di Livio Romano
[Chi volesse proporsi per questa rubrica – che dovrebbe uscire il giovedì mattina presto, ma è già in ritardo di un giorno e mezzo – mi scriva, mettendo nell’oggetto il titolo della rubrica stessa. Ringrazio Livio per la disponibilità. gm]
Le signore che per la prima volta mi invitarono insistevano a volerlo chiamare ciclo di conferenze, ma in quell’epoca non mi sentivo all’altezza di intrattenere alcuno intorno a quella che anche per me restava una materia misteriosa, ambigua, tutta da imparare: la scrittura creativa. Non che oggigiorno, dopo anni e anni di corsi, seminari, laboratori, interventi, e davanti agli uditori più variegati, dai bambini della scuola materna all’associazione professori di italiano della Confederazione Elvetica; non che oggi, dicevo, mi sia facile dare una definizione di ciò che è scrivere in maniera creativa e di ciò che non lo è. Voglio dire, non è questo il punto. Ho continuato a chiamare così i miei incontri – di scrittura, appunto, creativa- perché questo si aspetta la gente, perché da una ventina di anni questa espressione connota una disciplina che aiuti coloro i quali abbiano la passione di scrivere, e più spesso anche l’ambizione di pubblicare, a migliorare la propria prosa narrativa. Ecco: prosa. Perché quando vengono a dirmi «scrivo poesie», li scoraggio subito. So nulla di poesia, io, tantomeno di come si aiuti qualcuno a scriverne. Ma negli ultimi tempi ho abbandonato quest’espressione sfocata e ho preso a chiamare i miei cicli di lezioni con il loro nome: corsi di narrazione. Tuttavia torniamo alle signore. Colte ex professoresse perlopiù di materie letterarie le quali, subito dopo la pubblicazione di un mio raccontino in un’antologia per l’Einaudi, con grandissimo entusiasmo mi chiesero di tenere queste conferenze che io mi battei fossero denominate «Percorsi di lettura con incursioni nella scrittura» così abbandonando il vicolo cieco della creatività. Fu un’esperienza faticosissima.
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