[Questo è il diciottesimo articolo di una serie che spero lunga e interessante. Ringrazio Sandra per la disponibilità. Chi volesse proporsi, mi scriva mettendo nell’oggetto le parole “La formazione della scrittrice”. gm]
Nella leggenda familiare si dice che intorno ai quattro anni fui messa su una sedia a recitare la poesia di mia invenzione: “Son piccina, son carina/ son la gioia del papà/ ma se sporco la vestina/ il papà mi fa tò-tò”. Riconosco nei contenuti e nei versi approssimati non la mia piccolezza, ma la retorica borghese che regnava in casa, dunque immagino che i veri autori fossero proprio i miei genitori. Nel corso del tempo, probabilmente, osservando le mie inclinazioni letterarie, si sono confusi e hanno attribuito a me la proprietà di versi che non mi preme minimamente rivendicare. Anzi, appena ho avuto la possibilità di scegliere, il mio gusto e le prime prove artistiche si sono subito mosse in senso contrario: a me piaceva tutto ciò che era spiazzante, inedito, bizzarro. Una delle prime poesie che potevo a buon diritto riconoscere mie e che affidavo a un quadernetto segreto durante le elementari, inneggiava alla felicità dello sporcarsi da capo a piedi rotolandosi nei campi. Molto presto ho scoperto l’esistenza di un genio di nome Kafka imbattendomi nei suoi racconti alla biblioteca scolastica delle Medie. Fu un’emozione così forte che non riuscii più ad aprire uno dei Delly che pure avevano deliziato la mia prima adolescenza promettendomi grandi amori romantici.