di Benedetto Croce
Joseph Warren Beach, Tecnica del romanzo novecentesco, Milano, Bompiani, 1948 (pp. 536).
Sempre che mi accade di udire o leggere la parola «tecnica» nei giudizi sulla poesia e la letteratura, sono non solo offeso da una improprietà linguistica, ma messo in sospetto di gravi confusioni e di erronee conseguenze nella critica. La parola «tecnica» ha senso solo nella produzione di oggetti e fatti pratici, nella manipolazione, come si dice, delle cose naturali ai nostri fini di utilità. E chi l’adopera fuori di questo campo, facilmente finisce a credere che anche le opere che appartengono all’ispirazione e al gusto si possano ottenere con le regole e col calcolo; credenza che è riapparsa testé nelle teorie della sciagurata «poesia pura». Beach, nell’adoperare quella parola per il «romanzo», non si avvede di alcuna difficoltà, ma anche non ci dà nessuno schiarimento sull’uso adottato. Si restringe a dire: «il libro vuol essere uno studio dell’evoluzione tecnica del romanzo»; «la tecnica non è che un mezzo inteso a realizzare l’intenzione artistica», e simili (p. 9); e più oltre mette insieme due parole che si escludono, «arte » e «rneccanicità », accennando a quella che si potrebbe chiamare la »rneccanicita dell’arte» (p. 11). Ma, passando alla storia che egli prende a narrare del romanzo, e della sua. grande rivoluzione nel corso dell’ottocento, si vede che in essa non si tratta punto di un preteso «cangiamento di tecnica», ma né più né meno che della sostituzione dell’ideale del romanzo, quale era prevalentemente coltivato nel settecento e nel primo ottocento, filosofico, morale e variamente polemico, con quello del romanzo, che attenda unicamente a «narrare» e allo «studio concreto della natura umana»), includendo non solo la narrazione realistica ma quella «romantica e idealistica» e sia pure di «fantasia» e di «poesia» (p. 74): cioè, per dire il fatto con la parola propria, col romanzo inteso non più come esemplificazione di una didascalica ed oratoria, o come semplice racconto di avventure, ma come opera di poesia. In tutto ciò la tecnica non ci ha che vedere; il romanzo didascalico ed oratorio non aveva una tecnica inferiore o diversa da quello artistico, ma differiva dall’altro perché aveva un’anima diversa; e con quell’anirna sopravvive, se anche ora di vita attuale più rara o aspettante un nuovo tempo propizio. Il Beach, che conosce le vicende del romanzo dal sette al novecento, designa quello che si maturò a mezzo dell’ottocento come «un genere letterario a sé, diverso al possibile nella costruzione dal saggio filosofico e dalla cronica storica coi quali ai suoi inizii era tanto strettamente legato», e altresì non più, come soleva, un prodotto miscellaneo per passatempo, ma di «un unico argomento, dato da una situazione drammatica, sviluppato logicamente, senza interruzioni e senza interferenze, fino alla inevitabile conclusione» (p. 287). Egli chiama questa idea del romanzo il «romanzo ben fatto», nel che affiora irresistibilmente una qualche ironia contro volontà dell’autore. Donde l’irresistibile ironia? Dall’idea del «genere letterario», che è estranea alla vita effettiva dell’arte: di che il Beach non si rende conto. Ma una nuova crisi (egli dice) si è aperta, negli ultimi trent’anni, di reazione contro il «romanzo ben fatto». Or, che cosa sarà essa? Nuova poesia che si aggiunge alla precedente? Ma, in cotesto riguardo, non si potrebbe parlare di «reazione », sì invece, semplicemente di prosecuzione in una sicura via ormai aperta. Il Beach discorre a lungo dei rappresentanti di questa reazione: I realisti, come il Dreiser, gli impressionisti, come il Conrad e il Lawrence, gl’immaginisti, come la Doroty Richardson, i postimpressionisti come il Joyce, coloro che «fanno il taglio nel senso della larghezza» come il Wassermann, i composizionisti astratti, come il Dos Passos e il Döblin, e poi il Gide, e l’Huxley, e via dicendo. Confesso che sono rimasto alquanto deluso per non avere bene appreso dalle sue parole quale nuova idea di rorrianzo (nel dilemma romanzo di pensiero e romanzo di poesia) la reazione o nuova rivoluzione apporti; né, a dir vero, egli è riuscito a farmi gustare quelli degli scrittori da lui esaminati che io finora non avevo saputo gustare; forse per mia colpa, rna non senza il dubbio che in tutto quel moltiplicarsi di formule e di indirizzi e di scuole si celi l’impotenza a percorrere l’unica via della poesia, che è bensì liberissima, ma richiede, condizione indispensabile, la serietà dell’ispirazione e il genio. Il libro del Beach è certamente istruttivo; ma mi è parso di notare che egli, nel discorrere dei singoli scnittori, invece di abbandonarsi alle impressioni che .la lettura delle opere suscita e su queste fondare il giudizio, si lasci dominare dalle «regole del genere» (sarà, in fondo, questa vecchia conoscenza dei «generi», e delle loro «regole» ciò che egli idoleggia come tecnica?), quasi che in questo sia l’essenziale dell’arte. Ma il lettore, che anela la poesia, per una pagina bella, per un carattere vivo, per un tratto felice, dimentica sempre volentieri le «regole del genere».
«Quaderni della Critica diretti da B. Croce», novembre 1948, n. 12.
Fonte.