Posts Tagged ‘Ernest Hemingway’
29 luglio 2017
Tag:Alberto Savinio, Alice B. Toklas, André Malraux, Andrea de Chirico, Apollinaire, Aram Kachaturian, Baltasar Gracián, Daniel Henry Kahnweiler, Dario Puccini, Donatella Siviero, Ernest Hemingway, Erskine Caldwell, Ezra Pound, George Braque, Gertrude Stein, Giorgio De Chirico, Giuseppe Cintioli, Igor Stravinskij, Jean Cassou, José María Merino, Juan Pedro Aparicio, Jusep Torres Campalans, María Rosell, Mateo Díez, Max Aub, Ottorino Pianigiani, Pablo Picasso, Pierre Bonnard, Sabino Ordás, Santiago de Alvarado, Sergej Pavlovič Djagilev
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25 marzo 2016
di Ennio Bissolati
[Ennio Bissolati è un bibliofilo. Per vibrisse recensisce libri introvabili, dei quali sostiene di essere l’unico lettore. gm]
E’ nota l’ammirazione del curatore di vibrisse, che Dio ce lo conservi, per un libricino qualche anno fa pubblicato, e più recentemente ripubblicato, dell’Ermanno Cavazzoni da Bologna; titolato: Gli scrittori inutili. Nella limpida casistica del Cavazzoni, l’illustre Mozzi si è riconosciuto – bontà sua – nella casella degli scrittori in disuso (e il Cavazzoni mai smentì): ed è forte di tanta spregiudicata autocoscienza che il vostro bibliofilo, umilmente, si azzarda a recensire questo torrido pamphlet, dovuto alla penna di un Anonimo (perché il nome, per tacer del cognome, nomina sia pur pudicamente fin troppo) che sicuramente l’intinse nel curaro; e confida che il padrone di casa non se la prenderà.
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Tag:Alessandro Baricco, Alessandro Oldeni, Dante Alighieri, Ernest Hemingway, Ernesto Bignami, Paolo Cognetti, Platone, Raul Montanari, Raymond Carver, Sigmund Freud, Socrate
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12 Maggio 2015
di Marco Candida
Incontrare per la milionesima volta
la realtà dell’esperienza
e forgiare nella fucina della mia anima
la coscienza increata della mia razza
(Gente di Dublino)
Intro
Alcune annotazioni in seguito alla lettura dell’Ulisse di Joyce. L’edizione è quella dei Tascabili Mondadori. Traduzione Giulio de Angelis. Nella quarta di copertina c’è scritto: “Un uomo a spasso per Dublino dalle 8 alle 2 di notte del 16 giugno 1904: le sue azioni, i pensieri, le azioni e i pensieri della città, delle cose, della gente che incontra, di Stephen Dedalus…”. Le azioni e i pensieri delle cose? No, l’Ulisse non arriva a tanto… Ma quasi.
Birra
L’Ulysses si apre con questo paragrafo:
Solenne e paffuto Buck Mulligan comparve dall’alto delle scale, portando un bacile di schiuma su cui erano posati in croce uno specchio e un rasoio. Una vestaglia gialla, discinta, gli levitava delicatamente dietro, al soffio della mite aria mattutina. Levò alto il bacile e intonò:
“Introibo ad altare Dei”
E’ interessante soffermarsi, in quest’incipit, sul particolare del “bacile di schiuma”. Il bacile viene
anche levato in alto e offerto a Dio. E’ possibile che Joyce abbia voluto servirsi dell’immagine del “bacile di schiuma” come succedaneo alla birra?
La birra è un liquido sacro nell’Ulysses. A pag. 306 leggiamo:
Una bella cotta, s’era preso, in una gargotta di Bride Street dopo l’ora di chiusura, brancicava due sciupate col magnaccia che stava di guardia e beveva birra in tazze da tè.
Addirittura la birra è degna d’essere versata in pregiate tazze da tè! E ancora a pagina 404:
Da quattro minuti circa teneva gli occhi fissi su un certo quantitativo di birra Bass numero uno imbottigliata da Bass e Co di Burton-on-Trent che si trovava situata in mezzo a un gran numero di analoghe bottiglie esattamente difronte a dove egli stava e che erano certamente intese ad attirare l’altrui attenzione a cagione del loro aspetto scarlatto.
La birra torna, nell’Ulysses, e viene sempre presentata e descritta sotto una luce aurea, sacrale, è un nettare divino.
Come mai Joyce dava così tanta importanza al luppolo? Forse solo perché gli piaceva? Oppure è un elemento simbolico? Non potrebbe essere che tanto l’Ulysses quanto il Finnegans Wake rappresentino la schiuma alfabetica dei fatti? Quanta minor birra versi nel bicchiere, quanto più velocemente lo fai, tanto maggiormente otterrai schiuma.
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10 novembre 2014
di Enrico Macioci
[Questo è il ventiquattresimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice. Le due serie escono, ormai un po’ come viene viene, il lunedì e il giovedì. Ringrazio Enrico per la disponibilità. gm]
La mia formazione di scrittore si divide in quattro fasi piuttosto nette.
La prima fase va dai sette ai quattordici anni ed è forse la più importante, quella che ha indirizzato e condizionato il seguito nel bene e nel male. Una mattina di febbraio del 1983 nevicava forte. Frequentavo la seconda elementare, la mia classe affacciava su un vicolo che la bufera imbiancò in un amen. La maestra propose di scrivere una poesia sulla neve. Noi alunni ci guardammo perplessi; cos’era una poesia? La maestra ci diede un’ora di tempo o forse due, non ricordo; ciò che ricordo è che allo scadere un solo bambino aveva prodotto una cosiddetta poesia, e quel bambino ero io. Una filastrocca che però conteneva un seme di ritmo e di suono, e qualche timida metafora. Tornai a casa e raccontai l’accaduto consegnando il manoscritto; mio padre, sorpreso e inorgoglito, mi comperò un drago di plastica verde e giallo che conservo ancora. Da lì in avanti, e fino ai tredici anni, scrissi altre trentaquattro poesie più un numero enorme di racconti e romanzi, la maggior parte dei quali non terminati, stipati in decine di quaderni a righe e a quadretti. Leggevo moltissimo e assorbivo lo stile e i contenuti degli autori per poi scimmiottarli; divorai Emilio Salgari, Jules Verne, Francis Hodgson Burnett, Mark Twain, Robert Luis Stevenson ed Edgar Allan Poe; mi sciroppai Pinocchio qualche decina di volte (Pinocchio è un capolavoro della letteratura mondiale, non dimenticatelo mai, specie la scena notturna in cui il gatto e la volpe, avvolti in neri pastrani, braccano il burattino all’uscita dall’osteria del Gambero Rosso); attraversai la fase dell’avventura, quella dell’orrore, quella umoristica e persino quella calcistica (il mio nume tutelare era Gianni Brera). A ben riflettere la produzione in prosa fu sin da allora incomparabilmente più abbondante della produzione in poesia, ma era quest’ultima a suscitare interesse e curiosità. In alcune delle mie poesie c’era in effetti qualcosa di singolare, di troppo precoce, una specie di tristezza matura, un anticipo sui tempi; vinsi dei premi (i premi di poesia per bambini andrebbero aboliti e sostituiti con gare di calci di rigore, o di corsa a ostacoli o di freccette); cominciai a sentire puzza di bruciato. Possedevo un dono bizzarro che si manifestava improvviso e al di fuori del mio controllo, una sorta di lampo o illuminazione indipendente dalla mia volontà, troppo remoto anche per poterlo associare all’istinto; d’un tratto mi sedevo e scrivevo, come sotto dettatura. Questo dono mi regalava attimi brevi ma intensi di felicità – meglio: di rapimento e pienezza, di totale sintonia col mistero chiamato mondo; però allo stesso tempo mi separava dal mondo, dal mondo e dagli amici. Non era vero naturalmente, ma quando mai ciò che è vero ha contato un soldo bucato nelle nostre vite? Conta solo ciò che crediamo, e io credevo con fermezza che la poesia (non il racconto o il romanzo, si badi bene, solo la poesia) scavasse un fossato fra me e i miei coetanei, mi rendesse “diverso” (una parola dubbia e ambigua, una parola limacciosa, una parola che è una palude). In realtà gli amici e le amiche si limitavano a manifestare equanimità, stupore o addirittura ammirazione quando s’imbattevano nei miei versi, ma il mio astio verso il “dono” divenne via via più inflessibile. Da un certo punto in avanti non volli che si parlasse delle mie poesie e ne proibii la circolazione; se qualche parente diffondeva la voce del poeta m’arrabbiavo; staccai dal muro un diploma di merito e lo nascosi sotto il letto, dietro le scatole delle scarpe, nel regno della polvere e dell’oblio; infine, sei giorni dopo aver compiuto quattordici anni, buttai giù l’ultima poesia da bambino e decisi che non avrei più scritto. Fu una risoluzione netta, fredda e consapevole, non certo un capriccio. Ci diedi un taglio con l’affilata lama della vergogna intinta nel veleno del senso di colpa. Non scrissi (e non lessi) più nulla per i successivi tredici anni.
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20 ottobre 2014
di Romolo Bugaro
[Questo è il diciannovesimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice (che per qualche settimana sarà sospesa, mentre le “formazioni” degli scrittori usciranno sia il giovedì sia il lunedì). Ringrazio Romolo per la disponibilità. gm]
Sono stato fortunato, fortunatissimo. Sono nato in una famiglia senza particolari problemi economici e capace di offrire molte cose.
Mio padre, medico, era un uomo con mille interessi. Amava la musica, la storia, la letteratura. Avevamo la casa piena di libri. Edizioni e collane bellissime: la Medusa della Mondadori, gli Scrittori Stranieri della Utet.
Ricordo il suo primo consiglio. “Vedi se ti piace questo.” Era Vicolo Cannery di John Steinbeck. Ho cominciato a leggere, non mi piaceva granché. Forse rivendicavo una specie di autonomia di giudizio. Ben presto l’ho abbandonato.
Però sono rimasto sugli americani. Winseburg, Ohio di Sherwood Anderson è la prima lettura significativa di cui abbia memoria. A distanza di trenta o quarant’anni non ricordo praticamente nulla delle storie, dei personaggi. Ricordo invece gli ambienti, il paesaggio. Campagne invernali con pochi alberi, pochi suoni. Colline dove la distanza era pura luce.
Dopo Anderson, come alcune migliaia di lettori desiderosi di scrivere in proprio, sono passato a Hemingway. A partire da Il sole sorge ancora in un’edizione oggi introvabile (ovviamente di mio padre): Jandi Sapi di Roma. Anno di pubblicazione: 1944. Traduzione: Rosetta Dandolo. Prezzo di vendita – testualmente, dal dorso del libro: “in Roma L. 150 (esente da aumento) fuori Roma: L. 160 (esente da aumento)”.
La guerra stava ancora infuriando nel Nord Italia, fascisti e nazisti avevano appena fondato la Repubblica Sociale, e nella capitale già si stampavano gli autori proibiti dal regime.
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24 luglio 2014
di Marco Candida
[Questo è il decimo articolo della serie La formazione dello scrittore, che appare in vibrisse il giovedì (ed è parallela a quella La formazione della scrittrice, che appare invece il lunedì). Ringrazio Marco per la disponibilità. Con questo articolo la rubrica va in vacanza: riprenderà giovedì 4 settembre con il contributo di Raul Montanari. gm]
Ho scritto il primo romanzo a dodici anni. 1990. Quell’anno passavano in televisione la serie televisiva Twin Peaks. Avevo visto La Casa Russia con Sean Connery e Michelle Pfeiffer. A scuola leggevamo in classe Zanna Bianca di Jack London e avevo trovato presso le bancarelle in Piazza Duomo a Tortona Martin Eden e Il richiamo della foresta nell’edizione cartonata e molto voluminosa dei Fratelli Melita. Il richiamo della foresta è stato un grande libro, ma Martin Eden è stato un libro che ha rappresentato per me, come per molti altri, un caposaldo. Casa Russia. Twin Peaks. Martin Eden. Ricordo d’essermi seduto per la prima volta alla scrivania nella mia stanza soprattutto con le suggestioni e le atmosfere date da queste storie nella testa – come non rimanere suggestionati dalla colonna sonora composta da Angelo Badalamenti per la serie televisiva girata da David Lynch? E’ venuto fuori un romanzo lunghissimo scritto in sei mesi con tre diversi tipi di penne (una penna biro blu, una Bic nera e poi un bavoso tratto pen) in un quadernetto con la copertina rigida (che recava l’immagine della maglietta della Juventus con qualche adesivo acquistato in un negozio sottocasa dal nome Chewing-gum, vera e propria oasi di colori, plastica e gomma nel grigiore paludoso, di pietra e di stucco, della mia città natale) con fogli a spirale a quadretti e poi a righe. Ora che lo riguardo mi accorgo come nel quaderno i caratteri della grafia diventino sempre più piccoli man mano che la narrazione procede. Più il romanzo si scioglie e diventa solo una storia e non il tentativo di un ragazzo di scrivere, di fare lo scrittore e più la grafia si rimpicciolisce, cosa che forse suggerisce una forma di pudore: nelle parti dove non stavo facendo lo scrittore, ero soltanto me stesso con una penna e dei fogli e questo mi procurava imbarazzo, e scrivevo piccolo per rendere quello scritto accessibile solo a me, comprensibile solo ai miei occhi e a nessun altro sguardo occasionale – mi figuravo i miei genitori curiosare tra le mie cose e poi me li figuravo leggerle agli Elemento o ai Taverna o a Piero e Assunta. Ciò che è davvero interessante del quadernetto si trova nella prima pagina. C’è una griglia con un calcolo approssimativo del numero di parole all’interno del romanzo. Se non ricordo male era un discorso letto per la prima volta proprio presso Jack London. Tenere conto del numero di parole in uno scritto. Mi stupisce ora pensare che un ragazzino di dodici anni si appassionasse a dettagli come calcolare il numero di parole dei suoi romanzi perché è una questione molto molto tecnica – e nemmeno particolarmente praticata presso i più affermati scrittori nostrani. Di qua avevamo un ragazzo che aveva attaccato il suo romanzo con la descrizione del canto del gallo, delle foglie nella rugiada, l’alba e di là lo stesso ragazzo vedeva tutte quelle cose con sguardo aritmetico, considerava ogni emozione e palpito dato dalla prosa come quantità.
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10 luglio 2014

Gianni De Luca, Amleto, da William Shakespeare (Il Giornalino, 1976)
di Alessandro Zaccuri
[Questo è l’ottavo articolo della serie La formazione dello scrittore, che appare in vibrisse il giovedì (ed è parallela a quella La formazione della scrittrice, che appare invece il lunedì). Ringrazio Alessandro per la disponibilità. gm]
1.
L’ultima storia sarebbe questa.
Muore un uomo, si prepara il suo funerale. La malattia è stata lunga, metodica com’era stata la sua esistenza. Il lavoro in banca, la cura perfino eccessiva nell’organizzare le giornate, l’abitudine di arrivare in stazione anche un’ora prima quando c’era da prendere il treno, l’insistenza nel leggere prima le istruzioni, sempre. Mai in ritardo a un appuntamento o a una scadenza.
Quest’uomo ordinato muore, dunque, e si prepara il suo funerale. In un giorno qualunque, a inizio settimana. In un paese di provincia, dove fino ad allora nulla è accaduto. Ma quel giorno, proprio all’altezza della cittadina dove nulla accade, un furgone sbarra l’accesso all’autostrada che da Milano va verso Como, un camion si mette di traverso sulla carreggiata, uomini con il passamontagna scendono, gettano chiodi a tre punte. Impugnano kalashnikov, sparano. Il blindato del portavalori viene assalito e svuotato. Pochi minuti per la rapina del secolo. Pochi minuti per liberare i demoni del caos. I banditi scappano, l’autostrada è bloccata, il blocco dell’autostrada provoca l’effetto domino sulla viabilità della zona, dell’area metropolitana, dell’intera regione. Arrivare al funerale diventa un’impresa. Tutti i contrattempi, tutti i ritardi evitati nel corso di una vita si accumulano in quell’ultimo giorno, in un ingorgo spaventoso e insieme allegro. Inspiegabilmente, meravigliosamente allegro.
Ecco, questa è l’ultima storia che mio padre mi ha raccontato. Non a parole, perché di parlare aveva smesso da anni. Il morto era lui, il funerale era il suo. Quel giorno pioveva, tra l’altro.
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7 luglio 2014
di Grazia Verasani
[Questo è il ventiseiesimo articolo della serie La formazione della scrittrice (esce il lunedì), alla quale si è ora affiancata la serie La formazione dello scrittore (esce il giovedì). Ringrazio Grazia per la disponibilità. gm].
In casa mia non c’erano molti libri. Qualche Cassola, qualche Berto, La Divina commedia illustrata da Doré, I Quaderni dal carcere di Gramsci, le poesie di Pascoli, Carducci, Ungaretti, e naturalmente Il capitale di Marx. Dico naturalmente perché mio padre, ex partigiano, nella libreria di tek del salotto, a parte montagne di copie ingiallite de L’unità, teneva i libri che aveva letto da ragazzo e soprattutto autori appartenenti alla sua stessa “ideologia”. C’erano anche un paio di enciclopedie: una di scienze e l’altra sulla seconda guerra mondiale.
Il primo libro che ebbi per le mani fu Guerra e pace di Tolstoj. Avevo dieci anni e, dato che mio fratello diciottenne era a letto malato, mi costrinse a leggergli quel tomo ad alta voce. Ci capii qualcosa? Non me lo ricordo. Ma per ragioni misteriose amavo i libri, e presto chiesi a mio padre di comprarmene sempre di più. Non romanzi rosa, non ero una bambina sentimentale, ma mi piacquero da subito l’Aleramo, la Ginzburg, la Fallaci e i romanzi di Pratolini e Moravia.
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