Posts Tagged ‘Beppe Fenoglio’
Fulvia a Milton (Lettere delle eroine, 36: ultima)
10 settembre 2016Leggere (e rileggere) Mario Pomilio oggi, nei frammenti di un’amicizia
28 ottobre 2015di Donatella Trotta
[continua il “convegno online” dedicato a Mario Pomilio].
Il 4 agosto 1953, Mario Pomilio trentaduenne scriveva da Avezzano (L’Aquila) all’amico Michele Prisco, con il quale era iniziato – il 9 ottobre 1950 – un corposo carteggio che si sarebbe ben presto declinato, da un’iniziale e rispettosa colleganza, in salda, affettuosa, fedele (e reciproca) amicizia quarantennale, letteraria e umana, fondamento esistenziale e professionale, per entrambi, oltre che singolare coincidenza di destini incrociati e spunto, oggi particolarmente utile, per un esercizio postumo di “memoria attiva”:[…] Non so come ringraziarti. Voglio però cogliere l’occasione per esprimerti per iscritto la mia riconoscenza: a voce non ne sono stato capace. La tua amicizia, la tua cordialità, il tuo incoraggiamento hanno avuto su di me un effetto veramente benefico. Per sfiducia nelle mie forze avevo ormai abbandonato da tempo ogni velleità letteraria e mi ero messo a un lavoro di critica senza soddisfazione e senza meta, solo pel puntiglio di fare qualche cosa, di non dirmi veramente vinto. Ma sarebbe difficile descriverti quanto scoramento e quanto malcontento c’era dietro quel puntiglio. Non è un caso che alla stessa poesia io abbia messo mano solo dopo averti rivisto. Avevo sempre sentito il bisogno di un amico col quale consigliarmi, dal quale farmi guidare e che, pur segnalandomi gli errori, mi indicasse le mie possibilità, mi aiutasse a chiarire me stesso. Perciò la mia riconoscenza è di quelle che non possono esprimersi a parole.
Questo passo inedito risulta, a mio avviso, particolarmente significativo per ri-avviare una riflessione, oggi, su Mario Pomilio: non tanto (o non soltanto) sul piano meramente privato, per le illuminanti tonalità, vorrei dire intime, con cui lo schivo e riservato autore abruzzese manifesta ad esempio con estrema chiarezza la sua fedeltà al sentimento del primato degli affetti, e al valore della lealtà e dell’amicizia, ben sintetizzato in un celebre passo del Commento di Giovanni Crisostomo alla Lettera ai Tessalonicesi: “Un amico fedele è un balsamo nella vita, è la più sicura protezione. Queste parole hanno senso solo per chi ha un vero amico; per chi, pur incontrandolo tutti i giorni, non ne avrebbe mai abbastanza”. Non solo. Confidando a Michele, di un anno più grande, il proprio travaglio interiore legato a precise stagioni biografiche (dall’impegno nella ricerca e nell’insegnamento, dopo la laurea in Lettere alla Normale di Pisa, attraverso il fecondo biennio di “sradicamento” europeo, vissuto con borse di studio tra le università di Parigi e Bruxelles dal 1950 al 1952, fino all’iniziale attività poetica, dispiegata tra il 1948 e la fine degli anni ’50 prima del precisarsi della sua vocazione di narratore e critico “militante” anche nel lavoro di giornalista), nella sua lettera autografa Pomilio dissemina, infatti, pure preziosi “indizi” subliminali utili a una prospettiva paratestuale (ma anche peritestuale ed epitestuale) quale quella del mio presente – e inevitabilmente sommario, in questa sede – contributo di testimonianza. E lo fa proprio alla vigilia del suo esordio narrativo con il romanzo L’uccello nella cupola, scritto tra maggio e giugno del 1953, pubblicato nel 1954 e dedicato appunto a Michele Prisco che in effetti ne incoraggiò l’uscita, seguendo l’opera sin dal suo concepimento e stesura capitolo per capitolo, poi sostenendola presso Bompiani e anche dopo, attraverso una rete di recensori e di segnalazioni (anche a Corrado Alvaro, membro della giuria letteraria del Premio Marzotto, che il romanzo di Pomilio infine vinse, segnalandosi così anche al grande pubblico).
Giacomo Verri, “Racconti partigiani”
23 aprile 2015di Demetrio Paolin
Il racconto proemiale dell’ultima fatica di Giacomo Verri (Racconti partigiani, Edizioni Biblioteca dell’immagine) ha per titolo “Festa per la liberazione”: una sorta di monologo in cui un partigiano si rivolge alla propria nipote nel momento in cui sente la proprie forze venir meno (“forse i pensieri che io credo dettati dalla ragione sono solo i capricci di un corpo e di una mente, come i miei, che vanno alla malora”) e passa il testimone della sua esistenza di lotta (lo dovrai dire tu, […], ma ai tuoi bimbi). Questo esemplifica, anche, il nucleo estetico e etico dell’opera di Verri: una riflessione inesausta sui temi legati alla guerra partigiana e alla sua rappresentazione. Già nell’opera prima, Partigiano inverno (Nutrimenti), l’autore aveva messo in scena una riscrittura efficace di quel periodo e già allora mi aveva colpito il suo tentativo di scrivere quella storia come se ne fosse stato protagonista. Racconti partigiani riprende in questo senso il discorso che il testo d’esordio aveva iniziato e lo porta a una più matura conclusione.
La formazione dello scrittore, 24 / Enrico Macioci
10 novembre 2014[Questo è il ventiquattresimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice. Le due serie escono, ormai un po’ come viene viene, il lunedì e il giovedì. Ringrazio Enrico per la disponibilità. gm]
La mia formazione di scrittore si divide in quattro fasi piuttosto nette.
La prima fase va dai sette ai quattordici anni ed è forse la più importante, quella che ha indirizzato e condizionato il seguito nel bene e nel male. Una mattina di febbraio del 1983 nevicava forte. Frequentavo la seconda elementare, la mia classe affacciava su un vicolo che la bufera imbiancò in un amen. La maestra propose di scrivere una poesia sulla neve. Noi alunni ci guardammo perplessi; cos’era una poesia? La maestra ci diede un’ora di tempo o forse due, non ricordo; ciò che ricordo è che allo scadere un solo bambino aveva prodotto una cosiddetta poesia, e quel bambino ero io. Una filastrocca che però conteneva un seme di ritmo e di suono, e qualche timida metafora. Tornai a casa e raccontai l’accaduto consegnando il manoscritto; mio padre, sorpreso e inorgoglito, mi comperò un drago di plastica verde e giallo che conservo ancora. Da lì in avanti, e fino ai tredici anni, scrissi altre trentaquattro poesie più un numero enorme di racconti e romanzi, la maggior parte dei quali non terminati, stipati in decine di quaderni a righe e a quadretti. Leggevo moltissimo e assorbivo lo stile e i contenuti degli autori per poi scimmiottarli; divorai Emilio Salgari, Jules Verne, Francis Hodgson Burnett, Mark Twain, Robert Luis Stevenson ed Edgar Allan Poe; mi sciroppai Pinocchio qualche decina di volte (Pinocchio è un capolavoro della letteratura mondiale, non dimenticatelo mai, specie la scena notturna in cui il gatto e la volpe, avvolti in neri pastrani, braccano il burattino all’uscita dall’osteria del Gambero Rosso); attraversai la fase dell’avventura, quella dell’orrore, quella umoristica e persino quella calcistica (il mio nume tutelare era Gianni Brera). A ben riflettere la produzione in prosa fu sin da allora incomparabilmente più abbondante della produzione in poesia, ma era quest’ultima a suscitare interesse e curiosità. In alcune delle mie poesie c’era in effetti qualcosa di singolare, di troppo precoce, una specie di tristezza matura, un anticipo sui tempi; vinsi dei premi (i premi di poesia per bambini andrebbero aboliti e sostituiti con gare di calci di rigore, o di corsa a ostacoli o di freccette); cominciai a sentire puzza di bruciato. Possedevo un dono bizzarro che si manifestava improvviso e al di fuori del mio controllo, una sorta di lampo o illuminazione indipendente dalla mia volontà, troppo remoto anche per poterlo associare all’istinto; d’un tratto mi sedevo e scrivevo, come sotto dettatura. Questo dono mi regalava attimi brevi ma intensi di felicità – meglio: di rapimento e pienezza, di totale sintonia col mistero chiamato mondo; però allo stesso tempo mi separava dal mondo, dal mondo e dagli amici. Non era vero naturalmente, ma quando mai ciò che è vero ha contato un soldo bucato nelle nostre vite? Conta solo ciò che crediamo, e io credevo con fermezza che la poesia (non il racconto o il romanzo, si badi bene, solo la poesia) scavasse un fossato fra me e i miei coetanei, mi rendesse “diverso” (una parola dubbia e ambigua, una parola limacciosa, una parola che è una palude). In realtà gli amici e le amiche si limitavano a manifestare equanimità, stupore o addirittura ammirazione quando s’imbattevano nei miei versi, ma il mio astio verso il “dono” divenne via via più inflessibile. Da un certo punto in avanti non volli che si parlasse delle mie poesie e ne proibii la circolazione; se qualche parente diffondeva la voce del poeta m’arrabbiavo; staccai dal muro un diploma di merito e lo nascosi sotto il letto, dietro le scatole delle scarpe, nel regno della polvere e dell’oblio; infine, sei giorni dopo aver compiuto quattordici anni, buttai giù l’ultima poesia da bambino e decisi che non avrei più scritto. Fu una risoluzione netta, fredda e consapevole, non certo un capriccio. Ci diedi un taglio con l’affilata lama della vergogna intinta nel veleno del senso di colpa. Non scrissi (e non lessi) più nulla per i successivi tredici anni.
La formazione dello scrittore, 21 / Sandro Campani
27 ottobre 2014[Questo è il ventunesimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice (che per qualche settimana sarà sospesa, mentre le “formazioni” degli scrittori usciranno sia il giovedì sia il lunedì). Ringrazio Sandro per la disponibilità. gm]
Sono cresciuto in un paesino sull’appennino emiliano, in Val Dragone: l’ultima valle del modenese a Ovest, poi c’è il Dolo e diventa provincia di Reggio. Mia madre era di lì, mio padre del reggiano. D’estate il paese raddoppiava la sua popolazione, con i villeggianti (che su chiamavamo i berligianti, cioè i calpestanti), ma d’inverno eri sempre da solo: nella mia classe delle elementari, la più numerosa, eravamo in sei (in quinta per esempio erano in due, e facevano lezione insieme a noi). Le strade per scendere a Sassuolo, a Modena o a Reggio, allora erano scomode e lunghissime, e andare giù era un avvenimento raro. Per cui, crescevi isolato, sempre nei boschi e nei campi, spostandoti in bici per chilometri in salita, e gli amici che avevi erano dati, non c’era tanto da scegliere. Io avevo Davide, con cui facevo tutto: giocare a pallone, andare in bicicletta e andare a funghi. Quando avevo cinque anni è nato il mio primo fratello, e siamo venuti su insieme.
A differenza di come poi sarebbe diventato lui, e poi anche l’altro mio fratello, il terzogenito, io ero un bambino un po’ imbranato nei lavori. Vangavo se c’era da vangare, ammucchiavo il fieno o aiutavo a potare, seguivo mio padre a far legna, mescolavo il cemento e gli passavo i sassi se c’era da murare, gli passavo il metro e le viti se faceva qualche mobile, ma sempre con una mancanza di convinzione, di realtà, di aderenza alle cose, direi, che mi faceva sentire sbagliato. Ero privo di quella sicurezza nei gesti e nel contatto con gli oggetti che avrebbe dovuto far di me un uomo normale. A Natale (mio nonno era mezzadro giù a Scandiano, allora, poi sarebbe risalito a Carpineti) si parlava sempre di trattori, e io continuavo a non capirne niente, refrattario, proprio, e provavo un fastidio bruciante per la mia inadeguatezza. Guardare le bestie, tutte quante, mi piaceva tantissimo, ma anche lì da esteta, non con gli occhi di uno che avrebbe saputo come trattarle.
Hai il desiderio di muoverti dentro il mondo vero in cui si vive e si maneggiano gli oggetti con costrutto, e invece ti sembra di poterlo soltanto guardare, e parlarne, perché lo osservi irrimediabilmente dal di fuori: questa dissociazione è una cosa da cui temo non scapperò mai finché campo.