di Alberto Arbasino
Gli articoli di Federica Sgaggio e Demetrio Paolin, e gli altri che nel suo Paolin cita, mi hanno fatto tornare alla mente questo intervento a un convegno pronunciato da un Alberto Arbasino trentatreenne, e pubblicato nel periodico L’Europa letteraria, a. V, n. 28, aprile 1964. gm

A. A., 1966.
Non c’è scrittore, credo, che almeno per una volta non abbia considerato la carriera letteraria come una scelta inevitabile fra due ipotesi: l’impegno divorante e totale alla Balzac o alla Hugo in un’opera sempre più enorme e mai compiuta, o la rinuncia altrettando totale di Rimbaud, atteggiamento non meno grandioso e magnanimo. Senza trascurare, beninteso, una terza possibilità da tener sempre presente: morire al momento giusto, come Radiguet…
Poi le cose, si sa, nella realtà vanno assai diversamente. E il dilemma pratico si presenta di solito sotto altra forma. La letteratura non è nutriente; non lo è mai stata; e forse non è neanche giusto che lo sia. Lo scrittore potrà ragionevolmente optare per la soluzione onesta e collaudata del “secondo mestiere”: tradizionalmente “il più lontano possibile dalla letteratura”. Per parecchie ore al giorno venderà degli oggetti o tratterà coi clienti, o sposterà carte in ufficio. Poi, nelle serate o nei sabati pomeriggio che altri dedica alla danza o alle passeggiate, coltiverà il suo ortino, una paginetta dopo l’altra, con la trepida circospezione di chi va a trovare l’amante nei tre quarti d’ora fra la colazione e la riapertura dell’ufficio. Molto bene. Beato chi riesce a dividersi in compartimenti così giudiziosi. Ma questa soluzione non tiene conto del fatto che la letteratura può essere prima di tutto una malattia e un vizio: come l’esibizionismo o l’ubriachezza.
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