di Demetrio Paolin
Se dovessimo riassumere per il lettore la trama del romanzo di Maurizio Torchio Cattivi (Einaudi) potremmo farlo in poche e brevissime parole. Un carcerato racconta in prima persona la sua esperienza dell’ergastolo; l’uomo è stato arrestato per il rapimento di una giovane donna e in seguito la sua pena è stata aumentata per un omicidio avvenuto durante la sua detenzione.
Non si veda, però, in Cattivi un testo sociologico sulla questione delle carceri e la loro disumanità. Un approccio di questo tipo non potrebbe che portare il lettore lontano dal cuore del libro, perché nella realtà più profonda il romanzo di Torchio è una riflessione sull’ambiguità di essere vittima.
Il testo, per come è concepito, è un progressivo discendere dell’io narrante, che non ha nome, età e parla da un tempo sempre presente proprio come il tempo di chi ha un’eternità davanti, verso il buio e il fondo. Il tipo di racconto, il modo di presentarsi della storia al lettore, ricorda il mito antico. Più volte durante la lettura ho immaginato questo io che narra come un Prometeo incatenato alla roccia. Una immagine che spiega perché il testo non parli dell’oggi (Cattivi non è un libro cronaca, non ha mai un taglio politico o di denuncia), ma scenda alle radici di cosa è uomo.