Posts Tagged ‘Carmelo Bene’

La coscienza increata di “Ulysses”

12 Maggio 2015

di Marco Candida

Incontrare per la milionesima volta
la realtà dell’esperienza
e forgiare nella fucina della mia anima
la coscienza increata della mia razza
(Gente di Dublino)

Intro

Alcune annotazioni in seguito alla lettura dell’Ulisse di Joyce. L’edizione è quella dei Tascabili Mondadori. Traduzione Giulio de Angelis. Nella quarta di copertina c’è scritto: “Un uomo a spasso per Dublino dalle 8 alle 2 di notte del 16 giugno 1904: le sue azioni, i pensieri, le azioni e i pensieri della città, delle cose, della gente che incontra, di Stephen Dedalus…”. Le azioni e i pensieri delle cose? No, l’Ulisse non arriva a tanto… Ma quasi.

Birra

L’Ulysses si apre con questo paragrafo:

Solenne e paffuto Buck Mulligan comparve dall’alto delle scale, portando un bacile di schiuma su cui erano posati in croce uno specchio e un rasoio. Una vestaglia gialla, discinta, gli levitava delicatamente dietro, al soffio della mite aria mattutina. Levò alto il bacile e intonò:
“Introibo ad altare Dei”

E’ interessante soffermarsi, in quest’incipit, sul particolare del “bacile di schiuma”. Il bacile viene JamesJoyceStatue2anche levato in alto e offerto a Dio. E’ possibile che Joyce abbia voluto servirsi dell’immagine del “bacile di schiuma” come succedaneo alla birra?
La birra è un liquido sacro nell’Ulysses. A pag. 306 leggiamo:

Una bella cotta, s’era preso, in una gargotta di Bride Street dopo l’ora di chiusura, brancicava due sciupate col magnaccia che stava di guardia e beveva birra in tazze da tè.

Addirittura la birra è degna d’essere versata in pregiate tazze da tè! E ancora a pagina 404:

Da quattro minuti circa teneva gli occhi fissi su un certo quantitativo di birra Bass numero uno imbottigliata da Bass e Co di Burton-on-Trent che si trovava situata in mezzo a un gran numero di analoghe bottiglie esattamente difronte a dove egli stava e che erano certamente intese ad attirare l’altrui attenzione a cagione del loro aspetto scarlatto.

La birra torna, nell’Ulysses, e viene sempre presentata e descritta sotto una luce aurea, sacrale, è un nettare divino.
Come mai Joyce dava così tanta importanza al luppolo? Forse solo perché gli piaceva? Oppure è un elemento simbolico? Non potrebbe essere che tanto l’Ulysses quanto il Finnegans Wake rappresentino la schiuma alfabetica dei fatti? Quanta minor birra versi nel bicchiere, quanto più velocemente lo fai, tanto maggiormente otterrai schiuma.

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La formazione dell’insegnante di Lettere, 7 / Luca Tedoldi

17 dicembre 2014

di Luca Tedoldi

[Questo è il settimo articolo della rubrica La formazione dell’insegnante di Lettere, che si pubblica in vibrisse il mercoledì. Gli insegnanti che volessero partecipare possono scrivere al mio indirizzo, scrivendo nella riga dell’oggetto: “La formazione dell’insegnante di lettere”. Ringrazio Luca per la disponibilità. gm]

luca_tedoldiUna formazione si dice in molti modi. Liceo classico, odiato e amato: belle le lezioni di Italiano, non tutte quelle di Filosofia, pochissimo tutto il resto. Al classico, ma che dico, a Giovanni Valle che venne a farci il corso, devo soprattutto l’amore per il teatro, un’arte che è insieme parola, voce, gesto, letteratura, musica, pittura, ginnastica. Primo anno d’università a Lettere, esami di Letteratura italiana e Storia moderna. Dopo il galleggiamento disanimato del liceo arrivano i primi trenta; ringalluzzito mi metto a studiare davvero ed ogni esame diventa il pretesto di dibattiti infiniti con amici e compagni di facoltà, tanto più che dal secondo anno faccio il passaggio a Filosofia. Alla fine di quelle discussioni non c’era alcun voto, nessuno pensò di riconoscerci un titolo, ma sono state tra le esperienze più formative mai vissute. Peccato per chi, laureato abilitato masterizzato, non ne ha goduto. Molto più utili dei monologhi frontali della Silsis, frequentata sia per Lettere che per Scienze umane (quattro anni di maledizioni), ma meno del tirocinio fatto a scuola (nella trincea della contrapposizione sapere-potere contra diritto all’ignoranza), a vedere quali errori non ripetere. Di primo istinto, dopo aver assistito a tanti, non intenzionali, atti di vandalismo culturale senza poter intervenire, è facile cadere nella forma imperativa e non chiedere, ma pretendere, che chi osi parlare da una cattedra debba fare questo e quello, respingere quell’altro e non dimenticarsi quest’altro ancora. Ad esempio evitare monologhi di un’ora nel silenzio pericoloso dell’aula, decodifiche del testo poetico in cui per quindici minuti si passano in rassegna tutte le versioni di un termine latino nelle lingue romanze, o sette citazioni di testi differenti in sette minuti. Insomma, rigettare come la peste l’autorefenzialità. L’alunno abbagliato accerta la competenza del docente e contemporaneamente nessuna fioritura d’idee o nozioni avviene nella sua mente, aratro senza buoi / che pare dimenticato.

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La formazione della scrittrice, 23 / Elisabetta Bucciarelli

16 giugno 2014

di Elisabetta Bucciarelli

[Questo è il ventitreesimo articolo della serie La formazione della scrittrice (esce il lunedì), alla quale si è da poco affiancata la serie La formazione dello scrittore (esce il giovedì). Ringrazio Elisabetta per la disponibilità. La prossima ospite sarà Simona Vinci. gm].

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Erano i racconti di mia nonna, di paese marchigiano, spiritismo e magia, che mi catturavano più di ogni altra cosa. Mi ricordo che ascoltavo mentre lavava i piatti e intanto pensavo che avrei dovuto scriverli per non perderli, per non perdere lei più che le sue parole, ma non l’ho mai fatto.
Per questo succede che ogni incontro di persona importante, “lo scrivo”, lo imprigiono nelle mie parole e lo rendo mio per sempre sulla carta. Così resta, rimane con me.

Nei temi raccontavo storie. I miei venivano convocati per sapere se fossero vere. Non lo erano quasi mai. La mia fortuna è che non mi hanno mai fatto sentire diversa o bugiarda, la mia fortuna è che potevo permettermi di essere quello che ero perché sembravo altro.

A casa giravano tanti libri, ma la formazione di autrice è passata piuttosto dall’ascolto, dalle parole dette, dai contrasti, dalle azioni, dalle negazioni. Le parole lette arrivano dopo, almeno nella memoria.
Erano i libri di psicologia di mia madre che mi attiravano, i volumi degli esistenzialisti francesi, di Sartre, Camus e soprattutto, di Simone de Beauvoir. Alle medie non erano previsti, ne parlavo con gli adulti, soprattutto quelli che non avevano parole adatte a parlare con i bambini.

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La formazione della scrittrice, 13 / Antonella Bukovaz

7 aprile 2014

di Antonella Bukovaz

[Questo è il tredicesimo articolo di una serie che spero lunga e interessante. Ringrazio Antonella per la disponibilità. Chi volesse proporsi, mi scriva mettendo nell’oggetto le parole “La formazione della scrittrice”. La prossima volta tocca a Sara Loffredi. gm]

Antonella_BukovazRicordo una gita, sarà stato nel 1983 o forse nell’ ’84…
Avevo appena ricominciato a studiare. Gli anni delle Magistrali avevano lasciato un buco intorno al quale frano ancora adesso. Una parente mi indirizzò a un ufficio nel quale, dietro una scrivania ingombra di libri e davanti a un quadro coloratissimo, grande, con forme che nascevano le une dalle altre senza soluzione di continuità, sedeva Pavel Petričič. Mi mostrò due libri uguali. Due libretti sottili che narravano la leggenda della Kraljica Vida illustrati da disegni in bianco e nero. Mi chiese di leggere. A fatica lessi, in dialetto sloveno senza conoscerne la grafia, la prima pagina di uno dei libretti. Con il secondo non mi riuscì. Era la versione in lingua letteraria slovena, della stessa leggenda che alla difficoltà dei grafemi a me sconosciuti univa un lessico altrettanto sconosciuto. Lui mi sorrise, di un sorriso che prometteva una cura per ogni mio smottamento. Mi offrì di rimettermi a studiare e di prepararmi per un grande progetto: la nascita di una scuola bilingue, italiano/sloveno, che per modello didattico sarebbe stata, ed è, unica nel suo genere in Italia. Ma di questo volevo scrivere dopo o forse anche no. Volevo invece cominciare con la gita. Avevo appena iniziato lo studio dello sloveno, lo capivo e parlavo poco. Il recupero della parlata dialettale era però già avviato. Del mio percorso di studio facevano parte le gite d’istruzione che per me erano vere e proprie esplorazioni nel paesaggio e nella cultura slovena. Indelebile nella memoria quella che mi portò a stare seduta su un pavimento di legno nero in una stanza buia. Le pareti, anch’esse nere. Ma forse tenevo solo gli occhi chiusi. Un filo di musica. Una registrazione. Le poesie di Srečko Kosovel che si materializzavano dal nero. Si infilavano sotto di me e mi tenevano sollevata. Era in atto una meraviglia. Da quella casa atterrai stordita. Cercai di mantenere quello stato di stupore il più a lungo possibile. Non avevo mai letto poesia. Cercai Kosovel. Poi, a lungo, più nulla.

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Canto notturno

9 marzo 2011

Il quadro di Frank Ignizio viene da qui.