Posts Tagged ‘Andrea Cortellessa’

“Raccontare il paesaggio”. Un laboratorio di scrittura ad Amelia (Terni)

29 gennaio 2018

Clicca su Amelia per leggere il programma del laboratorio

Il laboratorio Raccontare il paesaggio, organizzato dalla Bottega di narrazione, si svolgerà ad Amelia, in provincia di Terni, dal 14 al 21 luglio 2018. Sarà condotto da Fiammetta Palpati e da Giulio Mozzi. I docenti ospiti saranno il critico letterario Andrea Cortellessa, la fotografa Sabrina Ragucci, lo scrittore Giorgio Falco. Il programma del laboratorio e tutte le informazioni si trovano nel blog dedicato Raccontare il paesaggio. Il termine ultimo per iscriversi è il 31 marzo.

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“L’unico scrittore che Mozzi abbia deciso di nascondere è lui stesso”

22 luglio 2017
Andrea Cortellessa

Andrea Cortellessa

di Andrea Cortellessa

[Questo articolo di Andrea Cortellessa, che ringrazio, è apparso oggi in Tuttolibri, supplemento del quotidiano La Stampa]. [Il medesimo articolo, in una versione un po’ più lunga, è poi uscito in Le parole e le cose].

Cos’hanno in comune Laura Pugno e Vitaliano Trevisan, Giorgio Falco e Franco Arminio? A parte la statura di scrittori niente, si direbbe, o quasi. Il loro link d’origine è un altro scrittore che, in quanto tale, poco parrebbe avere a che fare con tutti loro. Questo scrittore è Giulio Mozzi, che – come consulente editoriale (se ciò basta a designarne la vocazione rabdomantica) – tra la metà dei Novanta e i primi del decennio seguente ha permesso loro di riconoscere la propria voce, poi di farla conoscere ai lettori. Se un giorno si farà un bilancio, di questo passaggio di secolo, si dovrà ammettere che è stata una delle stagioni più fertili, per la terra della prosa. E che, se per ogni generazione c’è un maestro segreto – non perché non riconosciuto, ma in quanto arduo è circoscriverne il magistero –, il maestro di questa generazione è Giulio Mozzi.

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“Quel confine innominato ci attrae e ci atterrisce”

14 giugno 2016

di Andrea Cortellessa

[Questo articolo di Andrea Cortellessa è apparso in “Tuttolibri”, supplemento de “La Stampa”, sabato 11 giugno 2016].

7228419_1572657Sulla stampa illuminista, ai primi dell’Ottocento, tenne banco a lungo il caso del «ragazzo dell’Aveyron» (e ne resta ancora memoria, se nel 1970 François Truffaut gli ha dedicato Il ragazzo selvaggio: uno dei suoi film più asciutti e, dunque, davvero poetici): un ragazzino di una decina d’anni ritrovato in un bosco, nudo e privo di parola. A prenderlo con sé, il dottor Itard: il «caso» smontava l’idea del «buon selvaggio» di Rousseau, secondo il quale ricondotto allo stato di natura l’uomo avrebbe conosciuto la sua indole autentica, corrotta dalla civiltà; per lui, viceversa, educazione e cure parentali avrebbero restituito a Victor – questo il nome dato al ragazzo – la sua fisionomia umana. A partire dal linguaggio: tradizionale discrimine che fa, di questo, un uomo.

Ma Victor morirà, quarantenne, senza il dono della parola. Una vera dialettica dell’illuminismo: alla retorica dell’originario di Rousseau si contrappone quella, opposta, dell’apprendimento e della civilizzazione. Il nuovo romanzo di Laura Pugno parafrasa il titolo di Truffaut e ne ripropone la dialettica senza sbocchi; la sua storia ne differisce, però, in modo sottile.

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Gilda Policastro: intervista su “Cella” / 7

10 novembre 2015
Emma Bovary

Emma Bovary

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Modernità e postmodernità di Mario Pomilio

9 novembre 2015

Intervista a Andrea Cortellessa

[Andrea Cortellessa, critico letterario, è il responsabile della collana fuoriformato, nata presso l’editore Le Lettere e oggi publicata dall’editore L’orma. In questa collana – molto particolare, come si vedrà – è stata ospitata la nuova edizione de Il quinto evangelio di Mario Pomilio].

Mi hai detto in privato, Andrea, di aver letto Il quinto evangelio «quasi vent’anni fa». Quindi, dato che siamo nel 2015 e tu sei del 1968, più o meno trentenne. Che ricordo hai di quella prima lettura? E quando l’hai riletto in vista della nuova pubblicazione in Fuori formato, ne hai ricavato un’impressione diversa?

pomilio_evangelio_LormaDoveva essere il 1996. Ci arrivai per una via doppiamente obliqua, che i pomiliani puri e duri (se esistono) potrebbero forse trovare offensiva, per la sua memoria, o comunque riduttiva. Offensiva spero non sia, riduttiva lo è senz’altro. Ha ragione Demetrio Paolin: all’Università, Pomilio, non si studiava (non credo si studi neppure adesso, se è per questo). Naturalmente ne avevo sentito parlare, però. Dai manuali ne usciva l’immagine di uno scrittore conservatore, un neorealista attardato con un di più d’inquietudine confessionale, cattolica (ma senza il torbido sensuale e controriformista che a noi miscredenti sessuomani fa tanto amare i cattolici veneti; il suo veniva presentato invece come un cattolicesimo socialdemocratico, pallidamente riformista, infeltrito e un po’ nasale, appenninico e terrone). Date queste premesse si potrà capire forse che, nella mia smania d’aggiornamento d’allora, sebbene leggessi un po’ di tutto e freneticamente, ritenessi che prima di lui c’erano tanti altri autori da leggere.

In particolare prima di lui avevo letto suo figlio Tommaso. Non dirò che per me Mario Pomilio fosse allora, prima di tutto, il padre di Tommaso; ma più o meno era così, in effetti. Anche perché Tommaso non era solo l’autore di libri esoterici e misteriosi, che mi affascinavano, ma era anche una persona, viva e squisita, ed esoterica e misteriosa, che mi affascinava (e tuttora mi affascina). Va aggiunto che Tommaso è stato il mio grande passeur, il mio iniziatore alla poesia contemporanea (per me allora la poesia si concludeva, come da programmi universitari, più o meno con la Z di Zanzotto; era luil’ultimo poeta, come da allora è continuato a essere per Giulio Ferroni, i cui seminari allora seguivo con passione); sottobanco, nei corridoi della «Sapienza», mi metteva a parte dei «sodalizi clos-iniziatici» (mi è rimasta impressa questa sua formula) in cui era coinvolto in prima persona. Ma con un di più di pudore mi faceva capire, in pari tempo, che quella scelta remota e per certi versi comprensibile – di cambiarsi il cognome da «Pomilio» in «Ottonieri» –, dopo la scomparsa di Mario aveva preso a pesargli. Perché a dispetto di tutto – dei conflitti che aveva avuto con lui e colla cerchia di amicizie che lui aveva avuto in vita, e che anche dopo la morte continuavano a soffocarlo nel cordone sanitario dello “scrittore cattolico” – lui, Tommaso, era convinto che si trattasse di uno scrittore importante. Non solo per lui, voleva dire (che in nome del padre ha poi scritto il suo libro forse più bello, Le Strade Che Portano Al Fucino: che la sorte vorrà sarò proprio io a pubblicare, nella prima fuoriformato, quella de Le Lettere). Così lessi Il quinto evangelio – e scoprii quello che era, non solo per me evidentemente, un capolavoro sconosciuto (non fu certo quella, del resto, né la prima né l’ultima mia lettura tardiva). Un libro di una modernità, o forse di una postmodernità, sconvolgente. Che fuoriusciva da tutte le scuole, che eccedeva tutti i canoni, che veniva da tutti i libri e da nessuno.

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Gilda Policastro: intervista su “Cella” / 4

6 novembre 2015
Gilda Policastro

Gilda Policastro

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La parola e le catene (editoriali)

26 ottobre 2015

di Gabriele Frasca

[Questo intervento di Gabriele Frasca apre il “convegno online” Il ritorno di Mario Pomilio, scrittore europeo. Vedi l’introduzione di Demetrio Paolin].

[Preleva l’intervento di G. Frasca in pdf]

Mario Pomilio

Mario Pomilio

Nessuno può tenere in catene la parola. Con questa variazione da un ben noto passo deuteropaolino, che recita in verità “non s’incatena [dedetai] la parola di Dio” [2 Tim 2, 10], iniziavo il saggio che ora accompagna la nuova edizione del Quinto evangelio che con questo nostro convegno telematico in qualche modo festeggiamo; e ne sono personalmente felice, e grato a chi ne ha avuto l’idea. La citazione, tratta da quella stessa seconda lettera a Timoteo in cui l’apostolo (o chi per lui) esorta a rifuggire i più tipici piaceri intellettuali (i “vaniloqui profani” [2, 16] e le “ricerche insensate e non istruttive” [2, 23]), mi è servita in quell’occasione per tentare di seguire una doppia parabola: quella disegnata nel testo, vale a dire l’affannosa ricerca del vangelo nascosto che lo anima, e l’altra che il romanzo di Pomilio, letteralmente sparendo dopo l’iniziale successo, è come se avesse a sua insaputa intercettato. C’è qualcosa di sorprendente, lo sappiamo, nella storia stessa della ricezione di quest’opera, che è come se insomma avesse finito col contenere inconsapevolmente se stessa, e avesse messo in scena un dramma, un dramma culturale, quello per l’appunto della sparizione di un testo, che l’avrebbe vista inopinata protagonista. Nessuno può tenere in catene la parola, concludevo a un certo punto di quel saggio; sempre che un assordante rumore di fondo non la riduca a un bisbiglio.

Di motivi per questo strano destino che si è abbattuto sul Quinto evangelio, ho provato a fornirne in quell’occasione; eppure non si può dire che ne abbia trovato uno così convincente da acquietarmi. Di sicuro la svolta ultraliberista dell’intero sistema occidentale a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, e dunque la progressiva nascita dei monopolî editoriali, potrebbe bastare a motivare l’improvvisa sfortuna di un’opera che non nacque certo per intrattenere. Magari per far riflettere, persino per salvare, ma non di sicuro per limitarsi a far trascorrere il tempo da una stazione della metro all’altra, ove mai si fosse così fortunati da trovare un posto a sedere, o l’angolo giusto dove aprire il proprio libro senza sbatterlo in faccia al malcapitato vicino. Non c’è più tempo, e magari nemmeno spazio, in un mondo governato da quello che Alain Supiot ha recentemente definito la “gouvernance par les nombres”, per avere a che fare con un testo che non nasconde la voglia d’imbrigliare il lettore, e sprofondarlo nelle sue riflessioni. Con l’intento fra l’altro persino dichiarato di farne ben altro che una x valore di variabile. Sarà dunque questo il motivo della sua sparizione, fino alla meritevole edizione che stiamo in qualche modo salutando.

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La formazione dell’insegnante di lettere, 5 / Giovanni Accardo

3 dicembre 2014

di Giovanni Accardo

[Questo è il quinto articolo della rubrica La formazione dell’insegnante di Lettere, che si pubblica in vibrisse il mercoledì. Gli insegnanti che volessero partecipare possono scrivere al mio indirizzo, scrivendo nella riga dell’oggetto: “La formazione dell’insegnante di lettere”. Ringrazio Giovanni per la disponibilità. gm]

Giovanni_AccardoSono cresciuto in un minuscolo paesino della provincia di Agrigento, Villafranca Sicula, dove non c’era né una libreria né una biblioteca. Nonostante i miei genitori fossero entrambi maestri elementari, per casa non giravano molti libri. Mia madre è stata per tanti anni insegnante di scuola materna, impegnata soprattutto a crescere me e mia sorella. Mio padre divideva il suo tempo libero tra il calcio e il poker, però aveva anche una grande passione per la politica, perciò non perdeva un telegiornale, sia a pranzo che a cena, e leggeva i giornali. Così, a tredici anni (nel frattempo in paese avevano aperto un’edicola), incominciai a leggere i giornali e ad interessarmi di politica: ricordo perfettamente i comizi per le elezioni regionali del 1975. Il mio futuro era stato già deciso: avrei fatto il medico, per diventare ricco ed essere rispettato in paese. Avrei studiato a Roma o in una città del Nord. Così aveva stabilito mio padre. Ho frequentato il liceo classico, ma di cultura classica ne ho respirata davvero poca, parte per colpa mia, parte per colpa degli insegnanti: freddi, distanti e autoritari. Della maggior parte di loro non ricordo neppure il nome. Della scuola, a dire il vero, non me ne importava molto, in testa avevo soprattutto le ragazze, la musica rock e la politica. In quarta ginnasio faticavo a parlare e scrivere in lingua italiana, la mia lingua madre era il dialetto siciliano, i miei compagni di gioco erano per lo più figli di pastori e di contadini. Al ginnasio, la gran parte dei miei compagni di classe, alcune ragazze in particolare, parlavano un buon italiano e mi mettevano soggezione. Avevo quattro nello scritto, ma mi tiravo su con l’orale, grazie all’ottima memoria e alla voglia di non sfigurare, nonostante la mia paralizzante timidezza. Di studiare, però, non m’importava nulla. Guardavo le ragazze e sognavo la mia prima esperienza sessuale. Alla fine dell’anno scolastico, la professoressa di lettere disse che non mi rimandava perché andavo bene nell’orale ed ero molto educato, però durante l’estate dovevo leggere e prenderla come abitudine, perché avevo pochissimo lessico e una fantasia limitata. Non mi disse né cosa leggere né dove prendere i libri. In paese l’unico che leggeva e che possedeva una biblioteca era il prete, andai a chiedere consiglio a lui. Mi fece abbonare al Club degli Editori, che ogni mese mi spediva un libro a casa. Ma l’unica cosa che continuava ad appassionarmi erano i giornali, leggevo “Paese Sera”, “La Repubblica”, “L’Espresso”, “Ciao 2001”. Al prete rubai due libri di Marcuse: L’uomo a una dimensione e L’autorità e la famiglia, che lessi l’ultimo anno di liceo e che mi furono utilissimi per il tema della maturità, soprattutto il primo, citato a piene mani. Ogni tanto mio padre portava un libro a casa, prestato da chissà chi, fu così che lessi Padre padrone di Gavino Ledda, Giovanni Leone: la carriera di un presidente di Camilla Cederna, Arcipelago Gulag di Solženicyn, Il giorno della civetta, Dalle parti degli infedeli e L’affaire Moro di Sciascia; di quest’ultimo ci capii davvero poco, nonostante avessi seguito il sequestro Moro sui giornali e alla televisione. Cosa cercavo in quei libri non saprei dirlo, forse la voglia di crescere. Invece so benissimo cosa cercavo nei libri della beat generation, la vera scoperta letteraria che segnò la mia adolescenza, grazie all’amicizia con un giovane del paese di dieci anni più grande di me e che era andato a vivere a Londra: la voglia di scappare. Quando lessi Sulla strada di Jack Kerouac, nell’estate del 1978 o del 1979, capii che da quel paese e dalla Sicilia dovevo andar via. Ci sarà poi un tragico avvenimento personale che nel 1980 confermerà e aumenterà questo desiderio di fuga.

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Descrizione a posteriori di intenzioni che a priori non è detto che ci fossero davvero, corroborate da impressioni di lettura per le quali ringrazio gli amici

19 dicembre 2013
13 dicembre 2013, ore 19.30

13 dicembre 2013, ore 19.30

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“E’ Bello. Ma è anche Bene?”

18 luglio 2011
Particolare di una scultura di Aaron Demetz

Particolare di una scultura di Aaron Demetz

[…] Andrea Cortellessa: Siamo abbastanza d’accordo che Il male naturale sia Bello. Ma è anche Bene?

Giulio Mozzi: Non lo so. Devo prendere atto che c’è chi sostiene che la lettura di questo libro gli abbia fatto bene. Strano che facciano questo effetto storie tanto disturbanti, scritte oltretutto in un modo così ossessivo. […]

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Vanità delle categorie

3 aprile 2011

Clicca sull'articolo per leggerlo meglio.

Questa noterella di Andrea Cortellessa è apparsa nel mensile Galatea.

Qualità (appunti)

12 marzo 2010

di giuliomozzi

L’intento di questi appunti scritti in fretta per un articolo (più che un vero e proprio articolo) è: lodare l’iniziativa della “classifica di qualità” di Pordenonelegge/Dedalus.

Questi appunti vanno letti in relazione con l’inchiesta in corso da parte di Nazione indiana, La responsabilità dell’autore, al mio articolo Otto domande a nazione indiana (in calce al quale c’è una discussione interessante; e vedi anche l’articolo di Massimo Adinolfi Dieci, otto, una (domanda)).

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I miei migliori auguri

28 gennaio 2010

di giuliomozzi

Paolo Nori

Dentro la Repubblica delle lettere si fa un gran parlare, in questi giorni, di una certa faccenda. La faccenda è che Paolo Nori, scrittore riputato di sinistra, ha cominciato a scrivere per Libero, quotidiano indubbiamente di destra. Dentro la Repubblica delle lettere la faccenda ha fatto un certo scandalo: il quotidiano il manifesto, addirittura, ci ha dedicato una pagina intera un giorno, una pagina intera un altro, e una terza pagina intera quest’oggi. L’aspetto più divertente di questa faccenda è che Paolo Nori, avendo discusso privatamente di questa sua scelta con Andrea Cortellessa, critico letterario riputato anch’esso di sinistra, ha proposto allo stesso Cortellessa di fare un dibattito pubblico – che si è fatto, a Roma, alla libreria Giufà, il 19 gennaio scorso – e il quotidiano Libero, quello sul quale ha appunto cominciato a scrivere Paolo Nori, ha presentato il dibattito come “una cialtronesca iniziativa nella quale si voleva mettere al rogo Paolo Nori”: dando così a intendere che Paolo Nori, scrittore di sinistra collaboratore dello stesso Libero, sarebbe uno che mette su un’iniziativa cialtronesca per mettersi sul rogo da solo. La cosa interessante è che dopo questa pesante opera di disinformazione fatta da Libero sul conto di Paolo Nori, Paolo Nori – se ho ben capito – non ha cambiato la sua decisione di scrivere in Libero. A questo punto mi vien da pensare che se uno scrittore di sinistra decide di scrivere su Libero, e insiste nella decisione anche quando Libero fa disinformazione su di lui, le possibilità sono tre: o questo scrittore è un santo, o è più furbo che santo, o è più coglione che furbo. Trattandosi di Paolo Nori, propendo per la prima opzione, e gli faccio i miei migliori auguri per il suo viaggio in partibus infidelium.

Un articolo di Paolo Nori su questa faccenda. Le pagine del manifesto su questa faccenda. Un articolo di Andrea Inglese in Nazione indiana su questa faccenda. Argomenti connessi: Pubblicare per Berlusconi?, di Helena Janeczek ; La scomparsa dell’alterità, di Tiziano Scarpa.

Otto anni non sono pochi / 14b

15 giugno 2009

[Ce lo dissero in tanti, all’epoca, che l’unico vero difetto di Pausa caffè era la mole: 352 pagine. Io non so. Mi pare che molti lavoratori dell’editoria abbiano stampata nella mente, come un imperativo categorico, l’intimazione: Tagliare!. Eppure, se scorro la mia biblioteca, vedo che molti grandi libri sono anche dei libri grandi. La mole ha la sua importanza. Questo articolo di Andrea Cortellessa apparve nel mensile L’indice del luglio 2004. gm]

Non è vero che la critica non serve più a nulla. L’articolo di Aldo Nove, su “ttL” lo scorso 8 maggio, ha colpito un po’ tutti. E quando è uscito il nuovo libro della collana diretta da Giulio Mozzi (che si conferma la migliore oggi su piazza), ci siamo precipitati a leggerlo. Il perché è semplice. L’articolo di Nove ha forza in quanto è di uno scrittore importante, ma soprattutto perché è raro. Laddove certi salamelecchi reciproci, fra scrittori compagni di merende, ormai non dicono più nulla. Invece se Nove, che di norma al blurb non indulge, dice che “Falco è l’attuale poeta epico del mondo del lavoro precario”, io il libro di Falco lo leggo.

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Otto anni non sono pochi / 10

7 giugno 2009

[Continuo a ripercorrere gli otto anni di lavoro per Sironi Editore. Non ho mai nascosta l’amicizia e la grande stima che ho per Laura Pugno (il suo sito personale). A lei devo molto: devo, letteralmente, la parola. Nei lunghi anni di corrispondenza io ho imparato a parlare. Se qualcuno ha una qualche stima di ciò che ho scritto, ricordi che io considero Laura una maestra e una sorella maggiore, benché sia più giovane di me di dieci anni. Sleepwalking è un libro bellissimo della cui esistenza quasi nessuno si accorse. Molta attenzione ha ricevuto invece il romanzo Sirene, pubblicato quattro anni dopo da Einaudi. E Andrea Cortellessa ha voluto ospitare nella collana “Fuori formato”, che cura per l’editore Le Lettere, il libro di poesia (con fotografie di Elio Mazzacane) Il colore oro. Questo articolo di Martino Baldi uscì l’1 agosto 2003 nella rivista Il grande vetro, che oggi non so nemmeno più se esista. gm ]

Iacopo, cameriere di un takeway cinese, dimentica la propria vita e la propria compagna, misteriosamente attratto dalla inferma Sahe. Giuseppe fantastica una storia d’amore con una ragazza che vede nuotare, solitaria, in mare. Ester, vittima di un’amnesia, spera di ritrovare nei sogni la memoria di un probabile amore e l’identità perduta e per questo cerca di passare nel dormiveglia il maggior numero di ore della giornata. Luz spende tutte le sue vacanze per assistere in una clinica Fabio, la cui malattia è l’incapacità di distinguere tra i vividi sogni e la realtà. “Tredici racconti visionari”: il sottotitolo del libro (Sleepwalking, Sironi, Milano 2002, pp.128, € 11,40), che segna l’esordio alla narrazione della poetessa romana Laura Pugno, vuole farci da guida nella lettura.

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Otto anni non sono pochi / 6

30 Maggio 2009

[Negli otto anni del mio lavoro presso Sironi abbiamo pubblicato tanti libri. Riprenderò qui, in questi giorni, alcuni articoli relativi a quei libri che – a prescindere da qualunque valutazione commerciale – mi sembrano aver meglio “resistito” nel tempo. Questo articolo di Andrea Cortellessa apparve in Tuttolibri, supplemento del quotidiano La Stampa, il 9 luglio 2005. gm].

«Non v’è nulla che rievochi maggiormente il Nulla come il Tutto». Una frase come questa potrebbe averla detta l’oscuro Alonso Barrulho, che negli Anni Trenta strologa da una certa città spagnola, dal passato favoloso e dalle coordinate imprecisate. Perceber è la città della quale Barrulho dice, infatti (in un cartiglio recuperato, a Roma, quasi settant’anni dopo): «Ho capito che tutto ciò che mi circonda, adesso, non ha un nome: è un nome».
La pillola di gnosi non troppo vagamente borgesiana è una delle chiavi – così numerose da scoraggiarne l’uso – del «romanzo eroicomico» (così il settecentesco sottotitolo) col quale esordisce il trentacinquenne Leonardo Colombati. Il titolo è proprio il nome di quest’Anti-Roma immaginaria; la quale a sua volta si battezza da una storpiatura ispano-germanico-lusitana del latino percipere («assumere i dati della realtà mediante i sensi » – si rinvia il lettore a p. 46 per l’oggetto-sineddoche della realtà). Effettivamente Tutto e Nulla stanno – nel mondo fittizio quanto in quello cartaceo che lo evoca – in un rapporto dialettico: di mutua causalità. Per questo la minuziosa rete di rinvii alla cosmologia cabalistica – sottesa al set dei diversi quartieri romani come all’ordinamento di un simbolico Corpo Astrale –, a dispetto delle mani messe avanti in abbrivo («della struttura del nostro libro potrete agilmente disfarvi. La forma ci è servita per scrivere, non è indispensabile per leggere»), è tutt’altro che accessoria. Di fatto è ossessivamente ribadita, tanto dal doppio apparato di note (in coda al volume e – francamente di troppo – in calce a ciascun episodio) che dalle sterniane didascalie a ogni capitolo.

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