Posts Tagged ‘Francis Scott Fitzgerald’
15 gennaio 2015
di Rossella Monaco
[Chi volesse proporsi per la rubrica dedicata alla formazione dell’insegnante di scrittura creativa – che esce il giovedì – mi scriva, mettendo nell’oggetto il titolo della rubrica stessa. Ringrazio Rossella per la disponibilità. gm]
Ho ventotto anni appena compiuti e sono un “insegnante di scrittura creativa” da due. Ogni volta che salgo in cattedra non mi sento in grado di insegnare nulla. Mi ci ritrovo sempre un po’ per caso, spinta da tre tipi di necessità: far quadrare i conti, continuare un percorso che da un certo momento in poi è sembrato inevitabile, cercare di non disinammorarmi. All’inizio della mia strada ero piena di concetti ingenui sulla scrittura e il mondo editoriale.
Chi scrive si vergogna quasi sempre di ciò che ha creato e oggi guardando indietro alle mie prime prove, a dieci anni fa, mi chiedo cosa avrei prodotto se allora mi fossi trovata davanti me stessa, in un’aula o in una chat. Non sempre la risposta è confortante. Guardo i volti delle persone che partecipano ai miei corsi: le prime lezioni, ci vedo sconforto, sogni infranti, voglia di mettersi in gioco e di impressionarmi; alla fine, ci vedo consapevolezza. E questo mi dà energia. Paragono l’esperienza dei corsi, con ingenuità e anche un po’ di divertimento, ai miei nove anni, a quando la maestra ci salutò prima delle feste di Natale dicendoci che Babbo Natale non esisteva. Quello che seguì fu un misto di ammirazione e odio. Credo che gli iscritti provino questo nei miei confronti. L’ho capito guardandoli ma anche e soprattutto dai questionari di valutazione anonimi che sottopongo loro alla fine di ogni percorso didattico. Se c’è una cosa che ho imparato dai corsi di scrittura creativa, dai miei alunni, e da questo metodo di valutazione del mio lavoro, è che anche l’ultimo arrivato può insegnare molte cose. È per questo che ho preso coraggio e nonostante la scarsa esperienza, sono qui a raccontare il mio percorso. Funziona come in un circolo di alcolisti anonimi, credo: condividere aiuta me a focalizzare il percorso e spero possa servire ad altri, anche solo a intrattenere o a scatenare insulti o indifferenza, a piacere.
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10 novembre 2014
di Enrico Macioci
[Questo è il ventiquattresimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice. Le due serie escono, ormai un po’ come viene viene, il lunedì e il giovedì. Ringrazio Enrico per la disponibilità. gm]
La mia formazione di scrittore si divide in quattro fasi piuttosto nette.
La prima fase va dai sette ai quattordici anni ed è forse la più importante, quella che ha indirizzato e condizionato il seguito nel bene e nel male. Una mattina di febbraio del 1983 nevicava forte. Frequentavo la seconda elementare, la mia classe affacciava su un vicolo che la bufera imbiancò in un amen. La maestra propose di scrivere una poesia sulla neve. Noi alunni ci guardammo perplessi; cos’era una poesia? La maestra ci diede un’ora di tempo o forse due, non ricordo; ciò che ricordo è che allo scadere un solo bambino aveva prodotto una cosiddetta poesia, e quel bambino ero io. Una filastrocca che però conteneva un seme di ritmo e di suono, e qualche timida metafora. Tornai a casa e raccontai l’accaduto consegnando il manoscritto; mio padre, sorpreso e inorgoglito, mi comperò un drago di plastica verde e giallo che conservo ancora. Da lì in avanti, e fino ai tredici anni, scrissi altre trentaquattro poesie più un numero enorme di racconti e romanzi, la maggior parte dei quali non terminati, stipati in decine di quaderni a righe e a quadretti. Leggevo moltissimo e assorbivo lo stile e i contenuti degli autori per poi scimmiottarli; divorai Emilio Salgari, Jules Verne, Francis Hodgson Burnett, Mark Twain, Robert Luis Stevenson ed Edgar Allan Poe; mi sciroppai Pinocchio qualche decina di volte (Pinocchio è un capolavoro della letteratura mondiale, non dimenticatelo mai, specie la scena notturna in cui il gatto e la volpe, avvolti in neri pastrani, braccano il burattino all’uscita dall’osteria del Gambero Rosso); attraversai la fase dell’avventura, quella dell’orrore, quella umoristica e persino quella calcistica (il mio nume tutelare era Gianni Brera). A ben riflettere la produzione in prosa fu sin da allora incomparabilmente più abbondante della produzione in poesia, ma era quest’ultima a suscitare interesse e curiosità. In alcune delle mie poesie c’era in effetti qualcosa di singolare, di troppo precoce, una specie di tristezza matura, un anticipo sui tempi; vinsi dei premi (i premi di poesia per bambini andrebbero aboliti e sostituiti con gare di calci di rigore, o di corsa a ostacoli o di freccette); cominciai a sentire puzza di bruciato. Possedevo un dono bizzarro che si manifestava improvviso e al di fuori del mio controllo, una sorta di lampo o illuminazione indipendente dalla mia volontà, troppo remoto anche per poterlo associare all’istinto; d’un tratto mi sedevo e scrivevo, come sotto dettatura. Questo dono mi regalava attimi brevi ma intensi di felicità – meglio: di rapimento e pienezza, di totale sintonia col mistero chiamato mondo; però allo stesso tempo mi separava dal mondo, dal mondo e dagli amici. Non era vero naturalmente, ma quando mai ciò che è vero ha contato un soldo bucato nelle nostre vite? Conta solo ciò che crediamo, e io credevo con fermezza che la poesia (non il racconto o il romanzo, si badi bene, solo la poesia) scavasse un fossato fra me e i miei coetanei, mi rendesse “diverso” (una parola dubbia e ambigua, una parola limacciosa, una parola che è una palude). In realtà gli amici e le amiche si limitavano a manifestare equanimità, stupore o addirittura ammirazione quando s’imbattevano nei miei versi, ma il mio astio verso il “dono” divenne via via più inflessibile. Da un certo punto in avanti non volli che si parlasse delle mie poesie e ne proibii la circolazione; se qualche parente diffondeva la voce del poeta m’arrabbiavo; staccai dal muro un diploma di merito e lo nascosi sotto il letto, dietro le scatole delle scarpe, nel regno della polvere e dell’oblio; infine, sei giorni dopo aver compiuto quattordici anni, buttai giù l’ultima poesia da bambino e decisi che non avrei più scritto. Fu una risoluzione netta, fredda e consapevole, non certo un capriccio. Ci diedi un taglio con l’affilata lama della vergogna intinta nel veleno del senso di colpa. Non scrissi (e non lessi) più nulla per i successivi tredici anni.
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20 ottobre 2014
di Romolo Bugaro
[Questo è il diciannovesimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice (che per qualche settimana sarà sospesa, mentre le “formazioni” degli scrittori usciranno sia il giovedì sia il lunedì). Ringrazio Romolo per la disponibilità. gm]
Sono stato fortunato, fortunatissimo. Sono nato in una famiglia senza particolari problemi economici e capace di offrire molte cose.
Mio padre, medico, era un uomo con mille interessi. Amava la musica, la storia, la letteratura. Avevamo la casa piena di libri. Edizioni e collane bellissime: la Medusa della Mondadori, gli Scrittori Stranieri della Utet.
Ricordo il suo primo consiglio. “Vedi se ti piace questo.” Era Vicolo Cannery di John Steinbeck. Ho cominciato a leggere, non mi piaceva granché. Forse rivendicavo una specie di autonomia di giudizio. Ben presto l’ho abbandonato.
Però sono rimasto sugli americani. Winseburg, Ohio di Sherwood Anderson è la prima lettura significativa di cui abbia memoria. A distanza di trenta o quarant’anni non ricordo praticamente nulla delle storie, dei personaggi. Ricordo invece gli ambienti, il paesaggio. Campagne invernali con pochi alberi, pochi suoni. Colline dove la distanza era pura luce.
Dopo Anderson, come alcune migliaia di lettori desiderosi di scrivere in proprio, sono passato a Hemingway. A partire da Il sole sorge ancora in un’edizione oggi introvabile (ovviamente di mio padre): Jandi Sapi di Roma. Anno di pubblicazione: 1944. Traduzione: Rosetta Dandolo. Prezzo di vendita – testualmente, dal dorso del libro: “in Roma L. 150 (esente da aumento) fuori Roma: L. 160 (esente da aumento)”.
La guerra stava ancora infuriando nel Nord Italia, fascisti e nazisti avevano appena fondato la Repubblica Sociale, e nella capitale già si stampavano gli autori proibiti dal regime.
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6 ottobre 2014
di Paola Rondini
[Questo è il trentacinquesimo articolo della serie La formazione della scrittrice, alla quale si è da tempo affiancata la serie La formazione dello scrittore. Ringrazio Paola per la disponibilità. gm].
Mia madre teneva i libri impilati a terra vicino al letto, il suo amore per una certa trasandatezza (per lei sintomo di chiarezza interiore) le impediva di averne cura: grandi pieghe come segnalibro, copertine con tracce di tazzina di caffè, polvere eloquente sopra quelli che non aveva gradito. Quando mio padre vedeva che la pila, aumentando, traballava, li spostava su qualche scaffale.
Lei leggeva tutte le sere con una dedizione militaresca, mentre lui dimostrava uno strano rapporto coi libri; non ne apriva uno per anni e poi, come in preda a qualche folgorazione stregonesca, leggeva febbrilmente per settimane, in camera sua o in qualche anfratto della casa, invaghendosi di biografie di personaggi secondari: spie meticce, ministri decaduti, attori, cuochi, autisti, guardiacaccia persino; il buco della serratura delle storia, diceva.
Nella libertà anarchica che vigeva in casa, nella velocità con cui i miei genitori entravano e uscivano, scomparivano e riapparivano, ingenui devoti del boom economico degli anni ’70, io non lessi le fiabe e nemmeno i fumetti, ma attinsi direttamente dalla incoerente, sbilenca, variopinta biblioteca dei miei, leggendo tutto ciò che riuscivo ad afferrare per altezza.
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7 luglio 2014
di Grazia Verasani
[Questo è il ventiseiesimo articolo della serie La formazione della scrittrice (esce il lunedì), alla quale si è ora affiancata la serie La formazione dello scrittore (esce il giovedì). Ringrazio Grazia per la disponibilità. gm].
In casa mia non c’erano molti libri. Qualche Cassola, qualche Berto, La Divina commedia illustrata da Doré, I Quaderni dal carcere di Gramsci, le poesie di Pascoli, Carducci, Ungaretti, e naturalmente Il capitale di Marx. Dico naturalmente perché mio padre, ex partigiano, nella libreria di tek del salotto, a parte montagne di copie ingiallite de L’unità, teneva i libri che aveva letto da ragazzo e soprattutto autori appartenenti alla sua stessa “ideologia”. C’erano anche un paio di enciclopedie: una di scienze e l’altra sulla seconda guerra mondiale.
Il primo libro che ebbi per le mani fu Guerra e pace di Tolstoj. Avevo dieci anni e, dato che mio fratello diciottenne era a letto malato, mi costrinse a leggergli quel tomo ad alta voce. Ci capii qualcosa? Non me lo ricordo. Ma per ragioni misteriose amavo i libri, e presto chiesi a mio padre di comprarmene sempre di più. Non romanzi rosa, non ero una bambina sentimentale, ma mi piacquero da subito l’Aleramo, la Ginzburg, la Fallaci e i romanzi di Pratolini e Moravia.
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Tag:Alberto Moravia, Antonio Faeti, Antonio Gramsci, Carlo Cassola, Dante Alighieri, Ernest Hemingway, Françoise Sagan, Francis Scott Fitzgerald, Gianni Celati, Giosue Carducci, Giovanni Pascoli, Giuseppe Berto, Giuseppe Ungaretti, Grazia Nidasio, Gustave Doré, Italo Calvino, John Dos Passos, John Steinbeck, Karl Marx, Lev Tolstoj, Marie Cardinal, Natalia Ginzburg, Oriana Fallaci, Roberto Roversi, Sibilla Aleramo, Stefano Benni, Tonino Guerra, Vasco Pratolini
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