Posts Tagged ‘Gilda Policastro’
21 aprile 2017

L’attuale Biblioteca universitaria alessandrina
di Fiammetta Palpati
[Gli altri articoli della discussione in corso].
Provo a contribuire con una digressione a questo interessante dibattito innescato da Policastro, rilanciato da Mozzi e ripreso, nei suoi diversi addentellati, dai numerosi e rilevanti interventi.
Molto interesse hanno suscitato in me – per ragioni anche personali – soprattutto i contributi che, esplorando le coppie antinomiche «facile/difficile» e «semplice/complesso», hanno cercato di distinguere e semplificare una materia che è – appunto – complessa. Tanto più se si estende l’osservazione al di fuori dall’ambito letterario e si instaurano parallelismi tra diverse forme artistiche, o mezzi espressivi, o di dichiarato intrattenimento (e con questo ultimo termine ho già evocato, senza distinguere, ahimè, annose questioni sul «valore» del mezzo, quando non dell’opera). Mozzi ha sostenuto che si è generata una certa confusione (e se lo dice lui sarà bene fidarsi) tuttavia se semplificare è l’atto di ridurre dal molteplice all’unico (il semplice è, primariamente, il costituito da un unico elemento – il «piegato una sola volta» dell’etimologia – e solo secondariamente – in modo figurativo – sinonimo del facile) io sono ben contenta che tutto ciò che ho letto in questi giorni, e su cui ho ragionato, abbia contribuito innanzitutto a rendere più complesso – e quindi più ricco, più sfaccettato, più piegato – il mio pensiero in merito a certe questioni letterarie. Farò del mio meglio per contribuire alla confusione.
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Tag:Alain Robbe-Grillet, Francesco Orlando, Franz Kafka, Georges Perec, Gilda Policastro, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Jonathan Franzen, Ludovico Ariosto, Marco Terracciano, Stefano Brugnolo
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19 aprile 2017
di Demetrio Paolin
[Altri articoli sullo stesso argomento]
Scriptor, non doctor. Questa breve glossa di Benvenuto da Imola al verso 27 del canto X del Paradiso mi è venuta in mente leggendo i diversi contributi che, qui su vibrisse ma anche su altri siti e social network, sono apparsi dopo la pubblicazione dell’articolo di Gilda Policastro sull’eutanasia della critica e delle due recensioni della Marzano e di Trevi all’ultima fatica di Siti.
Quando nascono queste polemiche e discussioni, io ho un problema ovvero devo capire da dove parlo
La cosa più comoda in questo caso è definirmi: in che veste prendo la parola? (Lo so che è un problema tutto mio, ma secondo me è sempre necessario capire chi è che parla) Parlo da scrittore? Parlo da critico che collabora con alcune testate e giornali nazionali? Scrittore/Critico. Una delle tensioni sottotraccia che mi è parso di ravvisare nelle diatribe di questi giorni è appunto l’eterna distinzione tra critico e scrittore.
Io mi sono guardato dentro, ho provato a osservare le cose che faccio ogni giorno, quando apro il pc e mi metto davanti a una pagina di word o davanti a un libro che leggo. Io faccio dei discorsi, dei ragionamenti in cui provo a dire come è il mondo, quale è la mia idea di bellezza, di giustizia di amore o di letteratura. In questo senso la divisione tra critico e scrittore è fuorviante: il critico è uno scrittore ovvero una persona che scrive immaginazioni, e che declina la sua particolare visione di mondo tramite una riflessione su testi altrui.
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Tag:Christopher Nolan, Emanuele Trevi, Gilda Policastro, Michela Marzano, Radiohead, Walter Siti
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18 aprile 2017

Due eroi della narrativa d’intrattenimento
di Alberto Cristofori
[Ricevo e volentieri pubblico. Altri articoli sullo stesso argomento. gm]
La discussione innescata da Gilda Policastro e poi sviluppata da Giulio Mozzi e altri [Alessio Cuffaro, Valentina Durante, Edoardo Zambelli, Alessandro Canzian, gm] sullo spazio gestito da quest’ultimo [e altrove, gm] ha suscitato in me qualche riflessione che spero possa risultare utile. Provo a dire sinteticamente.
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Tag:Alberto Cristofori, Alessandro Canzian, Alessio Cuffaro, Andrea Camilleri, Bonelli, Carlo Emilio Gadda, Dante Alighieri, Edoardo Sanguineti, Edoardo Zambelli, Elsa Morante, Gilda Policastro, Giovanni Boccaccio, Giovanni Guareschi, Italo Calvino, Luigi Meneghello, Luigi Pirandello, Paul Celan, Pier Paolo Pasolini, Sebastiano Vassalli, Teresa Ciabatti, Umberto Eco
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17 aprile 2017

di Marco Terracciano
[Ricevo da Marco Terracciano, laureando in lettere moderne, e volentieri pubblico. Altri articoli sullo stesso argomento. gm].
«Come mai, era la domanda, si ritiene che il pubblico di massa sia in grado di decodificare film complessi quali di fatto sono i film di Nolan (Inception ma si potrebbe dire Interstellar o The prestige, allo stesso modo) etc. e invece in letteratura finanche ai libri che partono come non commerciali (come, per dire, i miei) si richiedono degli accorgimenti editoriali volti a facilitare la comprensione dei lettori?» [Gilda Policastro, in Facebook, in risposta alla riflessione di Edoardo Zambelli in vibrisse]
Credo ci si debba accordare sul concetto di complessità. Non è certamente inopportuno mettere a confronto opere che appartengono a due canali mediatici differenti, dal momento che pur sempre di narrazioni si parla: è, secondo me, fuorviante ritenere un film come Inception un’opera complessa. Non è tanto la forma del contenuto – prendo il prestito la terminologia del linguista Hjelmslev adottata da Francesco Orlando nella sua teoria freudiana della letteratura – a determinare la difficoltà della decodificazione; è piuttosto la forma dell’espressione ad alzare un muro, a sfidare la pazienza del fruitore dell’opera narrativa.
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Tag:Biblioteca di Sarajevo, Christopher Nolan, Dan Brown, Edoardo Zambelli, Francesco Orlando, Gilda Policastro, Gus Van Sant, J. K. Rowling, J. R. R. Tolkien, Jonathan Franzen, Ken Follett, Louis Trolle Hjelmslev, Marco Terracciano
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16 aprile 2017

Un fotogramma da “Melancholia” di Lars Von Trier
di Edoardo Zambelli
[Edoardo Zambelli mi ha scritto una lettera e mi ha autorizzato a pubblicarla. gm].
Ho letto la nuova discussione in vibrisse. C’è qualcosa che continua a non convincermi, ed è probabile che sia io a non aver afferrato il punto.
Non riesco a capire se si parla di complicazione/semplificazione di forme narrative (cui sembra alludere la Policastro quando parla della decodificazione di Inception e del suo Cella, per altro molto bello) o se si parla del perché si promuove di più una cosa che non un’altra (quindi la questione diventa, sostanzialmente, marketing).
Lo dico perché, a seconda della prospettiva, le risposte potrebbero essere differenti.
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Tag:Alejandro González Iñárritu, Alessio Cuffaro, Béla Tarr, Christopher Nolan, David Lynch, Edoardo Zambelli, Emir Kusturica, Ethan Coen, Gilda Policastro, Joel Cohe, Lars Von Trier, Lech Majewski, Leonardo Di Caprio, Michael Caine, Paolo Sorrentino, Quentin Tarantino, Steven Spielberg, Terrence Malik, Tim Burton, Tom Hardy
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16 aprile 2017

La complessità è a sinistra, la semplicità a destra
di giuliomozzi
Ieri pomeriggio Alessio Cuffaro ha pubblicato in Gli stati generali un articolo nel quale discute gli articoli di Gilda Policastro La più amata dagli italiani. Teresa Ciabatti e l’eutanasia della critica e il mio Perché alla letteratura si chiede di impoverirsi mentre altri media narrativi (cinema, serie tv, videogiochi) continuano ad arricchirsi?.
Poiché l’articolo mi pare un coacervo di incomprensioni, imprecisioni e vaghezze logiche, mi permetto di commentarlo quasi punto per punto. Se non altro allo scopo di tutelare il mio diritto a rispondere di ciò che dico e non di ciò che non ho detto.
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Tag:Alessandro Manzoni, Alessio Cuffaro, Banksy, Gilda Policastro, Radiohead, Stig Dagerman, Teresa Ciabatti
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15 aprile 2017

di giuliomozzi
[A questo mio articolo ha risposto Alessio Cuffaro qui. Ho commentato l’articolo di Cuffaro qui. Valentina Durante ha dato un’interessante svolta alla discussione qui. Edoardo Zambelli ha precisato alcune cose qui].
Per ragioni private che non sto qui a contarvi frequento assai poco la televisione (la guardo, talvolta, la mattina presto, nelle camere d’albergo), ancora meno il cinema (l’ultima volta che entrai in una sala fa il lunedì di Pasqua del 2007), e quasi per nulla i videogiochi. Invece libri ne leggo tutti i giorni. Questo per dire qual è il mio livello di competenza, sia pure come semplice fruitore, di certe cose.
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Tag:Agatha Christie, Alain Robbe-Grillet, Alberto Sordi, Angela Molina, Carole Bouquet, Ettore Scola, Fernando Rey, Friedrich Dürrenmatt, Gabriele Frasca, Gilda Policastro, Kylie Minogue, Luis Buñuel, Michel Gondry, Nanni Balestrini, Nino Frassica, Zbigniew Rybczyński
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9 dicembre 2015
di Elisabetta Rasy
[Questa recensione del romanzo Cella di Gilda Policastro è apparsa nel supplemento domenicale del quotidiano Il Sole 24 ore domenica 6 dicembre 2015].
Il lamento femminile d’amore appartiene a una lunga e nobile tradizione letteraria, dalle Heroides di Ovidio alle seicentesche Lettere di una monaca portoghese fino a La voce umana di Jean Cocteau, un genere letterario in cui, nella lontananza crudele dall’amato, si intrecciano recriminazione e risentimento con ricordi appassionati e rimpianto della felicità perduta.
Ma nel nuovo romanzo di Gilda Policastro, il terzo di questa autrice che è anche poeta e saggista, tale tradizione subisce una radicale metamorfosi: una donna abbandonata piange il suo abbandono, ma se l’assenza dell’uomo è desolante e mortifera, la sua presenza è stata devastante e mortificante. Siamo negli anni Ottanta in un Sud che sceglie della modernità il lato peggiore, passando dalla sottomissione ai potenti alle connivenze col malaffare. Cella, la protagonista alla quale la figlia e il figliastro hanno affibbiato questo soprannome di cui solo alla fine si capirà il significato, è una donna ancora giovane, non ha che trentanove anni, ma ognuno di essi pesa come un macigno su spalle che la vita ha precocemente piegato. Vive in una grande casa in un piccolo paese con la figlia diciottenne con cui, le sembra, non c’è che odio e reciproca vergogna. Entrambe hanno «un fantasma con cui fare i conti, un padre distante». Quello della madre è morto dopo una vita problematica e di discontinua presenza familiare, quello della ragazza, l’uomo di Cella, è lontano, latitante agli occhi della legge ma soprattutto a quelli della sua famiglia: prima del codice penale ha infranto sistematicamente e ripetutamente il codice degli affetti.
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Tag:Elisabetta Rasy, Gabriel-Joseph de Lavergne, Gilda Policastro, Jean Cocteau, Ovidio
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2 dicembre 2015
di Demetrio Paolin
Pongo la questione in maniera diretta: le presentazioni dei libri servono o no? In questi giorni è uscito l’ultimo libro di Giovanni Cocco La promessa (Nutrimenti) e nell’intervista a Anna Vallerugo Giovanni ha dichiarato:
Di una cosa sono sicuro: farò pochissime presentazioni. Non vi è alcuna relazione tra la performatività e la qualità letteraria di ciò che uno scrive.
Nella risposta, a onor del vero, Cocco dice altre cose, che mi paiono anche condivisibili, soprattutto quando afferma che non esiste una diretta relazione tra la qualità letteraria del testo e la capacità di presentarlo, ma ciò sui cui mi preme riflettere sono quei due brevi periodi.
Negli stessi giorni Il post pubblica un altro intervento il cui attacco è questo:
Le presentazioni appagano l’ego di scrittori, amici e parenti, ma per gli editori sono quasi sempre una grana. Perché rappresentano un costo, sottraggono risorse alle cose da fare – è carino che l’editore o qualche suo rappresentante sia presente – richiedono un grande sforzo logistico – alberghi trasferimenti ristoranti e quant’altro – e in termini di copie vendute non si ripagano mai. Per questo ogni autore – o quasi – sogna teatri affollati, librerie traboccanti e piazze gremite, e rimane deluso quando si rende conto che il suo editore gli organizzerà una presentazione sola, al massimo due. A parziale giustificazione dell’autore e del suo ego c’è da dire che la prima cosa che le persone ti chiedono, quando pubblichi un libro, non è dove posso comprarlo, ma dove lo presenti, a testimoniare che per una grossa parte del pubblico le presentazioni valgono da succedanei del libro e dispensano dalla lettura.
È interessante che da due diverse angolazioni, quella autoriale e quella dell’editore, vengano mosse perplessità rispetto a un rito, che sembra aver sostituito la lettura dell’opera. Ora nonostante tutto questo mi paia ragionevole e sensato, io dico che non sono d’accordo. Sono anche consapevole che sia necessario motivare questo mio pensiero e credo che questo implichi rispondere a una domanda cruciale ovvero per chi o per cosa scriviamo?
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Tag:Anna Vallerugo, Davide Bregola, Edoardo Sanguineti, Giacomo De Benedetti, Gilda Policastro, Giovanni Cocco, Il post, Satisfiction
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10 novembre 2015

Emma Bovary
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Tag:Andrea Cortellessa, Elsa Morante, Gilda Policastro, Guido Mazzoni, Gustave Flaubert, Louise Bourgeois, Marcel Proust, Marco Belpoliti, Milo De Angelis, Paolo Giovannetti, Paolo Volponi, Virginia Woolf, Yasunari Kawabata
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5 novembre 2015
giuliomozzi intervista Gilda Policastro
[Poco più di un mese fa è apparso presso Marsilio – l’editore per il quale lavoro – il romanzo di Gilda Policastro Cella. Policastro ha pubblicato presso Fandango Il Farmaco (2010) e Sotto (2013). In vibrisse si può leggere il suo intervento nella serie La formazione della scrittrice. gm]. [La domanda precedente]
Veniamo dunque alle “virgolette fino all’ultima pagina invisibili”, come le chiamavo nella seconda domanda. Ricordo la prima lettura del dattiloscritto: leggevo, leggevo, e io, che ancora adesso che gioco a carte e bevo vino sono rimasto più o meno lo stesso lettore che ero quando a sei anni mi addentravo nei Misteri della jungla nera, prendevo tutto per oro colato. Mi rendevo conto che quella donna che parlava era una donna che delirava, senz’altro, o almeno una che non la contava giusta, o magari una che ci provava a montar su tutta una storia peraltro non abbastanza connessa da essere del tutto credibile; mi rendevo conto che alla storia, alle sue minuzie e alle sue improbabilità, non ero tenuto a credere fino in fondo: ma a quella voce di donna, ti dirò, ci credevo proprio. E invece, vlam!, all’ultima pagina, arrivo a scoprire, seppure con un po’ di dubbio, che quella voce di donna è tutta inventata, e addirittura, è inventata proprio da quell’uomo del quale la voce parla in continuazione, del quale dice le più terribili cose, che descrive come un mentitore totale. E sono rimasto di stucco, davvero. Non me l’aspettavo. Tu hai scritto ieri: “C’è stata la difficoltà di inoculare nel lettore il dubbio che a parlare fosse davvero una donna e quel tipo di donna: a quanto apprendo dalle reazioni dei primi lettori, è un dubbio che sorge immediatamente, ma c’è anche, a fugarlo, un’abitudine a considerare che nella finzione narrativa si diano possibilità non mimetiche, e dunque l’eventualità che una donna semicolta o non colta si possa esprimere in maniera quanto meno avvertita”; ma a me quel dubbio non mi è venuto per niente, finché tu nell’ultima pagina non mi hai spiattellato la verità. Oddio. Che cosa ho detto. Ho detto: tu. Ho detto: la verità. Ma insomma, non ci sono mica rimasto male. Tutt’altro. E’ il più grande dei miei piaceri, credere alle storie. Ma il piacere che viene subito dopo, nella classifica, è lo svelamento. Come quando avevo meno di sei anni, e mi raccontavano le storie di paura, e poi mi dicevano: “Ma non è mica vero, suvvia!”. E quindi quando ho riletto mi ci sono addentrato diversamente nel testo, e ho ancora goduto di non riuscire a venirne a capo: perché, allora, se quella voce di donna è finta, e finta da un personaggio, quel documento che c’è nel testo, il diario della terrorista, che cos’è? E’ finto anche quello? O è vero? Oddio, che cosa ho detto. Ci sono cascato di nuovo.
Luca Ricci ha accostato il procedimento che tu descrivi al sistema figurativo escheriano, in riferimento a Cella: non si capisce bene in effetti da quale verso e in quale senso vada intesa la prigionia e chi (ne) stia parlando, alla fine. E questo non per gusto del gioco degli specchi o delle moltiplicazioni dei punti di vista, ma perché la voce che racconta è una voce che prova a non avere un’identità definita nel senso del gender, proprio a partire dal fatto che invece riprende in modo esibito il cliché delle contrapposizioni donna-uomo, dentro-fuori, ratio-thumos. In particolare rispetto al dentro-fuori, che ci riporta alla metafora iniziale, quella tematizzata in tutto il romanzo, nell’ultima pagina la propensione domestica o la reclusione vera e propria della donna viene definita “euripidea”. E in effetti molti hanno ricondotto il mio personaggio (ma anche i precedenti, soprattutto rispetto al Farmaco) a una matrice classica: in questo caso Fedra, l’eroina innamorata del figliastro. Qui la vicenda col figliastro è una sorta di appendice (o di vicenda da romanzo di appendice, oggi diremmo fiction o serie tivù), però è vero che questa donna porta con sé una riflessione classica sui codici e i comportamenti legati al gender. Anche solo per smentirli, nell’ipotesi finale (che tale resta). Chiara Valerio nella prima presentazione del libro, a Pordenonelegge, si stupiva che da un’autrice, anzi due (insieme a me c’era Elisabetta Bucciarelli con La resistenza del maschio) potessero provenire dei personaggi femminili così anacronistici: nel mio caso una donna votata alla passività e all’attesa. Io “Cella”, la mia protagonista in realtà senza nome, non la vedo così perché nella sua attitudine monologante c’è una sorta di volontà di dominio, che è poi quella dello scrittore che t’incatena alla sua voce (in prima o in terza che sia) e ti molla solo all’ultima pagina, oltretutto non sempre incaricandosi di un inatteso finale.
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Tag:Chiara Valerio, Christopher Nolan, Elisabetta Bucciarelli, Gilda Policastro, James Joyce, Luca Ricci
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4 novembre 2015
giuliomozzi intervista Gilda Policastro
[Poco più di un mese fa è apparso presso Marsilio – l’editore per il quale lavoro – il romanzo di Gilda Policastro Cella. Policastro ha pubblicato presso Fandango Il Farmaco (2010) e Sotto (2013). In vibrisse si può leggere il suo intervento nella serie La formazione della scrittrice. gm]. [La domanda precedente]
Ci puoi raccontare la gestazione di Cella? Sapresti ricordare il giorno e l’ora e il punto in cui ti è venuta in mente la prima cosa, in cui hai messo giù le prime parole? E, questo racconto che è una specie di grande citazione (dentro virgolette fino all’ultima pagina invisibili), e che contiene a sua volta un altro testo (un diario): da che parte l’hai cominciato? (Dico nell’immaginarlo, e nello scriverlo). E dopo aver cominciato, come hai lavorato? Con quali tempi? Con quali, eventuali, andirivieni?
Si tratta in verità di due momenti distinti. La parte che contiene il diario della terrorista è la prima che ho scritto, diversi anni fa, ancor prima del Farmaco. Mi era stato commissionato un racconto che avesse un’ambientazione storica o che si riferisse a un fatto preciso, a una data, addirittura, e allora mi tornò in mente questo episodio d’infanzia legato alla clinica del paese in cui abitavo e al medico che aveva curato la terrorista. Poi non se ne fece più nulla, di quell’antologia per cui era stato commissionato, e dunque lo lasciai lì. Nel frattempo avevo scritto due romanzi e il mio stile si era andato evolvendo, oppure involvendo, se consideriamo un’idea più tradizionale di narrazione: mi è stato fatto notare da Giorgio Falco durante una presentazione di Cella che la parte contenente il diario è anche l’unica minimamente descrittiva in un libro che altrimenti risulterebbe quasi del tutto privo di ambienti e luoghi. La mattina in cui ho iniziato a scrivere Cella me la ricordo perché anche in quel caso ero mossa da una sollecitazione esterna, un concorso letterario o qualcosa del genere. E dunque con atteggiamento tra la scolara diligente che fa i compiti e l’impiegato che deve timbrare il cartellino a fine lavoro, cominciai a studiare l’architettura del romanzo.
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Tag:Gilda Policastro, Gustave Flaubert, Luigi Pirandello
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