Antologia maniacale. Ovvero: quei testi sui quali torno in continuazione, a prescindere dal loro valore effettivo (più o meno riconosciuto). Il filmato dura quattro minuti e una manciata di secondi. [gm]
dai Rerum vulgarium fragmenta
di Francesco Petrarca
Pace non trovo, e non ho da far guerra;
E temo, e spero, ed ardo, e son un ghiaccio;
E volo sopra ‘l cielo, e giaccio in terra;
E nulla stringo, e tutto ‘l mondo abbraccio.
[Questo è l’undicesimo articolo della rubrica La formazione dell’insegnante di Lettere, che si pubblica in vibrisse il mercoledì. Gli insegnanti che volessero partecipare possono scrivere al mio indirizzo, scrivendo nella riga dell’oggetto: “La formazione dell’insegnante di lettere”. Ringrazio Emanuela per la disponibilità. gm]
Sono cresciuta dentro una biblioteca di ciliegio, divisa fra pannelli chiusi e varchi aperti che si alternavano fra loro in un gioco di pieni e vuoti, fra i quali mi perdevo. Puntualmente alla ricerca di un libro che fosse sempre più nascosto e impolverato di quello che la mia mano riusciva a raggiungere. Quale fosse l’ordine per cui un libro potesse essere disposto e disponibile sullo scaffale a vista o adagiato e dormiente nella pancia di quella libreria ancora mi sfugge. E i cambiamenti che i libri hanno subito nel tempo fra traslochi, dismissioni e acquisizioni mi hanno sempre depistata, fin quando non sono stata abbastanza matura per far miei i libri attraverso alcuni adolescenziali criteri di sistemazione: tutti basati su istintive modalità di abbinamento, che nessun sistema Dewey tiene in conto. Una volta affinate, non permisi più a nessuno di metterle in discussione: mi erano costate anni di ripensamenti ed esplorazioni, tutte elaborate dal mio punto di osservazione privilegiato: la neoclassica poltrona di pelle punzonata che fiancheggiava la libreria e mi permetteva di vivere, lì seduta, le mie pigre avventure di pensiero di bambina molto lettrice e poco saltellante. Eppure ero contenta di avere ciò che allora mi bastava: mi bastava stare in compagnia di me stessa e dei miei libri: ovvero, dei libri che mia madre, insegnante di italiano, aveva accumulato nel suo tempo. Ma anche nelle case altrui cercavo i miei libri: mia nonna li teneva accatastati dietro al divano del suo soggiorno e cercavo sempre di acquisirli a me. Tutte queste letture, bulimiche e poco consapevoli, me le tengo dentro come l’odore di cuoio della poltrona di casa mia o del sugo caldo di pomodoro che mia nonna mi faceva assaggiare, prima di condirci la pasta, mentre leggevo i libri che, a casa sua, i figli avevano deposto nel tempo.
Sì, sono stata una bambina “poco uscita”: me lo ricorda, ridendo, il mio fidanzato, anche lui insegnante, che ha trascorso la sua adolescenza in un’isola del Mediterraneo simile a quella di Arturo. Ma io gli inseguimenti sugli scogli o la noia della pesca non li ho vissuti uscendo, ma solo entrando in un libro che me la raccontasse. L’isola di Arturo della Morante, appunto. Ma non rimpiango l’essere “poco uscita”: ci rido sopra con nostalgia e consolidata abitudine. E con lo sguardo retrospettivo di chi, poi, è diventato insegnante di lettere e si è ritrovata un deposito di letture a cui attingere e con cui confrontarsi. A volte, molto aspramente.
[Questo è il decimo articolo della rubrica La formazione dell’insegnante di Lettere, che si pubblica in vibrisse il mercoledì. Gli insegnanti che volessero partecipare possono scrivere al mio indirizzo, scrivendo nella riga dell’oggetto: “La formazione dell’insegnante di lettere”. Ringrazio Daniela per la disponibilità. gm]
Ne La lingua salvata Elias Canetti dice che “la diversità degli insegnanti è la prima forma di molteplicità di cui si prende coscienza nella vita”. Questa rubrica lo dimostra.
Non sono frequenti le occasioni per raccontare le esperienze, i dubbi, le scelte che accompagnano il viaggio di un insegnante – tra entusiasmi e frustrazioni – quindi ben venga questa occasione che può servire, in primis, a chi scrive, come momento di riflessione, “un fare il punto”.
Si sente dire che la scuola è rimasta forse l’unica agenzia culturale a difendere l’ultimo baluardo di formazione, oggi che gli adolescenti spesso non hanno significative esperienze di vita associata ispirata a un ideale o a uno stile di vita. Le forme associative più diffuse sono quelle legate alla pratica di uno sport, quando praticato, né più oratori né politica; è quindi forse vero che la scuola ha questo ruolo più che in passato.
Io appartengo alla schiera di insegnanti che ancora crede nel ruolo educativo della scuola. Mi sono formata alla scuola della letteratura più che della pedagogia.
Sono stata un’adolescente inquieta e curiosa, nata in un piccolo centro in provincia di Catanzaro, dove sono cresciuta a pane musica e cinema e dove con un piccolo gruppo facevo teatro. Ricordo ancora una sera nel teatro della nostra città uno spettacolo che scandalizzò la platea: era l’Antigone del Living Theater, una di quelle esperienze che ti indicano la strada per capire che respiro vuoi seguire.
Ho frequentato il liceo classico e quando mi sono iscritta all’università avevo in testa una sola cosa: non volevo insegnare, quindi ho scelto Lingue. Ero una studentessa fuori sede a Firenze con grandi aspettative, ma l’esperienza universitaria in parte è stata deludente, contrassegnata da un grande confusione e, poiché non ero sicura di ciò che avrei voluto fare, ho fatto ciò che mi piaceva fare. Mi sono iscritta ai corsi di inglese e russo più per studiare la letteratura che non la lingua, ho cominciato a dare esami in libertà (allora i piani di studio lo permettevano con i cosiddetti esami facoltativi) passando per estetica, storia del cinema, storia del teatro, storia del giornalismo e così via. Strada facendo però ho capito che le lingue non erano la mia strada, anche se poi le ho imparate, e mi sono laureata in Lettere. Da sempre sono stata una lettrice onnivora, appassionata di cinema, musica, teatro, scrittura, ma anche sport (soprattutto atletica) e danza, da quella tribale a quella contemporanea.
[Questo è il terzo articolo della rubrica La formazione dell’insegnante di Lettere, che uscirà ogni (si spera) mercoledì. Gli insegnanti che volessero partecipare possono scrivere al mio indirizzo, scrivendo nella riga dell’oggetto: “La formazione dell’insegnante di lettere”. Ringrazio Maria Luisa per la disponibilità. gm]
Non ho scelto di studiare: sono nata in una famiglia colta nella quale la scuola era la cosa più importante. Non ho neanche scelto di iscrivermi a lettere classiche: mi ci sono trovata, costretta da problemi esistenziali che poi, nel tempo, non ho più neppure cercato di affrontare. Non ho scelto, infine, di insegnare: è uscito un concorso poche settimane dopo la mia laurea e ho avuto la fortuna di vincerlo.
Lo studio è stato per me principalmente una grande fatica, che ho voluto compiere per sentirmi simile ai miei genitori e ai miei fratelli, che mi parevano allora e mi paiono ancora adesso sinceramente e ottimisticamente dominati dalla curiosità e dal sapere.
La mia vita è stata un continuum di piccole cose: mangio/non mangio, fumo/non fumo, perchè sono nata, non mi vuole nessuno, non riesco, devo fare la spesa, la cena, le pulizie.
Ha avuto però anche dei picchi, dei periodi in cui ho letto e studiato cose che mi hanno appassionata e che mi sono sembrate importanti, ma che non sono entrate nella mia vita. Si sono imbozzolate, e forse quei bozzoli sono ancora dentro di me, ma di sicuro non hanno sfarfallato.
Dentro questa inettitudine, c’è sempre stata in me una ridicola disponibilità totale agli altri, non per grandi progetti, ma per servizi umili, di quelli che ti svuotano l’anima e ti sottraggono la vita. In modo meno tragico: mi sono sempre accollata tutti i lavori di casa, come se marito e figli non avessero le mani, molti lavori a scuola, come se i colleghi fossero intoccabili, molte ripetizioni ai figli degli amici, come se non ci fossero neolaureati in cerca di guadagnare qualche soldo dando lezioni.
Ho raccontato queste cose in modo un po’ lunghetto, come dice Giulio, perchè non apparisse inaspettato o incomprensibile il fatto che io non abbia mai curato veramente neppure la mia formazione di insegnante e sia adesso in grado di parlarne solo perché, essendo ormai alla fine della carriera, posso voltarmi indietro e ricostruirne il percorso.
[Questo è il quinto articolo della serie La formazione dello scrittore, che appare in vibrisse il giovedì (ed è parallela a quella La formazione della scrittrice, che appare invece il lunedì). Ringrazio Demetrio per la disponibilità. gm]
Da dove inizio? Dal mio paese, in cui ho vissuto per 25 anni. Il mio paese non ha una libreria che sia una, né una biblioteca comunale. Quindi mi pare strano ora essere qui a raccontare a voi la mia formazione di scrittore. Eppure mi sembra che tutto trovi ragione in quell’assenza di libri, che ha fatto nascere in me qualcosa come un bisogno. Ovvio che il mio è un ragionamento ex post, per fare chiarezza su un movimento della mia psiche di allora (ovvero di un preadolescente con una leggera balbuzie e un difetto di pronuncia nella “s”) che percepisco ancora come oscuro.
Nella mia casa non c’erano libri. Io, infatti, non provengo da una famiglia di lettori. Non ho ricordi del tipo: “Quando avevo otto anni entrai nello studio di mio padre e presi di soppiatto il primo libro, erano i racconti dei pirati di Salgari”. Io ho una diversa storia: a casa mia c’era una Bibbia. È stata quella la mia prima lettura. Le pagine della Bibbia sono state per me, prima che un testo sacro, un libro di storie bellissime e di narrazioni avvincenti. Penso alla storia di Saul o a quella di Davide, penso all’impressione che ne ebbi leggendo la vicenda dei Maccabei, oppure di come mi stupii nel leggere Qoelet, o i profeti. Il turbamento di riconoscermi in Geremia. Ci ho messo un po’ a leggerla tutta, dal “Bershit” [“In principio”] iniziale al “Maranathà” [“Vieni, Signore”] della fine, eppure credo che niente di quello che ho scritto dopo, al di là del suo valore, possa essere compreso senza capire che la mia fantasia e la mia immaginazione non si sono nutrite dei miti greci e romani, che non ho formato la mia idea di mondo avendo come riferimento Achille e Ettore, Patroclo e Ulisse ma Mosè, Esaù, Isaia, Salomone.
[Questo è l’undicesimo articolo di una serie che spero lunga e interessante. Ringrazio Adriana per la disponibilità. Chi volesse proporsi, mi scriva mettendo nell’oggetto le parole “La formazione della scrittrice”. La prossima settimana tocca a Valeria Parrella, gm]
La mia prima scrittura non l’ho scritta. L’ho dettata a mamma perché ancora non sapevo scrivere. La poesia in questione conteneva un errore indispensabile alla rima; la cosa mi fu fatta notare, ma la licenza poetica mi venne subito concessa con tanto di sorriso.
Rugiada che brilli al sole
che parli al fiore
che dici al mio cuore?
L’ascolto commossa, lei dice:
“Tu sì sei felice
io no, non son felice
perché il sole m’assorbisce
e la mia vita è breve
finisce.
Poi ho subito smesso, credo per giocare con gli altri bambini della scuola materna: ero già innamorata del più monello della classe e l’amore mi avrebbe sottratto alla scrittura per molti anni, eccetto forse gli sfoghi sui diari di scuola su cui non rimaneva mai abbastanza spazio per annotare i compiti. C’erano le poesie struggenti, le parole per le canzoni di cui era autore, per la parte musicale, mio cugino. Fu lui la causa prima dei miei tumultuosi innamoramenti a catena; mi presentò i suoi amici durante le medie e da lì in avanti passai da un uragano amoroso all’altro. Sopravvisse, forse, un’esile forma di ricerca espressiva in qualche tema; ricordo che alcuni di essi vennero lodati in classe; fui costretta a leggerli pubblicamente, mi tremava la voce. Era limpida e ferma però quando cantavo, cosa che mi veniva richiesta spesso dai parenti. Ero intonata come la mamma cantante. Conosco a memoria le parole di moltissime canzoni italiane, da quelle dell’immediato dopoguerra a quelle degli anni ottanta. Della famiglia materna facevano parte un chitarrista e un contrabbassista che ‘provavano’ chiusi nel bagno di casa della nonna e suonavano in giro per il mondo, oltre a mamma che faceva serate e incideva sui primi vinili. Dopo la sua prematura morte mi è capitato di scrivere testi per lo zio contrabbassista, che è anche compositore. L’estenuante ricerca di parole che meglio si accordassero a frasi musicali non mie divenne, ad un certo punto, quasi una sindrome ossessivo compulsiva. Lo zio mi telefonava in continuazione e neanche parlava più, se non per dire: “ho cambiato un passaggio”, quindi cantava e ricantava: ne uscii stremata ma felice. Musica e parole, parole e musica: per me era questo il paradiso in terra. Grazie al professore di lettere del ginnasio avevo coltivato la passione per Petrarca, Manzoni, Carducci, Leopardi, ma i poeti più letti, ascoltati e interpretati sarebbero rimasti a lungo De André, Mogol, Dalla, De Gregori, Fossati.
di letture e scritture, è curato da giulio mozzi. Esiste dal 4 agosto 2000. Il nome “vibrisse” è stato trovato da Mauro Mongarli, che ci ha lasciati il 22 giugno 2019.
Dal 16 novembre 2006 fino a circa fine 2008 è esistita anche vibrisselibri, casa editrice in rete.
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