di Andrea Caterini
[Continua il “convegno online” dedicato a Mario Pomilio]
Forse davvero la poesia è tale quando disarma. E se il dono, la grazia ricevuta della parola, è segno e significato del tempo che si manifesta, come dire l’accadere che interrompe la sua linearità, o l’idea che il tempo sia una progressione, quindi destituendogli un movimento, allora la poesia è il tempo della parola che nasce e si conserva, e in quanto nascita è creazione. Ma appunto, creazione di un tempo che se non è progressione è invece nascita; una nascita che si perpetua – nuda ed eterna. Ed è così che Carlo Betocchi visse sempre la poesia, ogni poesia che scriveva, come fosse l’accadimento del tempo, la nascita non solo sua, del soggetto, ma di tutte le cose, del soggetto insieme e in relazione alle cose. Rileggo questa poesia dalla sua raccolta forse più significativa, Un passo, un altro passo (sesto componimento della sezione che porta lo stesso titolo della raccolta datata 1967); una poesia che piega le ginocchia perché non teme di pronunciare il vero.E so quanto la vita sia discorde
con se stessa; il suo disegno
intricato; il suo discorso enigmatico.
La guardo e ne raccolgo la figura,
le credo e non le credo, anche il dolore
ha due volti, anche l’amore: resto
così, stordito, avvolto in questo slittare
della coscienza che quanto più sa,
meno è tranquilla. Ma non cedo:
dal sapere il comprendere deduco;
dal comprendere il gemere. Sospiro,
temo: e insieme sento di meritare,
dal patire, in esso inabissandomi,
una sostanza men fievole, un’unità
in cui spero nel mio dolore,
una speranza diversa, un volto
umiliato dal non conoscere più,
dall’aver fede, soltanto fede,
come grido che tace e ha la sua pace.