[Che io abbia molta stima di Stefano Trucco, narratore finora poco notato, lo sanno – credo – tutti. Fin da quando ospitai un suo istruttivissimo intervento sulla sua partecipazione a Masterpiece. L’editore Intermezzi ha pubblicato un suo piccolo romanzo. Ve ne ho offerto ieri l’inizio; e oggi un altro pezzo. gm]
Qui da noi in Italia «quella cosa lì» si può dire in tanti modi: frocio, finocchio, omosessuale, checca, rottinculo, pederasta, sodomita, bardassa, culattina, invertito, paraculo, ricchione, uranista… Mi piace tantissimo come dicono a Firenze: «c’è le paste», che sembra l’annuncio di una festa. Invece odio come lo dicono a Genova, «buliccio», che sembra una specie di lumaca o verme bavoso.
Negli ultimi vent’anni circa, specie dopo la guerra, s’è diffusa un’espressione nuova: «fascista».
Ora, il fascismo che imperversò per l’Italia dopo la Prima Guerra Mondiale era tutta un’altra cosa. Non per niente l’aveva fondato Benito Mussolini.
Mussolini, un romagnolo, figlio del fabbro del paese, dopo aver fatto il maestro, il muratore, il barbone e chissà che altro, aveva risolto il problema di come mettere insieme il pranzo con la cena buttandosi in politica. Un fantastico oratore, era rapidamente diventato un caporione socialista, fino a diventare direttore dell’Avanti. Poi, nel 1914, era uscito (o era stato cacciato) dal partito, che non voleva la guerra mentre Mussolini la voleva: s’era messo con D’Annunzio e aveva fatto di tutto per far entrare nel conflitto l’Italia al fianco degli Alleati, generosamente finanziato da massoni e francesi.