Posts Tagged ‘Georges Perec’

Due passi nella materia oscura

19 ottobre 2018

di Franco Foschi

 

Chi, come il sottoscritto, legge narrativa con passione e attenzione da più di quarant’anni, sa che grossomodo la letteratura sceglie due grandi linee, per narrare storie: quella più realistica, sequenziale, dove invariabilmente 1+1 fa 2, e quella più svolazzante, dai margini ineffabili, che potremmo chiamare metafisica, o con una accezione più moderna ‘sperimentale’. Ovviamente ci sono fulgidi esempi di narratori capaci di smarginare con eleganza di qua e di là a seconda del bisogno (Kafka, Kundera, tanto per citare un paio di grandi campioni), ma più spesso l’editore e il lettore vogliono che il bianco sia bianco, e che il nero sia nero.

La letteratura sperimentale, dunque, non ha mai avuto vita facile, salvo qualche rara eccezione (i francesi del secolo scorso, da Roussel, uno dei capostipiti, poi Sarraute, Claude Simon tanto da arrivare persino al Nobel, Sollers, fino a Perec; in Italia un Savinio, un Landolfi, sono sempre stati ammirati incondizionatamente dai critici e premiati da editori di prestigio, ma hanno fatto storcere il naso al 90% dei lettori). Sarà che lo sperimentatore preferisce uscire dai sentieri segnati, perché è un ex-grege, sarà che gli strumenti che sceglie sono spesso ostici, diciamo che i conti in banca di chi ha scelto di lavorare sulla letteratura sperimentale non sono mai stati troppo pingui.

Però c’è un altro tipo di tesoretto che si può produrre, un tesoretto che non ha niente a che fare col Dow Jones o con il bilancino di precisione, e tantomeno con la grassa soddisfazione che produce la letteratura d’intrattenimento. E’ forse un tesoro che riguarda i felici pochi, ma è impagabile. Passa attraverso un sentiero meno facile (anzi, facilone) di tanti romanzi pop, passa attraverso le circonvoluzioni di chi per fortuna ancora le usa, invece di assorbire acriticamente, passa attraverso la ricerca delle emozioni in modo forse un po’ lambiccato, ma più solido e duraturo.

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“Se una notte d’inferno un peccatore”, di Titolo Caldino

2 Maggio 2018

di Ennio Bissolati

[Ennio Bissolati si spaccia per bibliofilo. Recensisce libri che sostiene di aver letto solo lui. Tutte le sue recensioni si trovano qui. gm].

Titolo Caldino, Se una notte d'inferno un peccatore“Era una notte lunga e tempestosa”. Comincia proprio così, senza mezzi termini, questo singolare – benché a modo suo pluralissimo – romanzo d’esordio di Titolo Caldino, ultrasettantenne professore di – così la bandella – Patafisica applicata presso l’università di Accavallavacca, facoltà di Architettura nomade. Basterebbe questo a far cogliere, al lettore arguto, o almeno astuto, il punctum della faccenda. Se una notte d’inferno un peccatore è un romanzo (un romanzo, sia chiaro, un vero romanzo, non un retroavanguardisticamente – come se ne leggono fin troppi oggidì – pedante e tristissimo non-romanzo) stocasticamente composto d’incipit e d’explicit tratti dal meglio e dal peggio della letteratura universale: un’operazione, se di operazione è lecito parlare, o non piuttosto di nevrotico virtuosismo, collagistico-combinatoria, dal retrogusto sensibilmente balestriniano (il Balestrini più romantico e suadente, quello del Tristano), con aromi calviniani e un delicato afrore neopostneoavanguardistico: roba per palati fini, insomma, o per ingenui totali. Ma veniamo alla storia, poiché una storia c’è.

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Come sono fatti certi libri, 2 / “La Vie mode d’emploi”, di Georges Perec

18 luglio 2017

Un disegno di Saul Steinberg.

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Complesso non coincide completamente con complicato

21 aprile 2017

L’attuale Biblioteca universitaria alessandrina

di Fiammetta Palpati

[Gli altri articoli della discussione in corso].

Provo a contribuire con una digressione a questo interessante dibattito innescato da Policastro, rilanciato da Mozzi e ripreso, nei suoi diversi addentellati, dai numerosi e rilevanti interventi.

Molto interesse hanno suscitato in me – per ragioni anche personali – soprattutto i contributi che, esplorando le coppie antinomiche «facile/difficile» e «semplice/complesso», hanno cercato di distinguere e semplificare una materia che è – appunto – complessa. Tanto più se si estende l’osservazione al di fuori dall’ambito letterario e si instaurano parallelismi tra diverse forme artistiche, o mezzi espressivi, o di dichiarato intrattenimento (e con questo ultimo termine ho già evocato, senza distinguere, ahimè, annose questioni sul «valore» del mezzo, quando non dell’opera). Mozzi ha sostenuto che si è generata una certa confusione (e se lo dice lui sarà bene fidarsi) tuttavia se semplificare è l’atto di ridurre dal molteplice all’unico (il semplice è, primariamente, il costituito da un unico elemento – il «piegato una sola volta» dell’etimologia – e solo secondariamente – in modo figurativo – sinonimo del facile) io sono ben contenta che tutto ciò che ho letto in questi giorni, e su cui ho ragionato, abbia contribuito innanzitutto a rendere più complesso – e quindi più ricco, più sfaccettato, più piegato – il mio pensiero in merito a certe questioni letterarie. Farò del mio meglio per contribuire alla confusione.

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L’arte di fingersi autore di finzioni

12 ottobre 2016
Un'opera di Alex Alemany

Un’opera di Alex Alemany

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“The Marvellous Adventures of Farlock Holmes”, di Conan Boyle

18 febbraio 2016

di Ennio Bissolati

[Ennio Bissolati è un bibliofilo. Per vibrisse recensisce libri introvabili, dei quali sostiene di essere l’unico lettore. gm]

conanboylePer quanto la nostra ammirazione per Georges Perec sia sconfinata, non si può fare a meno di notare che le sue opere (ciascuna radicalmente diversa dall’altra) hanno generato (del tutto involontariamente: Perec non imitava nemmeno sé stesso, figuriàmoci se pensava che ad altri potesse venire in mente di imitare lui) una quantità sterminata di imitatori, pedissequi dove Perec era libertario, pedanti dove Perec era brillante, moralisti (in senso formale, naturalmente) dove Perec era disinibito. A questa genia appartiene, senza lode e senza merito, la persona che si nasconde sotto il per nulla originale nomignolo di Conan Boyle, che in The Marvellous Adventure of Farlock Holmes non ha raccolto altro che una serie di racconti con protagonista il cugino scemo (idiot cousin) del ben più noto Sherlock. Ciò che dovrebbe (dovrebbe, eh!: ché tra il volere e il riuscire c’è di mezzo il mire – sarebbe il mare, ma era per fare la rima) divertire il lettore è la lingua impiegata da Conan Boyle. Che non è l’inglese, essendo Conan Boyle (se dobbiamo dare alla nota biografica in bandella un credito maggiore che al nomignolo) di Venegazzù, frazione di Volpago del Montello, in provincia di Treviso (luoghi naturalisticamente incantevoli, sia deto en passant). Bensì qualcosa a metà strada tra l’itangliano, l’anglo-trevigiano e l’ostretrico (= “linguaggio parlato da chi cerca di convincere le ostriche ad aprirsi di loro spontanea volontà”: Boyle dixit, nella postfazione).

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“Lomissione”, di Giorgio Perecco

20 gennaio 2016

di Ennio Bissolati

[Ennio Bissolati è un bibliofilo. Per vibrisse recensisce libri introvabili, dei quali sostiene di essere l’unico lettore. gm]

lomissioneChe la creativita nasca spesso dalle costrizioni, e luogo ormai comune. Cio che a molti sfugge e che ci sono costrizioni piu e costrizioni meno feconde. L’autore del romanzo Lomissione (il cui nomignolo – giacche non possiamo credere che “Giorgio Perecco” sia un nome autentico – rimanda evidentemente al nome – autentico, questo si – di Georges Perec, autore di quell’immortale capolavoro – e non solo della letteratura lipogrammatica – che e La disparition, La scomparsa nell’unica arditissima “traduzione” italiana esistente) sembra non essersene reso conto. Egli si limita infatti a omettere (fin dal titolo) la dove grammatica lo esige, l’apostrofo. Che razza di costrizione sia una costrizione che non e affatto una costrizione, ma una semplice omissione, ognuno puo immaginarlo. L’unico effetto e quello di un continuo intralcio all’occhio, come avviene nella lettura di certi autori semicolti che, per mancanza di carita, gli editori pubblicano senza nemmeno curarsi di evitar loro il ridicolo.

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La formazione dell’insegnante di Lettere, 8 / Elianda Cazzorla

14 gennaio 2015

di Elianda Cazzorla

[Questo è il l’ottavo articolo della rubrica La formazione dell’insegnante di Lettere, che si pubblica in vibrisse il mercoledì. Gli insegnanti che volessero partecipare possono scrivere al mio indirizzo, scrivendo nella riga dell’oggetto: “La formazione dell’insegnante di lettere”. Ringrazio Elianda per la disponibilità. gm]

Elianda CazzorlaVedo tre linee che si intersecano sinuose e divergenti e poi si moltiplicano nel mio andare quotidiano. A scuola, nei corridoi, tra i banchi quelle linee si incontrano, si intrigano, si cercano. Il mio e il loro. Leggere. Scrivere. Apprendere. Diventano un labirinto di linee nell’acqua ghiaccia, come sono lì ora i rami riflessi in una vaschetta vuota nel mio giardino, in terra. Giochi d’inverno. Sospese le ore di lezione. Posso fermarmi. Quante linee in tre decenni e un po’ più d’anni? Magia di ogni giorno, fuori e dentro quelle mura. Incrocio di sguardi, pensieri ed emozioni. La loro crescita, la mia crescita A scuola. In ogni stagione.

Ci si forma così. Dentro e fuori le mura della scuola.
Finita la quinta ora, alle 13,00, una corsa al supermercato. In fila alla cassa aspetti e leggi un post in Facebook. E pensi. Non posso non parlarne in classe. E paghi. Domani lo farò e chiederò di usare quel testo come modello di scrittura per raccontare un aneddoto delle vacanze natalizie. E ti fermi davanti al rosso. Tempo circoscritto. Non più di dieci minuti. Spazio delimitato. Per esempio: dal dottore. Scena senza commenti. Alternanza di punti di vista. Dialoghi brevi ed essenziali. Chiusa ad effetto. Riparti. I miei studenti del liceo artistico, devono conoscere Matteo Bussola. È un fumettista e loro, che amano disegnare, non possono non leggere i suoi testi così chiari e intensi, devono saper guardare e saper andare in fondo, oltre a dividere la scena in quadri. Devono saper scrivere, interrogarsi. Scegliere. Spegni il motore. Scarichi la spesa. Entri in casa. E saper leggere qualsiasi tipo di testo.

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La formazione dello scrittore, 25 / Sergio Garufi

17 novembre 2014

di Sergio Garufi

[Questo è il venticinquesimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice. Le due serie escono, ormai un po’ come viene viene, il lunedì e il giovedì. Ringrazio Sergio per la disponibilità. gm]

sergio_garufiTutti ce l’hanno su con l’imprinting, come le oche di Lorenz. Si parte sempre da lì: la biblioteca paterna, l’aura sacrale dei libri, il bimbo piccolo che spia i genitori assorti nella lettura. A ben vedere, anche le poche esperienze di segno opposto, cioè le storie di chi è diventato scrittore in case prive di libri, sembrano comunque ricondurre tutto a una volontà di riscatto familiare, quasi che fosse impossibile non rapportarsi in qualche modo ai propri genitori. Per quanto mi riguarda, io ho cominciato a scrivere per scommessa. Con l’impegno, la determinazione e soprattutto la spericolatezza cui normalmente si fa ricorso quando s’intende vincere una scommessa. Una scommessa con me stesso, per mettermi alla prova e con l’unico premio della soddisfazione personale, ma anche col mondo, per vedere se riuscivo a farla in barba agli altri. Io partivo da un assunto molto skinneriano, nel senso di Burrus Frederic Skinner, lo psicologo comportamentista americano che sosteneva che l’educazione e l’ambiente sono tutto, e che d’innato abbiamo poco o niente. Datemi dieci bambini piccoli, e fra vent’anni vi restituirò un ingegnere, un avvocato, un calciatore, un cantante, cioè saranno creta nelle mie mani, ne farò quello che voglio io. Basta metterli sotto a studiare e praticare assiduamente una cosa e i limiti congeniti spariranno. Io sono stato lo Skinner di me stesso. A un certo punto della mia vita mi son detto: posso farcela. Se mi ci metto d’impegno la do a bere a chiunque. E cosa c’è di più innato e sacrale della letteratura? L’ispirazione, lo spirito che soffia dove vuole? Io lo farò soffiare a comando, e poi tutti diranno “lo sapevo”, “era nato per quello”.

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La formazione dello scrittore, 24 / Enrico Macioci

10 novembre 2014

di Enrico Macioci

[Questo è il ventiquattresimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice. Le due serie escono, ormai un po’ come viene viene, il lunedì e il giovedì. Ringrazio Enrico per la disponibilità. gm]

La mia formazione di scrittore si divide in quattro fasi piuttosto nette.

La prima fase va dai sette ai quattordici anni ed è forse la più importante, quella che ha indirizzato e condizionato il seguito nel bene e nel male. Una mattina di febbraio del 1983 nevicava forte. Frequentavo la seconda elementare, la mia classe affacciava su un vicolo che la bufera imbiancò in un amen. La maestra propose di scrivere una poesia sulla neve. Noi alunni ci guardammo perplessi; cos’era una poesia? La maestra ci diede un’ora di tempo o forse due, non ricordo; ciò che ricordo è che allo scadere un solo bambino aveva prodotto una cosiddetta poesia, e quel bambino ero io. Una filastrocca che però conteneva un seme di ritmo e di suono, e qualche timida metafora. Tornai a casa e raccontai l’accaduto consegnando il manoscritto; mio padre, sorpreso e inorgoglito, mi comperò un drago di plastica verde e giallo che conservo ancora. Da lì in avanti, e fino ai tredici anni, scrissi altre trentaquattro poesie più un numero enorme di racconti e romanzi, la maggior parte dei quali non terminati, stipati in decine di quaderni a righe e a quadretti. Leggevo moltissimo e assorbivo lo stile e i contenuti degli autori per poi scimmiottarli; divorai Emilio Salgari, Jules Verne, Francis Hodgson Burnett, Mark Twain, Robert Luis Stevenson ed Edgar Allan Poe; mi sciroppai Pinocchio qualche decina di volte (Pinocchio è un capolavoro della letteratura mondiale, non dimenticatelo mai, specie la scena notturna in cui il gatto e la volpe, avvolti in neri pastrani, braccano il burattino all’uscita dall’osteria del Gambero Rosso); attraversai la fase dell’avventura, quella dell’orrore, quella umoristica e persino quella calcistica (il mio nume tutelare era Gianni Brera). A ben riflettere la produzione in prosa fu sin da allora incomparabilmente più abbondante della produzione in poesia, ma era quest’ultima a suscitare interesse e curiosità. In alcune delle mie poesie c’era in effetti qualcosa di singolare, di troppo precoce, una specie di tristezza matura, un anticipo sui tempi; vinsi dei premi (i premi di poesia per bambini andrebbero aboliti e sostituiti con gare di calci di rigore, o di corsa a ostacoli o di freccette); cominciai a sentire puzza di bruciato. Possedevo un dono bizzarro che si manifestava improvviso e al di fuori del mio controllo, una sorta di lampo o illuminazione indipendente dalla mia volontà, troppo remoto anche per poterlo associare all’istinto; d’un tratto mi sedevo e scrivevo, come sotto dettatura. Questo dono mi regalava attimi brevi ma intensi di felicità – meglio: di rapimento e pienezza, di totale sintonia col mistero chiamato mondo; però allo stesso tempo mi separava dal mondo, dal mondo e dagli amici. Non era vero naturalmente, ma quando mai ciò che è vero ha contato un soldo bucato nelle nostre vite? Conta solo ciò che crediamo, e io credevo con fermezza che la poesia (non il racconto o il romanzo, si badi bene, solo la poesia) scavasse un fossato fra me e i miei coetanei, mi rendesse “diverso” (una parola dubbia e ambigua, una parola limacciosa, una parola che è una palude). In realtà gli amici e le amiche si limitavano a manifestare equanimità, stupore o addirittura ammirazione quando s’imbattevano nei miei versi, ma il mio astio verso il “dono” divenne via via più inflessibile. Da un certo punto in avanti non volli che si parlasse delle mie poesie e ne proibii la circolazione; se qualche parente diffondeva la voce del poeta m’arrabbiavo; staccai dal muro un diploma di merito e lo nascosi sotto il letto, dietro le scatole delle scarpe, nel regno della polvere e dell’oblio; infine, sei giorni dopo aver compiuto quattordici anni, buttai giù l’ultima poesia da bambino e decisi che non avrei più scritto. Fu una risoluzione netta, fredda e consapevole, non certo un capriccio. Ci diedi un taglio con l’affilata lama della vergogna intinta nel veleno del senso di colpa. Non scrissi (e non lessi) più nulla per i successivi tredici anni.

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La formazione dello scrittore, 20 / Gherardo Bortolotti

23 ottobre 2014

di Gherardo Bortolotti

[Questo è il ventesimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice (che per qualche settimana sarà sospesa, mentre le “formazioni” degli scrittori usciranno sia il giovedì sia il lunedì). Ringrazio Gherardo per la disponibilità. gm]

bortolottiParlare della mia formazione, come scrittore, vuol dire essere certo di un presupposto mai ovvio, cioè quello di essere davvero uno scrittore.
Non voglio giocare su un facile paradosso. Ho pubblicato testi in circuiti “ufficiali”; qualcuno li ha letti (in limitati ma effettivi casi, ha acquistato il supporto che li conteneva); certe persone con il ruolo più o meno consolidato di scrittore, e di critico, hanno scritto cose su ciò che scrivo e sulla mia scrittura; sono stato nominato e invitato in contesti “da scrittore” in qualità di scrittore (non ultima questa rubrica). Carte alla mano, per così dire, posso affermare di essere uno scrittore. Molto marginale, un autore da circuiti ristretti, quasi da appello nominale, ma tale e quale. Conforme.

Tuttavia, rimane il fatto che sono un cittadino medio di quarant’anni, un padre di famiglia, un impiegato, che dirigo una cooperativa di sessanta dipendenti, che mi occupo di biblioteche di pubblica lettura e che, nel corso della settimana tipica, dedico alla scrittura (leggendo altri scrittori, seguendo le eventuali notizie dal “mondo della scrittura”, partecipando a progetti legati alla scrittura, scrivendo) una frazione residuale del mio tempo e della mia attenzione. Per dirla tutta, nel corso delle settimane tipiche non dedico alcuna risorsa alla scrittura: sono eccezionali, in senso proprio, quelle in cui lo faccio.

Ma il tema, come dice il titolo, non è la contraddizione fin troppo metafisica tra scrittura e vita, né l’evoluzione in corso nell’industria culturale, che smonta i modi e i tempi dell’apprendistato e dell’affermazione di uno scrittore – e che costringe figure come la mia a porsi il problema, comunque, se si è o no “scrittori”. Il tema è la formazione dello scrittore. In altri termini, com’è che dalla condizione polimorfa del non-scrittore ho avuto accesso a quella, certamente più orientata, dello scrittore.

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La formazione dello scrittore, 8 / Alessandro Zaccuri

10 luglio 2014
Gianni De Luca, Amleto, da William Shakespeare (Il Giornalino, 1976)

Gianni De Luca, Amleto, da William Shakespeare (Il Giornalino, 1976)

di Alessandro Zaccuri

[Questo è l’ottavo articolo della serie La formazione dello scrittore, che appare in vibrisse il giovedì (ed è parallela a quella La formazione della scrittrice, che appare invece il lunedì). Ringrazio Alessandro per la disponibilità. gm]

1.

alessandro_zaccuriL’ultima storia sarebbe questa.
Muore un uomo, si prepara il suo funerale. La malattia è stata lunga, metodica com’era stata la sua esistenza. Il lavoro in banca, la cura perfino eccessiva nell’organizzare le giornate, l’abitudine di arrivare in stazione anche un’ora prima quando c’era da prendere il treno, l’insistenza nel leggere prima le istruzioni, sempre. Mai in ritardo a un appuntamento o a una scadenza.
Quest’uomo ordinato muore, dunque, e si prepara il suo funerale. In un giorno qualunque, a inizio settimana. In un paese di provincia, dove fino ad allora nulla è accaduto. Ma quel giorno, proprio all’altezza della cittadina dove nulla accade, un furgone sbarra l’accesso all’autostrada che da Milano va verso Como, un camion si mette di traverso sulla carreggiata, uomini con il passamontagna scendono, gettano chiodi a tre punte. Impugnano kalashnikov, sparano. Il blindato del portavalori viene assalito e svuotato. Pochi minuti per la rapina del secolo. Pochi minuti per liberare i demoni del caos. I banditi scappano, l’autostrada è bloccata, il blocco dell’autostrada provoca l’effetto domino sulla viabilità della zona, dell’area metropolitana, dell’intera regione. Arrivare al funerale diventa un’impresa. Tutti i contrattempi, tutti i ritardi evitati nel corso di una vita si accumulano in quell’ultimo giorno, in un ingorgo spaventoso e insieme allegro. Inspiegabilmente, meravigliosamente allegro.
Ecco, questa è l’ultima storia che mio padre mi ha raccontato. Non a parole, perché di parlare aveva smesso da anni. Il morto era lui, il funerale era il suo. Quel giorno pioveva, tra l’altro.

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Breve storia di un evento privato

15 ottobre 2012

Questo articolo non è la recensione di un libro di Georges Perec

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Je me souviens

18 luglio 2012

La scomparsa

24 Maggio 2012

No, forse è una sciocchezza. Comunque: leggete questo lancio Ansa qui. Si parla di un accordo tra Fiat e Mazda. La parola “automobile non compare mai nel testo. Il mio sospetto è che sotto il nome di Amalia Angotti, ufficialmente autrice dell’articolo, si celi un revenente di Georges Perec. (Vedi). gm