Posts Tagged ‘Cesare Pavese’
6 luglio 2017

Un certo numero di Giulio Mozzi
di giuliomozzi
Un uomo ha un’intuizione. Comincia a scrivere un romanzo. Scrive con foga, quasi senza pensare, come se una voce gli dettasse da dentro. Ha la sensazione che ciò che sta scrivendo sia bello. Porta i primi capitoli a un suo professore. Il professore legge, è perplesso, fa due controlli, poi meravigliato dice: “Figliolo, ma tu hai semplicemente copiato il Don Chischiotte di Cervantes!”. L’uomo, che non ha mai letto il Don Chisciotte, resta sbalordito.
Questa è la storia, notissima, raccontata da Borges nel racconto intitolato appunto Pierre Menard, autore del “Chisciotte”. Ma non è importante la storia in sé, quanto uno dei possibili significati proposto da Borges: il Don Chisciotte scritto da Cervantes all’inizio del Seicento e quello scritto da Pierre Menard in pieno Novecento, per il solo fatto di essere scritti da autori diversi e in tempi diversi, benché identici parola per parola sono due libri completamente diversi. Il Don Chisciotte cervantino, per dire, non potrà che essere letto alla luce della cultura spagnola del Seicento; quello di Menard alla luce di quella francese del Novecento. Eccetera. Ma vi ho ingannati.
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25 febbraio 2016
di Ennio Bissolati
[Ennio Bissolati è un bibliofilo. Per vibrisse recensisce libri introvabili, dei quali sostiene di essere l’unico lettore. gm]
A volte gli editori si lasciano tentare dalla scrittura: così Giulio Einaudi, così Valentino Bompiani, così altri; e più spesso gli scrittori si lasciano tentare dall’editoria, e qui la lista sarebbe lunghissima: da Elio Vittorini a Vittorio Sereni, da Cesare Pavese a Italo Calvino, da Lorenzo Montano a Fruttero & Lucentini, eccetera, fino al recentemente scomparso Umberto Eco (dal 1959 al 1975 dipendente di Bompiani, e dipoi fino alla morte consulente): per un’informazione completa non posso che rinviarvi a questa vertiginosa lista, peraltro non aggiornatissima. Che dire dunque di Calogero Garlisi, universalmente noto come Lillo, fulcro gestionale di una pluralità di marchi editoriali (dal tecnico-professionale Novecento al “politico” Melampo, dal letterario Laurana all’elettissimo Versus destinato a palati giuridici), consulente aziendale di prestigio? Egli è popolarissimo in Facebook per una sua pregnante peculiarità: anziché, come tutti, farsi gli autoscatti (quelli che oggidì, orrendamente, sono chiamati selfie), Garlisi viaggia col fotografo appresso.
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Tag:Cesare Pavese, Elio Vittorini, Fruttero & Lucentini, Giulio Einaudi, Italo Calvino, Lillo Garlisi, Lorenzo Montano, Martin Heidegger, Thomas Bernhard, Umberto Eco, Valentino Bompiani, Vittorio Sereni, Voltaire
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3 dicembre 2014
di Giovanni Accardo
[Questo è il quinto articolo della rubrica La formazione dell’insegnante di Lettere, che si pubblica in vibrisse il mercoledì. Gli insegnanti che volessero partecipare possono scrivere al mio indirizzo, scrivendo nella riga dell’oggetto: “La formazione dell’insegnante di lettere”. Ringrazio Giovanni per la disponibilità. gm]
Sono cresciuto in un minuscolo paesino della provincia di Agrigento, Villafranca Sicula, dove non c’era né una libreria né una biblioteca. Nonostante i miei genitori fossero entrambi maestri elementari, per casa non giravano molti libri. Mia madre è stata per tanti anni insegnante di scuola materna, impegnata soprattutto a crescere me e mia sorella. Mio padre divideva il suo tempo libero tra il calcio e il poker, però aveva anche una grande passione per la politica, perciò non perdeva un telegiornale, sia a pranzo che a cena, e leggeva i giornali. Così, a tredici anni (nel frattempo in paese avevano aperto un’edicola), incominciai a leggere i giornali e ad interessarmi di politica: ricordo perfettamente i comizi per le elezioni regionali del 1975. Il mio futuro era stato già deciso: avrei fatto il medico, per diventare ricco ed essere rispettato in paese. Avrei studiato a Roma o in una città del Nord. Così aveva stabilito mio padre. Ho frequentato il liceo classico, ma di cultura classica ne ho respirata davvero poca, parte per colpa mia, parte per colpa degli insegnanti: freddi, distanti e autoritari. Della maggior parte di loro non ricordo neppure il nome. Della scuola, a dire il vero, non me ne importava molto, in testa avevo soprattutto le ragazze, la musica rock e la politica. In quarta ginnasio faticavo a parlare e scrivere in lingua italiana, la mia lingua madre era il dialetto siciliano, i miei compagni di gioco erano per lo più figli di pastori e di contadini. Al ginnasio, la gran parte dei miei compagni di classe, alcune ragazze in particolare, parlavano un buon italiano e mi mettevano soggezione. Avevo quattro nello scritto, ma mi tiravo su con l’orale, grazie all’ottima memoria e alla voglia di non sfigurare, nonostante la mia paralizzante timidezza. Di studiare, però, non m’importava nulla. Guardavo le ragazze e sognavo la mia prima esperienza sessuale. Alla fine dell’anno scolastico, la professoressa di lettere disse che non mi rimandava perché andavo bene nell’orale ed ero molto educato, però durante l’estate dovevo leggere e prenderla come abitudine, perché avevo pochissimo lessico e una fantasia limitata. Non mi disse né cosa leggere né dove prendere i libri. In paese l’unico che leggeva e che possedeva una biblioteca era il prete, andai a chiedere consiglio a lui. Mi fece abbonare al Club degli Editori, che ogni mese mi spediva un libro a casa. Ma l’unica cosa che continuava ad appassionarmi erano i giornali, leggevo “Paese Sera”, “La Repubblica”, “L’Espresso”, “Ciao 2001”. Al prete rubai due libri di Marcuse: L’uomo a una dimensione e L’autorità e la famiglia, che lessi l’ultimo anno di liceo e che mi furono utilissimi per il tema della maturità, soprattutto il primo, citato a piene mani. Ogni tanto mio padre portava un libro a casa, prestato da chissà chi, fu così che lessi Padre padrone di Gavino Ledda, Giovanni Leone: la carriera di un presidente di Camilla Cederna, Arcipelago Gulag di Solženicyn, Il giorno della civetta, Dalle parti degli infedeli e L’affaire Moro di Sciascia; di quest’ultimo ci capii davvero poco, nonostante avessi seguito il sequestro Moro sui giornali e alla televisione. Cosa cercavo in quei libri non saprei dirlo, forse la voglia di crescere. Invece so benissimo cosa cercavo nei libri della beat generation, la vera scoperta letteraria che segnò la mia adolescenza, grazie all’amicizia con un giovane del paese di dieci anni più grande di me e che era andato a vivere a Londra: la voglia di scappare. Quando lessi Sulla strada di Jack Kerouac, nell’estate del 1978 o del 1979, capii che da quel paese e dalla Sicilia dovevo andar via. Ci sarà poi un tragico avvenimento personale che nel 1980 confermerà e aumenterà questo desiderio di fuga.
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10 novembre 2014
di Enrico Macioci
[Questo è il ventiquattresimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice. Le due serie escono, ormai un po’ come viene viene, il lunedì e il giovedì. Ringrazio Enrico per la disponibilità. gm]
La mia formazione di scrittore si divide in quattro fasi piuttosto nette.
La prima fase va dai sette ai quattordici anni ed è forse la più importante, quella che ha indirizzato e condizionato il seguito nel bene e nel male. Una mattina di febbraio del 1983 nevicava forte. Frequentavo la seconda elementare, la mia classe affacciava su un vicolo che la bufera imbiancò in un amen. La maestra propose di scrivere una poesia sulla neve. Noi alunni ci guardammo perplessi; cos’era una poesia? La maestra ci diede un’ora di tempo o forse due, non ricordo; ciò che ricordo è che allo scadere un solo bambino aveva prodotto una cosiddetta poesia, e quel bambino ero io. Una filastrocca che però conteneva un seme di ritmo e di suono, e qualche timida metafora. Tornai a casa e raccontai l’accaduto consegnando il manoscritto; mio padre, sorpreso e inorgoglito, mi comperò un drago di plastica verde e giallo che conservo ancora. Da lì in avanti, e fino ai tredici anni, scrissi altre trentaquattro poesie più un numero enorme di racconti e romanzi, la maggior parte dei quali non terminati, stipati in decine di quaderni a righe e a quadretti. Leggevo moltissimo e assorbivo lo stile e i contenuti degli autori per poi scimmiottarli; divorai Emilio Salgari, Jules Verne, Francis Hodgson Burnett, Mark Twain, Robert Luis Stevenson ed Edgar Allan Poe; mi sciroppai Pinocchio qualche decina di volte (Pinocchio è un capolavoro della letteratura mondiale, non dimenticatelo mai, specie la scena notturna in cui il gatto e la volpe, avvolti in neri pastrani, braccano il burattino all’uscita dall’osteria del Gambero Rosso); attraversai la fase dell’avventura, quella dell’orrore, quella umoristica e persino quella calcistica (il mio nume tutelare era Gianni Brera). A ben riflettere la produzione in prosa fu sin da allora incomparabilmente più abbondante della produzione in poesia, ma era quest’ultima a suscitare interesse e curiosità. In alcune delle mie poesie c’era in effetti qualcosa di singolare, di troppo precoce, una specie di tristezza matura, un anticipo sui tempi; vinsi dei premi (i premi di poesia per bambini andrebbero aboliti e sostituiti con gare di calci di rigore, o di corsa a ostacoli o di freccette); cominciai a sentire puzza di bruciato. Possedevo un dono bizzarro che si manifestava improvviso e al di fuori del mio controllo, una sorta di lampo o illuminazione indipendente dalla mia volontà, troppo remoto anche per poterlo associare all’istinto; d’un tratto mi sedevo e scrivevo, come sotto dettatura. Questo dono mi regalava attimi brevi ma intensi di felicità – meglio: di rapimento e pienezza, di totale sintonia col mistero chiamato mondo; però allo stesso tempo mi separava dal mondo, dal mondo e dagli amici. Non era vero naturalmente, ma quando mai ciò che è vero ha contato un soldo bucato nelle nostre vite? Conta solo ciò che crediamo, e io credevo con fermezza che la poesia (non il racconto o il romanzo, si badi bene, solo la poesia) scavasse un fossato fra me e i miei coetanei, mi rendesse “diverso” (una parola dubbia e ambigua, una parola limacciosa, una parola che è una palude). In realtà gli amici e le amiche si limitavano a manifestare equanimità, stupore o addirittura ammirazione quando s’imbattevano nei miei versi, ma il mio astio verso il “dono” divenne via via più inflessibile. Da un certo punto in avanti non volli che si parlasse delle mie poesie e ne proibii la circolazione; se qualche parente diffondeva la voce del poeta m’arrabbiavo; staccai dal muro un diploma di merito e lo nascosi sotto il letto, dietro le scatole delle scarpe, nel regno della polvere e dell’oblio; infine, sei giorni dopo aver compiuto quattordici anni, buttai giù l’ultima poesia da bambino e decisi che non avrei più scritto. Fu una risoluzione netta, fredda e consapevole, non certo un capriccio. Ci diedi un taglio con l’affilata lama della vergogna intinta nel veleno del senso di colpa. Non scrissi (e non lessi) più nulla per i successivi tredici anni.
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27 ottobre 2014
di Sandro Campani
[Questo è il ventunesimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice (che per qualche settimana sarà sospesa, mentre le “formazioni” degli scrittori usciranno sia il giovedì sia il lunedì). Ringrazio Sandro per la disponibilità. gm]
Sono cresciuto in un paesino sull’appennino emiliano, in Val Dragone: l’ultima valle del modenese a Ovest, poi c’è il Dolo e diventa provincia di Reggio. Mia madre era di lì, mio padre del reggiano. D’estate il paese raddoppiava la sua popolazione, con i villeggianti (che su chiamavamo i berligianti, cioè i calpestanti), ma d’inverno eri sempre da solo: nella mia classe delle elementari, la più numerosa, eravamo in sei (in quinta per esempio erano in due, e facevano lezione insieme a noi). Le strade per scendere a Sassuolo, a Modena o a Reggio, allora erano scomode e lunghissime, e andare giù era un avvenimento raro. Per cui, crescevi isolato, sempre nei boschi e nei campi, spostandoti in bici per chilometri in salita, e gli amici che avevi erano dati, non c’era tanto da scegliere. Io avevo Davide, con cui facevo tutto: giocare a pallone, andare in bicicletta e andare a funghi. Quando avevo cinque anni è nato il mio primo fratello, e siamo venuti su insieme.
A differenza di come poi sarebbe diventato lui, e poi anche l’altro mio fratello, il terzogenito, io ero un bambino un po’ imbranato nei lavori. Vangavo se c’era da vangare, ammucchiavo il fieno o aiutavo a potare, seguivo mio padre a far legna, mescolavo il cemento e gli passavo i sassi se c’era da murare, gli passavo il metro e le viti se faceva qualche mobile, ma sempre con una mancanza di convinzione, di realtà, di aderenza alle cose, direi, che mi faceva sentire sbagliato. Ero privo di quella sicurezza nei gesti e nel contatto con gli oggetti che avrebbe dovuto far di me un uomo normale. A Natale (mio nonno era mezzadro giù a Scandiano, allora, poi sarebbe risalito a Carpineti) si parlava sempre di trattori, e io continuavo a non capirne niente, refrattario, proprio, e provavo un fastidio bruciante per la mia inadeguatezza. Guardare le bestie, tutte quante, mi piaceva tantissimo, ma anche lì da esteta, non con gli occhi di uno che avrebbe saputo come trattarle.
Hai il desiderio di muoverti dentro il mondo vero in cui si vive e si maneggiano gli oggetti con costrutto, e invece ti sembra di poterlo soltanto guardare, e parlarne, perché lo osservi irrimediabilmente dal di fuori: questa dissociazione è una cosa da cui temo non scapperò mai finché campo.
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8 settembre 2014
di Anna Maria Bonfiglio
[Questo è il trentunesimo articolo della serie La formazione della scrittrice (esce il lunedì), alla quale si è da tempo affiancata la serie La formazione dello scrittore (esce il giovedì). Ringrazio Anna Maria per la disponibilità. gm].
Adolescente, avevo una sola certezza: “essere” scrittrice. La difficoltà era costituita dal fatto che non avevo nessuna idea di quali strumenti fossero necessari per arrivare ad esserlo. A scuola andavo bene, il primo tema che svolsi all’Istituto Santa Caterina aveva preso nove ed era circolato per tutte le classi, tuttavia la professoressa Rinaldi mi aveva segnato in blu tutti gli aggettivi in eccesso e mi aveva consigliato di cancellarne quelli inutili dopo che avessi terminato la scrittura di un qualunque testo, foss’anche una lettera privata. Un avvertimento che non ho mai dimenticato e che tengo sempre a mente quando scrivo. La scrittura mi seduceva come una sirena, la lettura mi ammaliava.
Leggevo ciò che capitava: libri, riviste, il vocabolario, l’Enciclopedia Rizzoli-Larousse, i fascicoli del Milione, enciclopedia geografica a dispense, persino i giornali con i quali il verduraio avvolgeva gli ortaggi. Lettura compulsiva e disordinata, in cui era assente ogni concetto di metodologia. Dalla biografia di Hemingway al Dottor Živago, da L’amante di Lady Chatterley alla Certosa di Parma. E tanta poesia: Neruda, Pavese, Lorca, i libri erano come le matrioske, da ognuno ne veniva fuori un altro.
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Tag:Boris Pasternak, Cesare Pavese, David Herbert Lawrence, Federico García Lorca, Lucio Zinna, Pablo Neruda, Stendhal
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24 luglio 2014
di Marco Candida
[Questo è il decimo articolo della serie La formazione dello scrittore, che appare in vibrisse il giovedì (ed è parallela a quella La formazione della scrittrice, che appare invece il lunedì). Ringrazio Marco per la disponibilità. Con questo articolo la rubrica va in vacanza: riprenderà giovedì 4 settembre con il contributo di Raul Montanari. gm]
Ho scritto il primo romanzo a dodici anni. 1990. Quell’anno passavano in televisione la serie televisiva Twin Peaks. Avevo visto La Casa Russia con Sean Connery e Michelle Pfeiffer. A scuola leggevamo in classe Zanna Bianca di Jack London e avevo trovato presso le bancarelle in Piazza Duomo a Tortona Martin Eden e Il richiamo della foresta nell’edizione cartonata e molto voluminosa dei Fratelli Melita. Il richiamo della foresta è stato un grande libro, ma Martin Eden è stato un libro che ha rappresentato per me, come per molti altri, un caposaldo. Casa Russia. Twin Peaks. Martin Eden. Ricordo d’essermi seduto per la prima volta alla scrivania nella mia stanza soprattutto con le suggestioni e le atmosfere date da queste storie nella testa – come non rimanere suggestionati dalla colonna sonora composta da Angelo Badalamenti per la serie televisiva girata da David Lynch? E’ venuto fuori un romanzo lunghissimo scritto in sei mesi con tre diversi tipi di penne (una penna biro blu, una Bic nera e poi un bavoso tratto pen) in un quadernetto con la copertina rigida (che recava l’immagine della maglietta della Juventus con qualche adesivo acquistato in un negozio sottocasa dal nome Chewing-gum, vera e propria oasi di colori, plastica e gomma nel grigiore paludoso, di pietra e di stucco, della mia città natale) con fogli a spirale a quadretti e poi a righe. Ora che lo riguardo mi accorgo come nel quaderno i caratteri della grafia diventino sempre più piccoli man mano che la narrazione procede. Più il romanzo si scioglie e diventa solo una storia e non il tentativo di un ragazzo di scrivere, di fare lo scrittore e più la grafia si rimpicciolisce, cosa che forse suggerisce una forma di pudore: nelle parti dove non stavo facendo lo scrittore, ero soltanto me stesso con una penna e dei fogli e questo mi procurava imbarazzo, e scrivevo piccolo per rendere quello scritto accessibile solo a me, comprensibile solo ai miei occhi e a nessun altro sguardo occasionale – mi figuravo i miei genitori curiosare tra le mie cose e poi me li figuravo leggerle agli Elemento o ai Taverna o a Piero e Assunta. Ciò che è davvero interessante del quadernetto si trova nella prima pagina. C’è una griglia con un calcolo approssimativo del numero di parole all’interno del romanzo. Se non ricordo male era un discorso letto per la prima volta proprio presso Jack London. Tenere conto del numero di parole in uno scritto. Mi stupisce ora pensare che un ragazzino di dodici anni si appassionasse a dettagli come calcolare il numero di parole dei suoi romanzi perché è una questione molto molto tecnica – e nemmeno particolarmente praticata presso i più affermati scrittori nostrani. Di qua avevamo un ragazzo che aveva attaccato il suo romanzo con la descrizione del canto del gallo, delle foglie nella rugiada, l’alba e di là lo stesso ragazzo vedeva tutte quelle cose con sguardo aritmetico, considerava ogni emozione e palpito dato dalla prosa come quantità.
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21 luglio 2014
di Emilia Bersabea Cirillo
[Questo è il ventottesimo articolo della serie La formazione della scrittrice (esce il lunedì), alla quale si è ora affiancata la serie La formazione dello scrittore (esce il giovedì). Ringrazio Emilia per la disponibilità. gm].
Ho sempre letto moltissimo, con la curiosità e l’accanimento di chi cerca un aiuto ai sogni. Di solito compravo i libri attratta dal titolo e dalla copertina. Ma soprattutto leggevo nella biblioteca dei ragazzi, giornate intere con la testa e il cuore nelle storie di altri. Arrivavo alle dieci del mattino e restavo a leggere fino all’una. Avevo una lista di autori: Brontë, Alcott, Colette, Dickens, Barrie, a questi si aggiunsero Harper Lee con il suo Il buio oltre la siepe, la Capanna dello zio Tom, Pattini d’argento, la Piccola sconosciuta di H. V. Gebhard, Davy Crockett di E.L. Meadowcroft, Polyanna, e poi, man mano alcune poesie di Pascoli e Il vecchio e il mare di Hemingway.
Fu allora, nell’adolescenza, che cominciai a scrivere. Mi sembrava un’arte così preziosa, che volevo provare anche io. Ma chi non comincia a scrivere nell’adolescenza. Ho ancora conservate alcune cose, scritte su un quaderno a quadretti, che non ho più riletto. Scrivevo storielline e mi dannavo: un po’ perché non venivano come io volevo, un po’ perché mi sentivo, proprio perché scrivevo, diversa dagli altri. Ho cominciato a scrivere con maggior fiducia in me stessa dopo aver letto Piccole donne ed essermi innamorata di Jo March. Anche questo, credo sia stata una febbre comune a tante donne. Solo che a me questa febbre non è più passata e ho imparato a conviverci, facendola diventare una parte di me necessaria e importante. Scrivevo raccontini d’amore, verso i quindici anni, un po’ scialbi, un po’ prevedibili. Ho letto molto allora. I libri più significativi sono stati Gita al faro di V. Woolf, Riflessioni su Christa T. di C. Wolf, La luna e i falò di C. Pavese e i racconti di K. Mansfield.
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Tag:Anna Maria Ortese, Antonio Delfini, Cesare Pavese, Charles Dickens, Christa Wolf, Colette, E.L. Meadowcroft, Emily Brontë, Flannery O' Connor, Gianni Celati, H. V. Gebhard, Harper Lee, James Matthew Barrie, Katherine Mansfield, Louisa May Alcott, Natalia Ginzburg, Silvio D'Arzo, Virginia Woolf, William Faulkner
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19 giugno 2014
di Demetrio Paolin
[Questo è il quinto articolo della serie La formazione dello scrittore, che appare in vibrisse il giovedì (ed è parallela a quella La formazione della scrittrice, che appare invece il lunedì). Ringrazio Demetrio per la disponibilità. gm]
Da dove inizio? Dal mio paese, in cui ho vissuto per 25 anni. Il mio paese non ha una libreria che sia una, né una biblioteca comunale. Quindi mi pare strano ora essere qui a raccontare a voi la mia formazione di scrittore. Eppure mi sembra che tutto trovi ragione in quell’assenza di libri, che ha fatto nascere in me qualcosa come un bisogno. Ovvio che il mio è un ragionamento ex post, per fare chiarezza su un movimento della mia psiche di allora (ovvero di un preadolescente con una leggera balbuzie e un difetto di pronuncia nella “s”) che percepisco ancora come oscuro.
Nella mia casa non c’erano libri. Io, infatti, non provengo da una famiglia di lettori. Non ho ricordi del tipo: “Quando avevo otto anni entrai nello studio di mio padre e presi di soppiatto il primo libro, erano i racconti dei pirati di Salgari”. Io ho una diversa storia: a casa mia c’era una Bibbia. È stata quella la mia prima lettura. Le pagine della Bibbia sono state per me, prima che un testo sacro, un libro di storie bellissime e di narrazioni avvincenti. Penso alla storia di Saul o a quella di Davide, penso all’impressione che ne ebbi leggendo la vicenda dei Maccabei, oppure di come mi stupii nel leggere Qoelet, o i profeti. Il turbamento di riconoscermi in Geremia. Ci ho messo un po’ a leggerla tutta, dal “Bershit” [“In principio”] iniziale al “Maranathà” [“Vieni, Signore”] della fine, eppure credo che niente di quello che ho scritto dopo, al di là del suo valore, possa essere compreso senza capire che la mia fantasia e la mia immaginazione non si sono nutrite dei miti greci e romani, che non ho formato la mia idea di mondo avendo come riferimento Achille e Ettore, Patroclo e Ulisse ma Mosè, Esaù, Isaia, Salomone.
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Tag:Bibbia, Carlo Ossola, Cesare Pavese, Francesco Petrarca, Franco Ventura, Giorgio Barberi Squarotti, Guido Gozzano, Marziano Guglielminetti
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2 giugno 2014
di Claudia Priano
[Questo è il ventunesimo articolo della serie La formazione della scrittrice (esce il lunedì), alla quale si è ora affiancata la serie La formazione dello scrittore (esce il giovedì). Ringrazio Claudia per la disponibilità. gm].
Scrivo per necessità. Scrivo perché la parola scritta è stata per me un modo importante per capire e per esprimere quello che sentivo, vedevo e leggevo nella realtà, questo in sintesi, molto in sintesi.
Ero da bambina una timida speciale, patologicamente timida. Non mi andava di parlare, soprattutto non mi riusciva, se mi rivolgevano una domanda mi facevo rossa, balbettavo. Spesso ero silenziosa e malinconica, e ciò infastidiva i miei familiari, li metteva in imbarazzo, rispondi alla signora, mi dicevano, ma io muta non cedevo, ritenevo che mi rivolgessero domande alle quali non sapevo dare una risposta, gli adulti lo fanno spesso, mentre spesso i bambini si aspettano di sentirsi fare domande opportune e non del tutto idiote. Ti piace la scuola?, li mangi gli spinaci?, fai la brava? Avrei dovuto rispondere mentendo, e allora me ne stavo zitta, è fatta così, è tanto timida, ma è brava, si scusava mia madre.
Quel ma è brava mi infastidiva, mi faceva salire una rabbia al punto tale che avrei voluto farglielo rimangiare in qualche modo, ma non sapevo come. Non c’era modo di spiegarglielo, perché non trovavo le parole, le cercavo ma mi si asciugavano in gola, sulla lingua giungevano secche, polverizzate, sputavo quel che rimaneva in ritardo, nel momento sbagliato, quando avevano perso di significato.
Non so se sia per via del concetto di tempo che non mi era chiaro, ma fatto sta che dentro di me regnava una lentezza, ero sempre in ritardo ogni volta che dovevo spiegare, parlare, chiedere.
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Tag:Alberto Moravia, Anne Brontë, Cesare Pavese, Charlotte Brontë, Elsa Morante, Emily Brontë, Emily Dickinson, Flannery O' Connor, Harper Lee, Jane Austen, Laura Bosio, Mark Twain, Mary Alcott, Natalia Ginzburg, Pier Paolo Pasolini, Rainer Maria Rilke, Sherwood Anderson, William Faulkner, William Shakespeare
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29 Maggio 2014
di Mario Benedetti
[Questo è il secondo articolo della serie La formazione dello scrittore (parallela a quella La formazione della scrittrice), che apparirà in vibrisse il giovedì. Ringrazio Mario per la disponibilità. L’ospite della prossima settimana sarà Tullio Avoledo. gm]
Dove sono nato? In un capoluogo di provincia, Udine. Poi sono vissuto in un paese della pedemontana tra Cividale e San Daniele del Friuli. Lì quasi tutte le strade erano non asfaltate e senza fognatura. Dalle frazioni di montagna giungevano i bambini per andare alle Elementari e avevano il passo di chi sa unicamente arrampicarsi o scivolare, con il corpo che perde peso. Erano strani e stavano per conto loro. Ricordo che da un ragazzo universitario, fatto eccezionale, di quelle borgate dopo qualche anno avevo ricevuto un libro per metà illustrato, il romanzo La nausea di Sartre ma non so quale edizione fosse. I cortili che davano sulle vie avevano orti con anatre, galline, letame. C’era una segheria, la pesa pubblica, boscaioli, contadini. Come nel romanzo I ragazzi della via Pal. Da qualche casa uscivano i lamenti di un anziano, di un coetaneo, e di loro si parlava a bassa voce. Non so se ricordo prima Ferenc Molnár o Cesare Pavese: qualche poesia di Lavorare stanca che raccontava della vita di paese. Bei temi in quinta elementare, mi diceva la maestra, uno sulle screpolature che avevano i palmi delle mani di mio padre, e poi la lettura di un racconto commovente di David Maria Turoldo, le prose brevi di Ivan Turgenev e le lettere della Povera gente di Dostoevskij. Certo, Delitto e castigo, anche questo fornito di illustrazioni. Nessuna fiaba. Ricordo alcuni disegni di Alfred Kubin e il passare pomeriggi a rifare le poesie di scuola: Pascoli, Leopardi. Maldestre imitazioni.
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Tag:Alfred Kubin, Cesare Pavese, Clemente Rebora, David Maria Turoldo, Fëdor Dostoevskij, Ferenc Molnár, Franco Volpi, Giacomo Leopardi, Giovanni Pascoli, Giuseppe Ungaretti, Ivan Turgenev, Jean-Paul Sartre, Lorenzo Renzi, Milo De Angelis, Noam Chomsky, Octave Mannoni, Silvio Ramat, William Labov
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5 Maggio 2014
di Rosaria Lo Russo
[Questo è il diciassettesimo articolo di una serie che spero lunga e interessante. Ringrazio Rosaria per la disponibilità. Chi volesse proporsi, mi scriva mettendo nell’oggetto le parole “La formazione della scrittrice”. gm]
Dieci anni
Annusare la carta, sfiorarla con le dita, strusciare la pagina contro una guancia. Pagine ingiallite e sottilissime, un libro grosso, la copertina rossa. Le Mille e una notte a casa di mio nonno nella campagna toscana e i lunghi pomeriggi solitari di una bambina che amava molto leggere favole e poesie, e a casa di mio nonno c’erano anche molti libri di poesia. Nonno leggimene una. Nonno leggimene una. Ma soprattutto nonno Renato aveva un cofanetto, color porpora e ricami dorati, contenente una selezione del Reader’s Digest della più grande poesia italiana, dai siciliani a Montale, accompagnati da 45 giri in cui questi testi lapidari erano declamati dai grandi attori all’antica italiana, Gassman, Foà, Edmonda Aldini… Il cofanetto Le pagine d’oro della poesia italiana è un cimelio polveroso che sta sullo scaffale più basso nella parte della mia libreria dedicata interamente alla poesia, come un grande rettangolo genitoriale. I vinili a 78 giri ivi riposano in pace ma nescit vox missa reverti citando Ovidio. E la musica lirica. Mio nonno era un melomane straordinariamente appassionato. A casa sua ho conosciuto da bambina tanti cantanti lirici e lui spesso mi portava con sé all’opera. Ancora il ricordo di un grande sonno, un sonno cullato e interrotto dalle versioni filologiche di Riccardo Muti al Comunale di Firenze, sei ore di Guglielmo Tell di Rossini. Un sonno beato dal canto e turbato dal canto: croce e delizia. E poi i Quindici, i due volumi, quello con la costa rosa e quello con la costa viola, solo quelli sempre quelli. Il loro odore fortissimo. Avevo dieci anni e il 21 giugno era il compleanno di mia madre. La famiglia andò a pranzo da La Beppa, un ristorante famoso allora a Firenze, sui Viali dei Colli, ombreggiato dal tigli. L’odore dei tigli era fortissimo, il pranzo era stato buonissimo. Tornata a casa ero piena di sensi buoni e questi diventarono una poesia niente affatto ingenua. Una poesia dedicata a mia madre, nella sonnolenza meridiana di un primo giorno d’estate pieno di sensi buoni. Mamma, mi leggi una favola? Anzi, me ne racconti una? La poesia nasceva come risultato dei sensi appagati. Ascoltare, annusare, assaporare. Ma il mio nome calabrese, imposto dalla nonna paterna, non piaceva alla mia mamma fiorentina, che aveva dovuto accettare Rosaria per evitare Concettina, il nome di mia nonna (l’insopportabile suocera perennemente a lutto). Rosaria per Rosarina, Rina, la primogenita di mia nonna Concettina, morta a dieci anni per una malformazione cardiaca congenita. La foto del suo piccolo viso ingoiato dalle occhiaie nere e dal baschetto dei capelli neri incombeva consumandosi di anno in anno, ingiallendo, sparendo: io ero nata perché lei fosse ancora. Io non ero io, ero lei, morta a dieci anni. Il mio primo libro, L’estro, lo ha scritto lei, una bambina di dieci anni, una bambina morta che cantava arie d’opera.
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24 marzo 2014
di Adriana Libretti
[Questo è l’undicesimo articolo di una serie che spero lunga e interessante. Ringrazio Adriana per la disponibilità. Chi volesse proporsi, mi scriva mettendo nell’oggetto le parole “La formazione della scrittrice”. La prossima settimana tocca a Valeria Parrella, gm]
La mia prima scrittura non l’ho scritta. L’ho dettata a mamma perché ancora non sapevo scrivere. La poesia in questione conteneva un errore indispensabile alla rima; la cosa mi fu fatta notare, ma la licenza poetica mi venne subito concessa con tanto di sorriso.
Rugiada che brilli al sole
che parli al fiore
che dici al mio cuore?
L’ascolto commossa, lei dice:
“Tu sì sei felice
io no, non son felice
perché il sole m’assorbisce
e la mia vita è breve
finisce.
Poi ho subito smesso, credo per giocare con gli altri bambini della scuola materna: ero già innamorata del più monello della classe e l’amore mi avrebbe sottratto alla scrittura per molti anni, eccetto forse gli sfoghi sui diari di scuola su cui non rimaneva mai abbastanza spazio per annotare i compiti. C’erano le poesie struggenti, le parole per le canzoni di cui era autore, per la parte musicale, mio cugino. Fu lui la causa prima dei miei tumultuosi innamoramenti a catena; mi presentò i suoi amici durante le medie e da lì in avanti passai da un uragano amoroso all’altro. Sopravvisse, forse, un’esile forma di ricerca espressiva in qualche tema; ricordo che alcuni di essi vennero lodati in classe; fui costretta a leggerli pubblicamente, mi tremava la voce. Era limpida e ferma però quando cantavo, cosa che mi veniva richiesta spesso dai parenti. Ero intonata come la mamma cantante. Conosco a memoria le parole di moltissime canzoni italiane, da quelle dell’immediato dopoguerra a quelle degli anni ottanta. Della famiglia materna facevano parte un chitarrista e un contrabbassista che ‘provavano’ chiusi nel bagno di casa della nonna e suonavano in giro per il mondo, oltre a mamma che faceva serate e incideva sui primi vinili. Dopo la sua prematura morte mi è capitato di scrivere testi per lo zio contrabbassista, che è anche compositore. L’estenuante ricerca di parole che meglio si accordassero a frasi musicali non mie divenne, ad un certo punto, quasi una sindrome ossessivo compulsiva. Lo zio mi telefonava in continuazione e neanche parlava più, se non per dire: “ho cambiato un passaggio”, quindi cantava e ricantava: ne uscii stremata ma felice. Musica e parole, parole e musica: per me era questo il paradiso in terra. Grazie al professore di lettere del ginnasio avevo coltivato la passione per Petrarca, Manzoni, Carducci, Leopardi, ma i poeti più letti, ascoltati e interpretati sarebbero rimasti a lungo De André, Mogol, Dalla, De Gregori, Fossati.
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17 marzo 2014
di Chandra Livia Candiani
[Questo è il decimo articolo di una serie che spero lunga e interessante. Ringrazio Chandra Livia per la disponibilità. Chi volesse proporsi, mi scriva mettendo nell’oggetto le parole “La formazione della scrittrice”. gm]
A scuola ero un asino. Facevo fatica a capire un po’ tutto. Soprattutto i numeri, per esempio che avessero un nome, perché sapevo che tre e due fa qualcosa ma il nome cinque non sempre saltava fuori. Molte lettere poi le avevo imparate al contrario, perché il mio primo maestro involontario era stato mio fratello. Lui studiava seduto alla scrivania, io mi piazzavo di fronte a lui appollaiata su uno sgabello, con davanti foglio e matita e ogni tanto gli chiedevo: “Che lettera è questa?” E lui, distratto: “A”. E io la disegnavo, diligentemente, al contrario. Così sembravo scema a scuola. Non sapevo spiegare il perché, tutto qua.
Prima di andare a scuola, attorno ai cinque anni, c’è stata la faccenda di Pascoli. Sempre Max, mio fratello, studiava una poesia a memoria, diceva e ridiceva parole strane, sonore ma che creavano in corridoio delle immagini: rondini, nidi, bambole al petto, cavalline, stelle. Camminando lungo quel brutto e anche un po’ cattivo corridoio, le parole mi colpirono alla schiena, mi immobilizzai e le ricevetti, correvano le immagini un po’ di qua e un po’ di là e io mi dissi solo: “Da grande scriverò in quella lingua.” Finito, non ci pensai più. Ma continuavo a vedere. Chi parlava, chi raccontava, erano tutti circondati da immagini viventi e io restavo stupefatta che facessero finta di niente. Ricordo cosa successe quando mio padre gridò, per fortuna all’aperto, “Porca Madonna!” Apparve una Madonna tradizionale in veste bianca e manto azzurro, ma col viso di porco. Ero terrorizzata dallo spiazzamento. Esperienze incollocabili, come è spesso stato il resto della vita.
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6 febbraio 2014
di Demetrio Paolin
[esce oggi nelle librerie un mio piccolo saggio dal titolo Non fate troppi pettegolezzi (LiberAria). Il libro è una sorta di escursione nei testi di quattro autori a me molto cari (Salgari, Pavese, Levi e Lucentini) e nella città dove loro hanno vissuto (Torino). Oggi alla Feltrinelli di Torino, piazza CLN, alle 18 lo presenterò insieme a Alessandro Perissinotto. Di seguito l’incipit del capitolo su Primo Levi. dp]
Sono a Berlino. Nelle stanze del Museo Ebraico non c’è nessuno. Sono sceso nel piano interrato, tutto è nero e bianco. Cammino per un corridoio detto “dell’Olocausto”. Sono vestito leggero, una camicia e un paio di pantaloni. Arrivo alla fine di questo lungo camminamento e trovo una porta. Spingo il maniglione rosso e sono ai piedi di una torre. È buia e fredda. Il pavimento è di terra battuta. Non c’è luce se non da una fessura posta in alto: indovino il cielo grigio carico di neve. La porta dietro di me si chiude, fa un tonfo che riecheggia per l’altezza, che pare infinita, della torre. Il freddo mi assale di colpo, mi aggredisce come i cani di una muta; la paura diventa qualcosa di concreto e antico; è come se il mio corpo ricordasse. Non è una memoria recente, bensì qualcosa che è inscritto nella mia carne, nelle cellule del mio corpo, è qualcosa di primitivo. È la paura assoluta, quella che provarono i miei antenati nel buio della caverna; è quella che provò Adamo dopo che ebbe mangiato la mela. La paura viene dal freddo e il freddo viene dal male, che ci fa sentire nudi.
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28 settembre 2011
di Demetrio Paolin
In questi giorni ho finito di leggere Piccolo testamento (Laurana, 2011) di Gabriele Dadati e La luce prima (Isbn, 2011) di Emanuele Tonon. Le note che stendo sono sotto forma d’appunti perché se ho ben chiaro cosa voglio dire – ovvero che questi due libri sono definiti e presentati come “romanzi”, ma romanzi non sono – non ho ben chiaro come argomentare tutto questo.
L’impressione che non siano romanzi è dovuta a come i testi si impongono nel procedere della lettura. Pur essendo libri che raccontano un lutto a brillare dalle pagine è proprio l’assenza della persona morta. Nel caso di Piccolo testamento Vittorio, il maestro che muore, non è altro che una presenza fantasmatica. E’ un vero e proprio fantasma, così lo definisce l’io narrante, che va a sommarsi agli altri fantasmi delle donne amate/usate. In La luce prima la madre, a cui è dedicato il canto d’amore del figlio, non ha mai una presenza reale nella scena, ma rimane annunciata, vista di lato. Al massimo ne riemergono dalle pagine le tracce: il profumo, la crema per le mani o il pigiama.
Al centro di questi libri, in realtà, c’è l’io e non un Io qualsiasi, ma l’Io di uno scrivente, di una persona che per lavoro, per vocazione ha a che fare con le parole. La riflessione quindi non è tanto sull’altro, sulla persona che scompare, ma su chi resta e su chi resta e sul come la racconta.
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Tag:Cesare Pavese, Emaneule Tonon, Franz Kafka, Gabriele Dadati, Giuseppe Genna
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