Posts Tagged ‘Georges Bernanos’

Dieci proposte per il rinnovamento della letteratura cattolica

30 settembre 2016

di giuliomozzi

1. Tempo fa commisi l’errore di procurarmi un libro che s’intitolava più o meno La letteratura cattolica nel Novecento. Dico “più o meno” perché l’ho poi dato via, e non mi torna in mente il nome dell’autore. L’ho dato via perché in quel libro si identificava la “letteratura cattolica” con (a) narrazioni in prosa, romanzi o racconti, aventi per protagonisti preti o suore; (b) componimenti poetici assimilabili al genere letterario della preghiera. La prima proposta, dunque, è: fare della letteratura cattolica che, se in prosa, non consista di narrazioni aventi per protagonisti preti o suore; se in versi, non consista di componimenti assimilabili al genere letterario della preghiera.

2. Nel 1999 Giovanni Paolo II scrisse una Lettera agli artisti. Vi si parla di arti figurative, di architettura, di musica, di poesia, di teatro, fors’anche di giocoleria e di pirotecnica, ma di romanzi no. I romanzieri, insomma, per la massima autorità dell’organizzazione ecclesiastica cattolica, non esistono. D’altra parte, mi ricordo, più o meno in quel periodo ebbi occasione, dopo la registrazione di un programma di Sat2000, di fare due chiacchiere con il cardinal Paul Poupard, allora presidente del Consiglio pontificio per la cultura: e Poupard mi disse che l’ultimo romanzo che lo aveva veramente colpito era il Diario di un curato di campagna di George Bernanos: un romanzo (molto bello, per carità) con protagonista un prete, per l’appunto, e comunque del 1936. La seconda proposta, dunque, è mandare romanzi in omaggio al papa e ai cardinali. Chissà, magari leggono. (Ve lo vedete, Bergoglio che ogni sera, a letto, prima di spegnere la luce, si legge un capitolo di Infinite Jest? Io sì).

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Pomilio come io me lo ricordo. Una testimonianza

3 novembre 2015

di Giuseppe Panella

[Il “convegno online” dedicato a Mario Pomilio si è concluso. Nel corso del convegno abbiamo tuttavia ricevuto ulteriori contributi, che volentieri pubblichiamo].

Ho conosciuto Mario Pomilio e ho avuto con lui un breve carteggio non molto tempo prima che morisse (non sono in grado di quantificare il tempo passato dalle ultime lettere che ci scambiammo ma è stato meno di sei mesi). Il suo indirizzo postale (ma all’epoca le mail non usavano) lo ebbi tramite suo figlio Tommaso Ottonieri che era a sua volta molto amico di un amico comune (è passato tanto tempo da allora).
Pomilio fu di una disponibilità assoluta e rispose con cura a tutte le mie domande sulla sua produzione saggistica che era stato il principale oggetto della mia richiesta di chiarimenti. Poi le lettere presero un’altra strada e lo interrogai più decisamente sulle fonti della sua ispirazione. In particolare gli chiesi quanto fosse stato influenzato dai romanzi di Simenon che non avevano come protagonista Maigret e la sua risposta, con grande mia soddisfazione, fu che il rapporto con lo scrittore francese era stato non indifferente e che l’atmosfera francese che aveva voluto riprodurre era la stessa (il riferimento era – come si può intuire – a Il testimone del 1956, il secondo romanzo pubblicato da Pomilio). Un’altra questione che affrontammo fu il suo rapporto di filiazione con la letteratura italiana che in parte respinse: i suoi saggi su Svevo e Pirandello come pure quelli su Verga (a proposito del quale aveva curato una raccolta di scritti di Luigi Capuana dedicati perlappunto a Verga e D’Annunzio) erano stati in alcuni casi i frutti di una ricerca realizzata per motivi accademici. Ma non si sentiva vicino a Pirandello e Verga, semmai ad alcuni scrittori francesi come Mauriac e Bernanos.

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Mario Pomilio, uno scrittore né apocalittico né integrato

27 ottobre 2015

di Giuseppe Lupo

[Continua il “convegno online” dedicato a Mario Pomilio].

Mario Pomilio

Mario Pomilio

1. Ammettiamo che sia esistita, dagli anni Cinquanta ai Settanta, una linea di scrittori non riconoscibili nella divisione fra apocalittici e integrati, individuata da Umberto Eco nel 1964. Ammettiamo pure che le questioni della modernità, così come sono state declinate in Italia prima e dopo il boom, abbiano generato piste alternative sia alla cosiddetta letteratura del rifiuto, sia all’utopismo urbano che fa capo a Calvino. Se qualcosa del genere è stato prodotto, di sicuro avrebbe avuto in Mario Pomilio il suo capofila. I tratti distintivi non mancano e sono da rintracciare, oltre che nei pronunciamenti di un cristianesimo a forte vocazione laica, anche in quella particolare nozione di dissenso con cui egli si è posto di fronte ai paradigmi della Storia, certo non per chiamarsi fuori, per negarla o esautorarla, ma per travalicarne i risultati, per rifondare su altre regole il sentimento del vivere comunitario e dare azione compiuta alla voce inascoltata del Vangelo. In altre parole, per varcare la Storia e vincerne “la malinconia”, come avrebbe affermato egli stesso negli Scritti cristiani (1979).

Sottolineare la natura profetica e politica dei libri di Pomilio, a venticinque anni dalla morte, dunque in una stagione ormai aperta ai bilanci, non significa sminuire i vincoli di parentela con l’entroterra religioso (che sono infiniti, inossidabili e fino a qualche decennio fa addirittura facile pretesto di ghettizzazioni culturali), semmai rileggerli quale manifesto di una lontananza da tutto ciò che si definisce civiltà contemporanea. Non condividere i caratteri di un’epoca vuol dire scegliere una strada di implicita disobbedienza, svolgere un’azione corrosiva nei confronti del momento in cui tocca vivere. A suo modo, disobbediente e corrosivo Pomilio lo è stato (come non ricordare almeno nel titolo il suo Contestazioni) e, senza ricorrere ai clamori della protesta e della rabbia, ha fatto suo il protocollo delle responsabilità morali che gravano sugli intellettuali e si è impegnato a cercare non il “senso dell’essere” ma il “senso del fare”, a seguire non tanto la “tentazione mistica” quanto l’“esigenza di razionalità”.

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La “Colonna infame” di Mario Pomilio e la moralità della filologia

26 ottobre 2015

di Mirko Volpi

[Continua il “convegno online” dedicato a Mario Pomilio].

Mario Pomilio

Mario Pomilio

Il manzonismo di Mario Pomilio è cosa arcinota, discussa e studiata ormai da decenni. Del suo legame con il Gran Lombardo, della presenza di questo nella sua produzione si è scritto fin dalle prime recensioni ai romanzi uscite su riviste e quotidiani così come, post mortem, nei convegni e nei contributi scientifico-accademici. Lo hanno visto tutti i critici e i lettori più provveduti: Manzoni ha abitato fin da subito le pagine pomiliane (ivi comprese, e non sono di poco conto per qualità e numero, anche quelle saggistiche e giornalistiche), dall’Uccello nella cupola (nonostante i da lui mal tollerati continui riferimenti a Bernanos) al palesamento estremo di un rapporto sempre amorosamente nutrito, ossia l’ultimo romanzo, Il Natale del 1833.

Curando di recente la riedizione del Nuovo corso meritoriamente pubblicata da Hacca nel 2014 (e impreziosita da un’introduzione di Alessandro Zaccuri), ho scoperto – con sorpresa mista a una non immediatamente spiegabile interna soddisfazione – che c’era moltissimo Manzoni anche nel terzo romanzo pomiliano (era uscito per Bompiani nel 1959), tra i meno noti e noto per lo più per l’orwelliana (anche qui, in realtà, più suggestione che fonte reale, come ho cercato di mostrare nella postfazione) ideazione di uno Stato totalitario, plagiatore di menti e mistificatore della verità, espressamente modellato sull’Unione Sovietica che aveva da poco invaso l’Ungheria. Questo, dunque, l’inequivocabile spunto storico: il 1956, la repressione comunista attuata nello stato satellite, e quindi l’eterno anelito alla libertà dei popoli oppressi. Ma a un livello diverso – non dirò più alto o più profondo perché ritengo procedano di conserva, e il secondo deve al primo, e alla sua crudele contingenza storica, l’impulso all’obbligata e sofferta riflessione, all’assolutizzazione richiesta dalla letteratura e dalla storia delle idee – sta la costante lettura pomiliana di Manzoni.

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