Posts Tagged ‘Christopher Nolan’

Un cuore intelligente, appunti su critica e scrittura.

19 aprile 2017

di Demetrio Paolin

[Altri articoli sullo stesso argomento]

Scriptor, non doctor. Questa breve glossa di Benvenuto da Imola al verso 27 del canto X del Paradiso mi è venuta in mente leggendo i diversi contributi che, qui su vibrisse ma anche su altri siti e social network, sono apparsi dopo la pubblicazione dell’articolo di Gilda Policastro sull’eutanasia della critica e delle due recensioni della Marzano e di Trevi all’ultima fatica di Siti.

Quando nascono queste polemiche e discussioni, io ho un problema ovvero devo capire da dove parlo

La cosa più comoda in questo caso è definirmi: in che veste prendo la parola? (Lo so che è un problema tutto mio, ma secondo me è sempre necessario capire chi è che parla) Parlo da scrittore? Parlo da critico che collabora con alcune testate e giornali nazionali?  Scrittore/Critico. Una delle tensioni sottotraccia che mi è parso di ravvisare nelle diatribe di questi giorni è appunto l’eterna distinzione tra critico e scrittore.

Io mi sono guardato dentro, ho provato a osservare le cose che faccio ogni giorno, quando apro il pc e mi metto davanti a una pagina di word o davanti a un libro che leggo. Io faccio dei discorsi, dei ragionamenti in cui provo a dire come è il mondo, quale è la mia idea di bellezza, di giustizia di amore o di letteratura. In questo senso la divisione tra critico e scrittore è fuorviante: il critico è uno scrittore ovvero una persona che scrive immaginazioni, e che declina la sua particolare visione di mondo tramite una riflessione su testi altrui.

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Che cosa intendiamo per “complessità”?

17 aprile 2017

di Marco Terracciano

[Ricevo da Marco Terracciano, laureando in lettere moderne, e volentieri pubblico. Altri articoli sullo stesso argomento. gm].

«Come mai, era la domanda, si ritiene che il pubblico di massa sia in grado di decodificare film complessi quali di fatto sono i film di Nolan (Inception ma si potrebbe dire Interstellar o The prestige, allo stesso modo) etc. e invece in letteratura finanche ai libri che partono come non commerciali (come, per dire, i miei) si richiedono degli accorgimenti editoriali volti a facilitare la comprensione dei lettori?» [Gilda Policastro, in Facebook, in risposta alla riflessione di Edoardo Zambelli in vibrisse]

Credo ci si debba accordare sul concetto di complessità. Non è certamente inopportuno mettere a confronto opere che appartengono a due canali mediatici differenti, dal momento che pur sempre di narrazioni si parla: è, secondo me, fuorviante ritenere un film come Inception un’opera complessa. Non è tanto la forma del contenuto – prendo il prestito la terminologia del linguista Hjelmslev adottata da Francesco Orlando nella sua teoria freudiana della letteratura – a determinare la difficoltà della decodificazione; è piuttosto la forma dell’espressione ad alzare un muro, a sfidare la pazienza del fruitore dell’opera narrativa.

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Di cosa stiamo parlando esattamente? Di forme complicate o del perché le forme complicate non vendono, non sono comprese?

16 aprile 2017

Un fotogramma da “Melancholia” di Lars Von Trier

di Edoardo Zambelli

[Edoardo Zambelli mi ha scritto una lettera e mi ha autorizzato a pubblicarla. gm].

Ho letto la nuova discussione in vibrisse. C’è qualcosa che continua a non convincermi, ed è probabile che sia io a non aver afferrato il punto.
Non riesco a capire se si parla di complicazione/semplificazione di forme narrative (cui sembra alludere la Policastro quando parla della decodificazione di Inception e del suo Cella, per altro molto bello) o se si parla del perché si promuove di più una cosa che non un’altra (quindi la questione diventa, sostanzialmente, marketing).
Lo dico perché, a seconda della prospettiva, le risposte potrebbero essere differenti.

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Gilda Policastro: intervista su “Cella” / 3

5 novembre 2015

giuliomozzi intervista Gilda Policastro

[Poco più di un mese fa è apparso presso Marsilio – l’editore per il quale lavoro – il romanzo di Gilda Policastro Cella. Policastro ha pubblicato presso Fandango Il Farmaco (2010) e Sotto (2013). In vibrisse si può leggere il suo intervento nella serie La formazione della scrittrice. gm]. [La domanda precedente]

Veniamo dunque alle “virgolette fino all’ultima pagina invisibili”, come le chiamavo nella seconda domanda. Ricordo la prima lettura del dattiloscritto: leggevo, leggevo, e io, che ancora adesso che gioco a carte e bevo vino sono rimasto più o meno lo stesso lettore che ero quando a sei anni mi addentravo nei Misteri della jungla nera, prendevo tutto per oro colato. Mi rendevo conto che quella donna che parlava era una donna che delirava, senz’altro, o almeno una che non la contava giusta, o magari una che ci provava a montar su tutta una storia peraltro non abbastanza connessa da essere del tutto credibile; mi rendevo conto che alla storia, alle sue minuzie e alle sue improbabilità, non ero tenuto a credere fino in fondo: ma a quella voce di donna, ti dirò, ci credevo proprio. E invece, vlam!, all’ultima pagina, arrivo a scoprire, seppure con un po’ di dubbio, che quella voce di donna è tutta inventata, e addirittura, è inventata proprio da quell’uomo del quale la voce parla in continuazione, del quale dice le più terribili cose, che descrive come un mentitore totale. E sono rimasto di stucco, davvero. Non me l’aspettavo. Tu hai scritto ieri: “C’è stata la difficoltà di inoculare nel lettore il dubbio che a parlare fosse davvero una donna e quel tipo di donna: a quanto apprendo dalle reazioni dei primi lettori, è un dubbio che sorge immediatamente, ma c’è anche, a fugarlo, un’abitudine a considerare che nella finzione narrativa si diano possibilità non mimetiche, e dunque l’eventualità che una donna semicolta o non colta si possa esprimere in maniera quanto meno avvertita”; ma a me quel dubbio non mi è venuto per niente, finché tu nell’ultima pagina non mi hai spiattellato la verità. Oddio. Che cosa ho detto. Ho detto: tu. Ho detto: la verità. Ma insomma, non ci sono mica rimasto male. Tutt’altro. E’ il più grande dei miei piaceri, credere alle storie. Ma il piacere che viene subito dopo, nella classifica, è lo svelamento. Come quando avevo meno di sei anni, e mi raccontavano le storie di paura, e poi mi dicevano: “Ma non è mica vero, suvvia!”. E quindi quando ho riletto mi ci sono addentrato diversamente nel testo, e ho ancora goduto di non riuscire a venirne a capo: perché, allora, se quella voce di donna è finta, e finta da un personaggio, quel documento che c’è nel testo, il diario della terrorista, che cos’è? E’ finto anche quello? O è vero? Oddio, che cosa ho detto. Ci sono cascato di nuovo.

GildaPolicastro_CellaLuca Ricci ha accostato il procedimento che tu descrivi al sistema figurativo escheriano, in riferimento a Cella: non si capisce bene in effetti da quale verso e in quale senso vada intesa la prigionia e chi (ne) stia parlando, alla fine. E questo non per gusto del gioco degli specchi o delle moltiplicazioni dei punti di vista, ma perché la voce che racconta è una voce che prova a non avere un’identità definita nel senso del gender, proprio a partire dal fatto che invece riprende in modo esibito il cliché delle contrapposizioni donna-uomo, dentro-fuori, ratio-thumos. In particolare rispetto al dentro-fuori, che ci riporta alla metafora iniziale, quella tematizzata in tutto il romanzo, nell’ultima pagina la propensione domestica o la reclusione vera e propria della donna viene definita “euripidea”. E in effetti molti hanno ricondotto il mio personaggio (ma anche i precedenti, soprattutto rispetto al Farmaco) a una matrice classica: in questo caso Fedra, l’eroina innamorata del figliastro. Qui la vicenda col figliastro è una sorta di appendice (o di vicenda da romanzo di appendice, oggi diremmo fiction o serie tivù), però è vero che questa donna porta con sé una riflessione classica sui codici e i comportamenti legati al gender. Anche solo per smentirli, nell’ipotesi finale (che tale resta). Chiara Valerio nella prima presentazione del libro, a Pordenonelegge, si stupiva che da un’autrice, anzi due (insieme a me c’era Elisabetta Bucciarelli con La resistenza del maschio) potessero provenire dei personaggi femminili così anacronistici: nel mio caso una donna votata alla passività e all’attesa. Io “Cella”, la mia protagonista in realtà senza nome, non la vedo così perché nella sua attitudine monologante c’è una sorta di volontà di dominio, che è poi quella dello scrittore che t’incatena alla sua voce (in prima o in terza che sia) e ti molla solo all’ultima pagina, oltretutto non sempre incaricandosi di un inatteso finale.

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