Posts Tagged ‘Anna Maria Ortese’

Leggere (e rileggere) Mario Pomilio oggi, nei frammenti di un’amicizia

28 ottobre 2015

di Donatella Trotta

[continua il “convegno online” dedicato a Mario Pomilio].

Mario Pomilio

Mario Pomilio

Il 4 agosto 1953, Mario Pomilio trentaduenne scriveva da Avezzano (L’Aquila) all’amico Michele Prisco, con il quale era iniziato – il 9 ottobre 1950 – un corposo carteggio che si sarebbe ben presto declinato, da un’iniziale e rispettosa colleganza, in salda, affettuosa, fedele (e reciproca) amicizia quarantennale, letteraria e umana, fondamento esistenziale e professionale, per entrambi, oltre che singolare coincidenza di destini incrociati e spunto, oggi particolarmente utile, per un esercizio postumo di “memoria attiva”:

[…] Non so come ringraziarti. Voglio però cogliere l’occasione per esprimerti per iscritto la mia riconoscenza: a voce non ne sono stato capace. La tua amicizia, la tua cordialità, il tuo incoraggiamento hanno avuto su di me un effetto veramente benefico. Per sfiducia nelle mie forze avevo ormai abbandonato da tempo ogni velleità letteraria e mi ero messo a un lavoro di critica senza soddisfazione e senza meta, solo pel puntiglio di fare qualche cosa, di non dirmi veramente vinto. Ma sarebbe difficile descriverti quanto scoramento e quanto malcontento c’era dietro quel puntiglio. Non è un caso che alla stessa poesia io abbia messo mano solo dopo averti rivisto. Avevo sempre sentito il bisogno di un amico col quale consigliarmi, dal quale farmi guidare e che, pur segnalandomi gli errori, mi indicasse le mie possibilità, mi aiutasse a chiarire me stesso. Perciò la mia riconoscenza è di quelle che non possono esprimersi a parole.

Questo passo inedito risulta, a mio avviso, particolarmente significativo per ri-avviare una riflessione, oggi, su Mario Pomilio: non tanto (o non soltanto) sul piano meramente privato, per le illuminanti tonalità, vorrei dire intime, con cui lo schivo e riservato autore abruzzese manifesta ad esempio con estrema chiarezza la sua fedeltà al sentimento del primato degli affetti, e al valore della lealtà e dell’amicizia, ben sintetizzato in un celebre passo del Commento di Giovanni Crisostomo alla Lettera ai Tessalonicesi: “Un amico fedele è un balsamo nella vita, è la più sicura protezione. Queste parole hanno senso solo per chi ha un vero amico; per chi, pur incontrandolo tutti i giorni, non ne avrebbe mai abbastanza”. Non solo. Confidando a Michele, di un anno più grande, il proprio travaglio interiore legato a precise stagioni biografiche (dall’impegno nella ricerca e nell’insegnamento, dopo la laurea in Lettere alla Normale di Pisa, attraverso il fecondo biennio di “sradicamento” europeo, vissuto con borse di studio tra le università di Parigi e Bruxelles dal 1950 al 1952, fino all’iniziale attività poetica, dispiegata tra il 1948 e la fine degli anni ’50 prima del precisarsi della sua vocazione di narratore e critico “militante” anche nel lavoro di giornalista), nella sua lettera autografa Pomilio dissemina, infatti, pure preziosi “indizi” subliminali utili a una prospettiva paratestuale (ma anche peritestuale ed epitestuale) quale quella del mio presente – e inevitabilmente sommario, in questa sede – contributo di testimonianza. E lo fa proprio alla vigilia del suo esordio narrativo con il romanzo L’uccello nella cupola, scritto tra maggio e giugno del 1953, pubblicato nel 1954 e dedicato appunto a Michele Prisco che in effetti ne incoraggiò l’uscita, seguendo l’opera sin dal suo concepimento e stesura capitolo per capitolo, poi sostenendola presso Bompiani e anche dopo, attraverso una rete di recensori e di segnalazioni (anche a Corrado Alvaro, membro della giuria letteraria del Premio Marzotto, che il romanzo di Pomilio infine vinse, segnalandosi così anche al grande pubblico).

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La formazione della scrittrice, 28 / Emilia Bersabea Cirillo

21 luglio 2014

di Emilia Bersabea Cirillo

[Questo è il ventottesimo articolo della serie La formazione della scrittrice (esce il lunedì), alla quale si è ora affiancata la serie La formazione dello scrittore (esce il giovedì). Ringrazio Emilia per la disponibilità. gm].

Emilia Bersabea CirilloHo sempre letto moltissimo, con la curiosità e l’accanimento di chi cerca un aiuto ai sogni. Di solito compravo i libri attratta dal titolo e dalla copertina. Ma soprattutto leggevo nella biblioteca dei ragazzi, giornate intere con la testa e il cuore nelle storie di altri. Arrivavo alle dieci del mattino e restavo a leggere fino all’una. Avevo una lista di autori: Brontë, Alcott, Colette, Dickens, Barrie, a questi si aggiunsero Harper Lee con il suo Il buio oltre la siepe, la Capanna dello zio Tom, Pattini d’argento, la Piccola sconosciuta di H. V. Gebhard, Davy Crockett di E.L. Meadowcroft, Polyanna, e poi, man mano alcune poesie di Pascoli e Il vecchio e il mare di Hemingway.
Fu allora, nell’adolescenza, che cominciai a scrivere. Mi sembrava un’arte così preziosa, che volevo provare anche io. Ma chi non comincia a scrivere nell’adolescenza. Ho ancora conservate alcune cose, scritte su un quaderno a quadretti, che non ho più riletto. Scrivevo storielline e mi dannavo: un po’ perché non venivano come io volevo, un po’ perché mi sentivo, proprio perché scrivevo, diversa dagli altri. Ho cominciato a scrivere con maggior fiducia in me stessa dopo aver letto Piccole donne ed essermi innamorata di Jo March. Anche questo, credo sia stata una febbre comune a tante donne. Solo che a me questa febbre non è più passata e ho imparato a conviverci, facendola diventare una parte di me necessaria e importante. Scrivevo raccontini d’amore, verso i quindici anni, un po’ scialbi, un po’ prevedibili. Ho letto molto allora. I libri più significativi sono stati Gita al faro di V. Woolf, Riflessioni su Christa T. di C. Wolf, La luna e i falò di C. Pavese e i racconti di K. Mansfield.

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La formazione dello scrittore, 1 / Valerio Magrelli

22 Maggio 2014

Ritorno e ricordo: al mio liceo

di Valerio Magrelli

[Questo è il primo articolo della serie La formazione dello scrittore (parallela a quella La formazione della scrittrice), che apparirà in vibrisse il giovedì. Ringrazio Valerio per la disponibilità. Il prossimo ospite sarà Mario Benedetti. gm]

valerio_magrelliPer anni ho frequentato il “Liceo Statale Sperimentale”. La mia formazione e quella dei miei compagni si svolse tutta nel segno di un ossimoro simile a quello che in Messico è affidato al “Partito Rivoluzionario Istituzionale”. Studiavamo la devastazione. I nostri compiti a casa riguardavano Pollock e Beckett, Cage e Joyce. Afasia, dislessia, sabotaggio, erano già materie d’esame. Insomma, l’avanguardia era la tradizione. In breve ci trovammo a rovesciare, nostro malgrado, il motto di Mallarmé. Se il poeta francese esclamava: “La distruzione fu la mia Beatrice”, noi, miti cavie del laboratorio post-moderno, mormoravamo: “La distruzione è la nostra Perpetua”. Più che una musa, infatti, la distruzione ci appariva come una vecchia Tata, rassicurante e burbera. Naturalmente, il primo mio saggio fu una monografia sul Dada.

Il rischio, però, è di finire dal Cabaret Voltaire di Tzara, al Bagaglino di Pippo Franco (riferimento a uno sciagurato spettacolo dell’epoca, poi trasformato in programma televisivo): un luogo dove applaudono solo gli sprovveduti. Per spiegarmi, vorrei accennare a una mia particolare idiosincrasia, vale a dire il fastidio, si badi bane, non contro la Merda d’artista di Piero Manzoni, bensì contro il tipo di ricezione dimostrato nei suoi riguardi. Un lavoro del genere, al pari della pisciata di Carmelo Bene contro il pubblico in sala, poteva fare un effetto scandaloso su chi ignorava l’Orinatoio, ideato da Duchamp nel 1916 e con ben altre implicazioni teoriche. Questa provocazione in differita di mezzo secolo, poteva scandalizzare l’italietta del neorealismo o di qualche cittadina pugliese, ma per il resto andava e va considerata nient’altro che un’elegante chiosa, un omaggio, un d’après, se proprio non vogliamo parlare di plagio.

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La formazione della scrittrice, 11 / Adriana Libretti

24 marzo 2014

di Adriana Libretti

[Questo è l’undicesimo articolo di una serie che spero lunga e interessante. Ringrazio Adriana per la disponibilità. Chi volesse proporsi, mi scriva mettendo nell’oggetto le parole “La formazione della scrittrice”. La prossima settimana tocca a Valeria Parrella, gm]

adriana_librettiLa mia prima scrittura non l’ho scritta. L’ho dettata a mamma perché ancora non sapevo scrivere. La poesia in questione conteneva un errore indispensabile alla rima; la cosa mi fu fatta notare, ma la licenza poetica mi venne subito concessa con tanto di sorriso.

Rugiada che brilli al sole
che parli al fiore
che dici al mio cuore?
L’ascolto commossa, lei dice:
“Tu sì sei felice
io no, non son felice
perché il sole m’assorbisce
e la mia vita è breve
finisce.

Poi ho subito smesso, credo per giocare con gli altri bambini della scuola materna: ero già innamorata del più monello della classe e l’amore mi avrebbe sottratto alla scrittura per molti anni, eccetto forse gli sfoghi sui diari di scuola su cui non rimaneva mai abbastanza spazio per annotare i compiti. C’erano le poesie struggenti, le parole per le canzoni di cui era autore, per la parte musicale, mio cugino. Fu lui la causa prima dei miei tumultuosi innamoramenti a catena; mi presentò i suoi amici durante le medie e da lì in avanti passai da un uragano amoroso all’altro. Sopravvisse, forse, un’esile forma di ricerca espressiva in qualche tema; ricordo che alcuni di essi vennero lodati in classe; fui costretta a leggerli pubblicamente, mi tremava la voce. Era limpida e ferma però quando cantavo, cosa che mi veniva richiesta spesso dai parenti. Ero intonata come la mamma cantante. Conosco a memoria le parole di moltissime canzoni italiane, da quelle dell’immediato dopoguerra a quelle degli anni ottanta. Della famiglia materna facevano parte un chitarrista e un contrabbassista che ‘provavano’ chiusi nel bagno di casa della nonna e suonavano in giro per il mondo, oltre a mamma che faceva serate e incideva sui primi vinili. Dopo la sua prematura morte mi è capitato di scrivere testi per lo zio contrabbassista, che è anche compositore. L’estenuante ricerca di parole che meglio si accordassero a frasi musicali non mie divenne, ad un certo punto, quasi una sindrome ossessivo compulsiva. Lo zio mi telefonava in continuazione e neanche parlava più, se non per dire: “ho cambiato un passaggio”, quindi cantava e ricantava: ne uscii stremata ma felice. Musica e parole, parole e musica: per me era questo il paradiso in terra. Grazie al professore di lettere del ginnasio avevo coltivato la passione per Petrarca, Manzoni, Carducci, Leopardi, ma i poeti più letti, ascoltati e interpretati sarebbero rimasti a lungo De André, Mogol, Dalla, De Gregori, Fossati.

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