
Рома́н О́сипович Якобсо́н
Рома́н О́сипович Якобсо́н
di giuliomozzi
Prima di Natale abbiamo giocato un po’ con gli a capo e le rime. Ora vi propongo un altro gioco. Leggiamo una celebre poesia di Eugenio Montale:
Non il grillo ma il gatto
del focolare
or ti consiglia,
splendido lare
della dispersa tua famiglia.
La casa che tu rechi
con te ravvolta, gabbia o cappelliera?
sovrasta i ciechi
tempi come il flutto
arca leggera
– e basta al tuo riscatto.
La forma è piuttosto chiara: due periodi (separati dal punto fermo) lunghi ciascuno cinque versi, più un verso di chiusa (separato dal trattino). Rime interne a ogni periodo; rima (come lo scatto di una serratura) tra il primo e l’ultimo verso (che ha una consonanza col terz’ultimo). Versi dispari (quinari, settenari, un novenario, un endecasillabo) tranne il terz’ultimo (senario).
Il punto è che, questa poesia, Montale non l’ha scritta così. Ovvero: le parole sono quelle, l’ordine delle parole è quello, ma tutta diversa è la sistemazione degli a capo. Volete provare a “reinventare” la sistemazione originaria? Lo spazio dei commenti è vostro. E poi la domanda sarà: ma perché Montale ha fatto così? (Lo so che guarderete tutti in Google; ma almeno fatelo dopo).
Eugenio Montale in green
di giuliomozzi
Visto che il post precedente (Esperimento di poesia lavando i piatti) riscuote un certo interesse, propongo un gioco più rischioso. Quella che segue è una breve poesia di Eugenio Montale. L’ho ricopiata togliendo gli a capo. Provate a métterceli, e a dire perché li mettete lì o là. La poesia si trova ovunque in rete, ma è chiaro che il gioco ha senso se vi trattenete dal cercare.
Dagli albori del secolo si discute se la poesia sia dentro o fuori. Dapprima vinse il dentro, poi contrattaccò duramente il fuori e dopo anni si addivenne a un forfait che non potrà durare perché il fuori è armato fino ai denti.
24.12.2015 h 06.46: ho inserito nei commenti la versione di Eugenio Montale.
di Rossella Monaco
[Chi volesse proporsi per la rubrica dedicata alla formazione dell’insegnante di scrittura creativa – che esce il giovedì – mi scriva, mettendo nell’oggetto il titolo della rubrica stessa. Ringrazio Rossella per la disponibilità. gm]
Ho ventotto anni appena compiuti e sono un “insegnante di scrittura creativa” da due. Ogni volta che salgo in cattedra non mi sento in grado di insegnare nulla. Mi ci ritrovo sempre un po’ per caso, spinta da tre tipi di necessità: far quadrare i conti, continuare un percorso che da un certo momento in poi è sembrato inevitabile, cercare di non disinammorarmi. All’inizio della mia strada ero piena di concetti ingenui sulla scrittura e il mondo editoriale.
Chi scrive si vergogna quasi sempre di ciò che ha creato e oggi guardando indietro alle mie prime prove, a dieci anni fa, mi chiedo cosa avrei prodotto se allora mi fossi trovata davanti me stessa, in un’aula o in una chat. Non sempre la risposta è confortante. Guardo i volti delle persone che partecipano ai miei corsi: le prime lezioni, ci vedo sconforto, sogni infranti, voglia di mettersi in gioco e di impressionarmi; alla fine, ci vedo consapevolezza. E questo mi dà energia. Paragono l’esperienza dei corsi, con ingenuità e anche un po’ di divertimento, ai miei nove anni, a quando la maestra ci salutò prima delle feste di Natale dicendoci che Babbo Natale non esisteva. Quello che seguì fu un misto di ammirazione e odio. Credo che gli iscritti provino questo nei miei confronti. L’ho capito guardandoli ma anche e soprattutto dai questionari di valutazione anonimi che sottopongo loro alla fine di ogni percorso didattico. Se c’è una cosa che ho imparato dai corsi di scrittura creativa, dai miei alunni, e da questo metodo di valutazione del mio lavoro, è che anche l’ultimo arrivato può insegnare molte cose. È per questo che ho preso coraggio e nonostante la scarsa esperienza, sono qui a raccontare il mio percorso. Funziona come in un circolo di alcolisti anonimi, credo: condividere aiuta me a focalizzare il percorso e spero possa servire ad altri, anche solo a intrattenere o a scatenare insulti o indifferenza, a piacere.
[Questo è il ventinovesimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice. Ringrazio Alberto per la disponibilità. Il magazzino è vuoto, attendo i contributi di alcune persone che si sono impegnate ma hanno bisgono di tempo: la rubrica diventa irregolare. gm]
In principio c’erano i PIC: erano dei librini quadrati, illustrati, con le fiabe classiche (Biancaneve, Cenerentola, Cappuccetto Rosso…) ridotte ad uso dei bambini molto piccoli. Se non ricordo male costavano 50 lire. Mia madre me li leggeva e rileggeva, io li imparavo a memoria e poi facevo finta di leggere anch’io, seguendo col dito e suscitando l’ammirazione (ah! oh!: forse altrettanto finta) dei nonni in visita. Ma forse è vero che, a forza di studiarmeli, man mano che nascevano i miei fratelli e si riduceva il tempo materno a mia disposizione, qualche parola avevo imparato a decifrarla. Sicché, senza mai andare all’asilo, sono arrivato in prima elementare che in effetti, bene o male, leggevo.
di Roberto Deidier
[Questo è il ventitreesimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice. Le due serie escono, ormai un po’ come viene viene, il lunedì e il giovedì. Ringrazio Roberto per la disponibilità. gm]
Si forma, uno scrittore? E come? Ci sono modi che possiamo riconoscere o condividere? Certo non ci sono modi standard. Forse ce ne sono stati in passato, quando la poetica non era un’opzione ma una norma; lo scrittore moderno, al contrario, ha saputo conquistarsi una dose di libertà, sufficiente per affrancarsi da imposizioni e diktat d’ogni genere. Cosa abbia saputo fare di questa libertà, com’è ovvio, diventa un altro discorso. Resta che a ciascuno sono spettati i modelli e le letture, in cui si è imbattuto quasi sempre per caso.
Per me, come per tanti altri, la scuola è stata un’occasione importante. Non solo quella del liceo, che mi ha messo in contatto con i classici, ma quella primaria, con le filastrocche e le poesie del sussidiario. E con un maestro che ci metteva sotto gli occhi gli antenati di Calvino e i personaggi impronunciabili delle Cosmicomiche: vero carburante per l’immaginazione di ogni bambino. Gli infiniti di Leopardi erano già dietro la porta. Ma ricordo, tra i soliti poeti delle elementari (Pascoli e Ungaretti furoreggiavano nei libri di testo), Prévert, con una curiosa poesia, la prima lunga poesia che mi fu chiesto di mandare a mente. Non ne so più un verso: s’intitolava Per fare il ritratto di un uccello e suggeriva, per la riuscita dell’impresa, di cominciare dal disegno di una gabbia, per poi rappresentare l’uccello con le piume colorate; infine si doveva cancellare la gabbia. Strana e bella allegoria della scrittura che tenta di imprigionare il mondo, e poi ne apre tanti altri più ampi, ma allora non potevo saperlo e pure se lo avessi saputo non lo avrei compreso. Così cominciavo a scrivere senza capire quello che stavo facendo: la gabbia era diventata la mia stanza, ascoltavo i muri, la loro vita interna fatta di tubi e suoni misteriosi e appuntavo queste sensazioni in un quaderno che finì perso da un trasloco all’altro.
[Questo è il nono articolo della serie La formazione dello scrittore, che appare in vibrisse il giovedì (ed è parallela a quella La formazione della scrittrice, che appare invece il lunedì). Ringrazio Giuseppe per la disponibilità. Il prossimo ospite della rubrica sarà Marco Candida. gm]
Non so nemmeno a quale formazione fare riferimento; per me, cresciuto negli anni Settanta e Ottanta e Novanta, è adesso più confusione e sbigottimento che ricordo il dire del me stesso, chi incontrò, cosa fece, come arrivò alla scrittura. Inoltre si tratta di “io” e qui sta un problema storico. Utilizzare questo pronome radicale è stato difficile nel corso dei due decenni in cui ho pubblicato. Ho tentato di costruire un ologramma, un avatar, che attirasse fulmini e saette, giusto livore e ingiusto rancore, lasciando in pace la persona in un silenzio e in un respiro ampi, secondo l’insegnamento di un poeta che annovero tra i miei maestri e che era Antonio Porta (così, noto al secolo; si chiamava Leo Paolazzi, in verità).
Prendo molto sul serio questo invito di Giulio, che certamente è tra gli scrittori e intellettuali i quali più stimo da tanti anni, con cui a me è parso di fare un po’ di strada insieme (vorrei citare, insieme a lui, tra i miei coetanei editoriali, quelli per me più decisivi: Tommaso Pincio e Aldo Nove). Dice Giulio: scrivi quello che vuoi sulla formazione tua, meglio se lungo il pezzo, anziché breve. Quindi scrivo questo autoritratto, sommario e forse un po’ peccaminoso, seguendo le metriche suggeritemi.
[Questo è il ventitreesimo articolo della serie La formazione della scrittrice (esce il lunedì), alla quale si è da poco affiancata la serie La formazione dello scrittore (esce il giovedì). Ringrazio Elisabetta per la disponibilità. La prossima ospite sarà Simona Vinci. gm].
Erano i racconti di mia nonna, di paese marchigiano, spiritismo e magia, che mi catturavano più di ogni altra cosa. Mi ricordo che ascoltavo mentre lavava i piatti e intanto pensavo che avrei dovuto scriverli per non perderli, per non perdere lei più che le sue parole, ma non l’ho mai fatto.Nei temi raccontavo storie. I miei venivano convocati per sapere se fossero vere. Non lo erano quasi mai. La mia fortuna è che non mi hanno mai fatto sentire diversa o bugiarda, la mia fortuna è che potevo permettermi di essere quello che ero perché sembravo altro.
A casa giravano tanti libri, ma la formazione di autrice è passata piuttosto dall’ascolto, dalle parole dette, dai contrasti, dalle azioni, dalle negazioni. Le parole lette arrivano dopo, almeno nella memoria.
Erano i libri di psicologia di mia madre che mi attiravano, i volumi degli esistenzialisti francesi, di Sartre, Camus e soprattutto, di Simone de Beauvoir. Alle medie non erano previsti, ne parlavo con gli adulti, soprattutto quelli che non avevano parole adatte a parlare con i bambini.
[Questo è il decimo articolo di una serie che spero lunga e interessante. Ringrazio Chandra Livia per la disponibilità. Chi volesse proporsi, mi scriva mettendo nell’oggetto le parole “La formazione della scrittrice”. gm]
A scuola ero un asino. Facevo fatica a capire un po’ tutto. Soprattutto i numeri, per esempio che avessero un nome, perché sapevo che tre e due fa qualcosa ma il nome cinque non sempre saltava fuori. Molte lettere poi le avevo imparate al contrario, perché il mio primo maestro involontario era stato mio fratello. Lui studiava seduto alla scrivania, io mi piazzavo di fronte a lui appollaiata su uno sgabello, con davanti foglio e matita e ogni tanto gli chiedevo: “Che lettera è questa?” E lui, distratto: “A”. E io la disegnavo, diligentemente, al contrario. Così sembravo scema a scuola. Non sapevo spiegare il perché, tutto qua.
Prima di andare a scuola, attorno ai cinque anni, c’è stata la faccenda di Pascoli. Sempre Max, mio fratello, studiava una poesia a memoria, diceva e ridiceva parole strane, sonore ma che creavano in corridoio delle immagini: rondini, nidi, bambole al petto, cavalline, stelle. Camminando lungo quel brutto e anche un po’ cattivo corridoio, le parole mi colpirono alla schiena, mi immobilizzai e le ricevetti, correvano le immagini un po’ di qua e un po’ di là e io mi dissi solo: “Da grande scriverò in quella lingua.” Finito, non ci pensai più. Ma continuavo a vedere. Chi parlava, chi raccontava, erano tutti circondati da immagini viventi e io restavo stupefatta che facessero finta di niente. Ricordo cosa successe quando mio padre gridò, per fortuna all’aperto, “Porca Madonna!” Apparve una Madonna tradizionale in veste bianca e manto azzurro, ma col viso di porco. Ero terrorizzata dallo spiazzamento. Esperienze incollocabili, come è spesso stato il resto della vita.
di Giovanna Rosadini
[Questo è il nono articolo di una serie che spero lunga e interessante. Ringrazio Giovanna per la disponibilità. Chi volesse proporsi, mi scriva mettendo nell’oggetto le parole “La formazione della scrittrice”. gm]
La prima parola che mi viene in mente, sul tema, è solitudine. La seconda, mamma. La scrittura come solitudine di matrice materna? (Probabilmente, in origine – prima di approdare, con la piena consapevolezza della maturità, a quella solitudine corale che rappresenta, secondo un’azzeccatis- sima definizione dell’amica Maria Grazia Calandrone, la condizione di chi scrive)…
Ma andiamo con ordine.
Se ripenso a me stessa bambina, agli albori della succitata consapevolezza, mi rivedo in piedi di fronte ai ripiani della libreria di casa, sola nel grande salone viola che affaccia sul giardino che guarda, da mezza collina, il mare.
La libreria è un’emanazione materna, stipata di volumi einaudiani, i dorsi dei Supercoralli ritmicamente allineati, Bassani, Cassola, Vittorini, Pavese, Calvino… e, lo conservo ancora qui a casa a Milano, ingiallito e con la copertina usurata, il volume delle Poesie di André Breton, il suo profilo nella foto solarizzata di Man Ray in prima di copertina…
Au temps de ma millième jeunesse
j’ai charmé cette torpille qui brille
nous regardons l’incroyabe et nous y croyons malgré nous (…).
Saltando il pisolino
vagar per l’orticello,
sbirciare il serpentello
frusciare e scomparir;
spiar sul muricciolo
rossicce le formiche
mai stanche i loro intrichi
sciogliere e annodar;
guatar tra il tremolio
di ulivi e di cicale
come un gran pesce il mare
argenteo tremolar;
e poi nell’orto chiuso
vagando, con stupore
sentire in me l’orrore:
volermi suicidar.
Gino Montile, da Occhi di sabbia.
Non chiederci la prole che scalci da ogni lato
nella pancia già informe, e con urgenza aneli
al dì natale, ansiosa di vita vera, senza veli:
un bimbo piange, sull’asfalto un gelato.
Ah, il bimbo che lecca e va sicuro
agli altri ed a se stesso amico,
e della bici non cura che svicola
e non lo scansa, e l’urta e getta contro il muro!
Non domandarci il progetto della macchina del tempo:
quel che andò storto, non si può rifar da capo.
Codesto solo oggi ti diciamo:
ciò che abbiam fallito, questo e nient’altro siamo.
Gino Montile, da Occhi di sabbia
La zebra, prima a ritentar l’azzardo
dello stadio che ha in fossa
diavoli e leoni, scoppiare di petardi
fumanti dove brucia i suoi spasimi
il tifoso deluso, cupo là fuori
cigolar di tornielli che traggono
ancora corpi, ultimi ultras, amare
vite da bar sport. Con un fischio
l’ora s’estingue: un parcheggio d’asfalto
si prepara a un irrompere di scarni
guerrieri, alle scintille dei coltelli.
Gino Montile, Motteggi, XIII.