disegni di Alfred Kubin e il passare pomeriggi a rifare le poesie di scuola: Pascoli, Leopardi. Maldestre imitazioni.
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Tag:Alfred Kubin, Cesare Pavese, Clemente Rebora, David Maria Turoldo, Fëdor Dostoevskij, Ferenc Molnár, Franco Volpi, Giacomo Leopardi, Giovanni Pascoli, Giuseppe Ungaretti, Ivan Turgenev, Jean-Paul Sartre, Lorenzo Renzi, Milo De Angelis, Noam Chomsky, Octave Mannoni, Silvio Ramat, William Labov
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2 marzo 2014
di Giovanna Frene
[Questo è l’ottavo articolo di una serie che spero lunga e interessante. Ringrazio Giovanna per la disponibilità. Chi volesse proporsi, mi scriva mettendo nell’oggetto le parole “La formazione della scrittrice”. gm]
Il logos non ha nulla a che vedere, al principio, con la letteratura
Se devo ripensare a come mi sono imbattuta nella poesia, e a come non sia più riuscita a liberarmi dal suo abbraccio, mi viene in mente uno tra i bellissimi Proverbi infernali di William Blake: “Improvement makes straight roads, but the crooked roads without Improvement are roads of Genius” [“Le migliorie raddrizzano le strade; ma le vie tortuose e prive di migliorie sono quelle del genio”, traduzione di G. Ungaretti]. Dico imbattuta, perché niente nel mio destino poteva neppure minimamente preludere a un mio coinvolgimento nella scrittura, figuriamoci in quella poetica. Questo me lo fece notare molto più tardi Zanzotto, il quale sottolineò per primo, con mia sorpresa, come fosse davvero notevole il mio essere stata in grado da sola, malgrado le mie origini, il luogo di nascita e la mia condizione sociale, di scoprire e far fiorire il mio talento. Dico questo con la serenità non di chi ha qualcosa di cui vantarsi – intendo né del talento, né della capacità di averlo fatto fruttare -, ma con lo stupore di avere visto venire verso di me la parola poetica nella sua incredibile gratuità. Questo stupore mi fa scrivere ancor oggi. Questa parola poetica, prettamente materna, mi ha sedotto nei modi e nei travestimenti più impensati, fino a rivelarsi come la mia vera vocazione.
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Tag:Amelia Rosselli, Andrea Zanzotto, Armando Balduino, Carlo Scarpa, Charles Dickens, Ennio Ludovico Chiggio, Eugenio De Signoribus, Fernando Bandini, George Orwell, Giacomo Leopardi, Gianni Zen, Giorgio Caproni, Giovanni Pascoli, Giulio Bedeschi, Giuseppe Giusti, Oscar Wilde, Paolo Cossato, Peter Handke, Pier Vincenzo Mengaldo, Stefano Brugnolo, Vincenzo Pappalettera, William Blake
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