di Demetrio Paolin
Ieri stavo guardando la televisione quando mi sono imbattuto nelle immagini del funerale dell’uomo, che è stato ucciso dalla figlia. Mentre il feretro usciva dalla chiesa alcune persone hanno urlato, scandito con forza, che il morto era un brav’uomo. Le loro parole stridevano con tutto quello che di lui sapevamo e di lui c’era stato raccontato. La diretta continuava, l’eco di quelle parole si assottigliava e rimaneva il silenzio e il motivo strano del perché la gente avesse sentito il bisogno di dire che quell’uomo, accusato di aver picchiato la figlia e la moglie, fosse un bravo o al massimo uno che ogni tanto beveva troppo.
Davanti alla televisione nasceva in me un senso di disagio, la stesso che mi prende quando all’improvviso mi appare la mia figura allo specchio (non amo la mia immagine riflessa). Guardavo quel funerale come se fosse il mio; ascoltavo quelle parole come se fossero rivolte a me, perché – è vero – io sono un brav’uomo, io sono una persona buona. Sorgeva in questo asimmetrico rispecchiamento un intento giustificatorio, che mi ripugna e non riesco a tenere a bada. Una parte di me, nascosta in qualche antro oscuro, che alcuni possono chiamare coscienza, sentiva che quel sentimento di fratellanza verso l’uomo nella bara era qualcosa di sbagliato, nonostante ciò il senso di intimità verso il morto cresceva. Con molta semplicità quello schifoso non era diverso da me: bianco, cattolico, di genere maschile. Forse la mia cultura, il mio modo di stare nel mondo e la mia educazione mi hanno permesso di non essere come lui e non essere in quella bara. Mi sentivo più colto, meno violento, ma non meno colpevole.
Qualche giorno prima avevo un corso di scrittura a Milano, sono uscito dall’aula con Luca, un mio amico. Lui doveva andare a fare in check in albergo, così l’ho accompagnato. Mentre camminavamo siamo passati davanti a un hotel. Sulla porta c’erano tre ragazze bellissime, alte, con vestiti appariscenti; le tre erano sorridenti, mi ricordo con chiarezza particolare una che aveva la pelle olivastra e i cui denti bianchissimi sembravano un lampo di magnesio in viso. La loro bellezza era indubbia, la certezza che fossero modelle è stata comune sia in me che in Luca. Poi di fianco a loro abbiamo notato tre uomini che le fotografavano, che sorridevano e si davano di gomito. Sia io che Luca ci siamo fermati, per pochi momenti, un minuto o due, a osservare bene questa scena. Di colpo, e so che questa percezione ce l’ha avuta anche Luca perché ne abbiamo riso insieme dopo, abbiamo pensato che quelle tre non fossero più modelle, ma escort. Quale è stato il passaggio da una certezza all’altra? Che cosa ha prodotto in me questo cambiamento così netto, tanto farmi pronunciare un giudizio morale così preciso? I gesti degli uomini: il loro modo di stare a lati dell’ingresso dell’albergo, la disinvoltura con cui guardavano le ragazze che facevano i selfie. In oltre la chiara presenza nei tre uomini di un’ilarità da branco, da gruppo, che rendeva tutto più turpe e più squallido. È ovvio che non ho nessuna prova o dato concreto per affermare che quelle ragazze fossero realmente escort e che quegli uomini fossero tre puttanieri, ma dico che in qualche modo oscuro i miei occhi hanno immaginato questa scena come assolutamente plausibile.
La sera in pizzeria, la presenza delle tre donne bellissime e dei loro uomini è aleggiata in molte discussioni. Ci siamo ritrovati a parlare di Brevi interviste a uomini schifosi di DFW. Io non riuscivo a togliermi di dosso la sensazione che avevo provato qualche ora prima davanti all’albergo. E più ci pensavo più le tre ragazze scomparivano nella loro unità e si facevano dei pezzi di corpo, parti inconsistenti del mio immaginare: di una ricordavo la bocca, dell’altra il taglio degli occhi e dell’ultima lo stacco della coscia. Erano diventate in me un oggetto, una suppellettile, una cosa bella al pari di una poltrona di design.
Mentre parlavamo di DFW, dicevo che non si può leggere Brevi interviste senza pensare a De Sade, perché il nostro modo di concepire il mondo deve a lui più di quanto noi stessi siamo disposti a immaginare; mi veniva in mente una cosa che aveva detto Praz. Lo studioso sosteneva che De Sade non era un grande scrittore, ma la sua eccellenza stava nel aver messo in evidenza un sintomo. Brevi interviste sono la messa in bellezza del sintomo sadiano. Brevi interviste rendono belli, desiderabili, leggibili e profondi gli istinti più incredibilmente turpi e neri dell’universo maschile. Più sono meschini gli uomini del libro più la prosa di DFW diventa un diamante di perfezione. Dicevo insomma a cena, mentre i tre uomini mi danzavano nella testa e i pezzi delle loro accompagnatrici le masticavo come la focaccia, che DFW aveva semplicemente reso accettabile il fatto che noi uomini siamo miseri, poveri e violenti. Che siamo dediti alla sopraffazione, all’impudicizia, alla violenza e alla sua quasi totale giustificazione usando come scusa, la cultura, l’antropologia, la religione o qualsiasi altra gradazione di una di queste tre categorie.
Durante la serata sedute al tavolo con me c’erano anche delle donne e i mi sono reso conto che per rendere i miei discorsi presentabili utilizzavo la medesima giustificazione, che poteva essere declinata esteticamente: separiamo l’uomo dalla sua opera: o moralmente: uno scrittore si immedesima in ciò che più lo ripugna per denunciare con più forza. E se, invece, il segreto di quel desiderio mimetico fosse la possibilità di rispecchiarsi in qualcosa di più oscuro, senza regole e freni di ciò che noi siamo? Se volete è la vecchia storia di Hyde e Jekyll: Hyde non è diverso da Jekyll, è semplicemente la parte oscura che non vergogna di mostrarsi. DFW aveva compreso meglio di chiunque altro questa caratteristica umana, molto maschile ed europea, di produrre narrazioni che suscitassero disgusto verso se stessi, perché noi siamo il disgusto che proviamo.
Così finita la serata, usciti dalla pizzeria, ho chiamato un taxi che mi portasse in albergo. Il taxi ci ha messo circa 25 minuti ad arrivare; infine un uomo molto gentile mi ha aperto la porta e sono salito. Nel comodo antro nero della macchina, ho cercato come a solito di fare quattro chiacchiere.
“Ho aspettato un bel po’” ho detto guardando l’uomo.
“Non so cosa dirle, non ho idea di cosa ci fosse, oggi – mi fa – ma un mucchio di corse e un mucchio di gente da portare”.
“Sì, dico io, forse c’è qualche evento di moda: oggi fuori dall’albergo c’erano tre ragazze molto belle, credo modelle”.
“Dice?”. E qui compio un errore perché alla sua domanda faccio presente il mio dubbio. Gli racconto degli uomini, di loro farsi le foto e il darsi di gomito. Credo che questo lo abbia fatto sentire protetto e in un certo senso giustificato a dirmi le cose che mi disse.
“Quelle – mi fa – ne porto in giro tutte le sere, sono da 400/500 euro a botta, che poi sono belle, per carità modelle, anche, ma non è detto che sappiano scopare. Non è detto che sappiano fare quello per cui le paghiamo. Io conosco puttane che per 40 euro ti fanno cose che non immagini….” (Era passato al tu senza che io gli dicessi niente, senza che io rispondessi, semplicemente aveva deciso, in modo autonomo che io ero dei suoi).
“Che poi – continua a parlare – la bellezza, cosa è la bellezza? Quelle hanno un culo, le tette, sono alte, appariscenti, ma a me non interessa apparire, sai, non mi interessa entrare in un ristorante con insieme la strafiga. A me interessa la bellezza, ma la bellezza non è quella.. è una cosa magnetica e animale, una cosa che ci fa tornare alle bestie. Tipo, quando, l’altra sera ho caricato una che era così bella che quando si è alzata dal sedile avrei voluto leccarlo.”
Io mi sono chiesto perché lo facevo parlare, perché non lo bloccavo, per quale motivo continuasse. Sentivo una fascinazione seducente, una bellezza del brutto o qualcosa del genere; mi rendo conto – ora – che ognuna di queste ipotesi è una scusa o una personale giustificazione. Io non voglio essere né scusato né giustificato. La domanda è: perché non gli ho detto di stare zitto? Perché non l’ho messo a tacere? La spiegazione più facile e assolutoria direbbe che è nella natura dell’uomo essere come il tassista: non l’ho messo a tacere perché l’uomo è per natura così, è nato così, il suo Dna è quello, e mai potrà cambiare come l’acqua è formata da due parti di idrogeno e una di ossigeno. Sarebbe comodo dire questo, ma non credo che l’uomo e suoi atteggiamenti siano dati per natura. Sono convinto che ogni nostra azione è un prodotto culturale. Quindi non devo nascondermi e mi chiedo: perché non ho messo a tacere quell’uomo? Perché non gli ho detto: “Scusami, ma questo è troppo, all’inizio potevo vederci ironia e scherzo , ma ciò che tu stai dicendo è troppo, ed è sbagliato”. Forse ho taciuto perché davanti mi sono trovato il prodotto di millenni di cultura maschile, me li sono trovati incarnati nel corpo di una persona. Era come se tutto quello che ci era stato detto sul maschio, sul maschile, sul modo di comportarsi fosse lì davanti; ho provato una sensazione formidabile di spaesamento e di inadeguatezza. Mi sono accorto che io e lui condividevamo una medesima cultura. È stato come uno schiaffo, e questa condivisione millenaria di gesti e modi faceva di me non un soggetto passivo (come sarebbe stato nel caso dell’ipotesi naturale), ma un soggetto attivo ben radicato in una tradizione.
Ho taciuto, perché ho avuto paura di andare contro una lunga sequela di atti e scelte, che sono state compiute prima di me e di cui io ho interiorizzato molto. Sento un profondo disagio per essere quello che sono. Lo sento perché appartengo a un genere, a uno status, a un insieme di persone; perché nei millenni, per cultura, censo e scelte politiche, ho avallato comportamenti come applaudire al funerale di uno che ammazza la figlia di botte. Io ne sono responsabile, in quanto scrittore, in quanto intellettuale, in quanto maschio.
Io ne sono colpevole, perché alla fine della corsa in taxi l’uomo mi ha detto: “Fumi?”. “No – gli ho detto – io non fumo”. “Va bene, mi ha detto, però siccome sei un tipo in gamba, finiamo di chiacchierare e io mi fumo una sigaretta e non paghi”. E così davanti all’albergo mentre lui fumava la sigaretta, ci siamo messi a parlare del lavoro, del mio e del suo, abbiamo discusso di tasse, di gasolio. E a ogni boccata della sua sigaretta io diventavo più complice. Attraverso quel fumo l’uomo sembrava suggerirmi: “Qual è la differenza tra me e te? I libri che hai letto? L’educazione che hai ricevuto? Sei veramente sicuro o semplicemente tu possiedi una maschera di forma e di inganno che ti consente di stare in società come liberale, democratico e emancipato? E aggiungeva: se ti guardi nel profondo, tu sai che siamo simili, abbiamo pensieri disgustosi e brutti; io me ne compiaccio e tu te ne vergogni. Compiacenza e vergogna, però, sono solo due facce del nostro essere.”
Quando ha finto la cicca, mi ha detto Ciao, è salito in macchina e se ne è andato. Io ho aperto il portone, ho raggiunto la camera, e mi sono fatto una doccia prima di dormire. Ho pensato che avrei potuto scriverne, ma mi sono detto di no, che era meglio tenere la cosa dentro di me. Poi ho visto le immagini del funerale, quel sentimento di fastidio mi è tornato su come cibo mal digerito, come l’acido rancido in bocca. E così ho scritto questa cosa che ognuno legge qui.
Tag: Corpo, David Foster Wallace, DFW, Letteratura maschile, Marchese De Sade, Mario Praz
31 Maggio 2019 alle 12:15
E’ una delle pagine più belle e spaventose e terrificanti che io abbia mai letto. Non ho strumenti adeguati per commentare in maniera utile, per allargare il ventaglio delle riflessioni, ma voglio qui lasciare come traccia il disagio che ho provato come appartenente al mio genere e come femminista: mi sono sentita, leggendo, come su un’altalena, trasportata ora verso un consenso facile e ideologico, anzi facile perché ideologico (tutti i maschi sono così), e ora verso una ribellione profonda (no, non è così chi scrive, non ci credo). Ma l’abisso su cui mi sono affacciata per un momento e me ne sono distolta subito è dato dalla domanda: davvero i pensieri disgustosi sono prerogativa maschile? C’erano molte donne urlanti a quel funerale. Io ho paura.
31 Maggio 2019 alle 13:21
Questo articolo mi ha colpito tantissimo: lo trovo molto interessante per l’analisi senza veli che viene condotta sull’universo sessuale maschile di cui tante volte si parla ma forse non fino in fondo. Cose simili le ho lette in Bataille “Erotismo” e , più recentemente in un romanzo di Domenico Starnone “Autobiografia erotica di Aristide Gambìa”. Io credo che gli uomini siano davvero così, siano così di natura, cioè, e che in alcuni di essi solo la cultura apporti delle modificazioni. Per ragioni mie personali, che non descriverò, ho cambiato nel tempo la mia stessa visione di questo aspetto maschile, passando dal considerare solo un’ eccezione pensieri e comportamenti maschili del tipo descritto nell’articolo, a generalizzarli del tutto ( in me non c’entra per nulla l’ideologia) e a pensare che il limite è imposto dalla cultura e non dalla natura. Tra l’altro, al contrario di Nadia Bertolani, io non provo disagio, ma una profonda, profondissima tristezza.
31 Maggio 2019 alle 13:36
È triste rendersi conto di essere parte di un meccanismo che non ci piace ma non poter far neinte per cambiarlo. Hai fatto bene a riportarlo in questo testo, è la prova che qualcuno ne è consapevole.
31 Maggio 2019 alle 14:15
[…] via L’apologo dell’uomo schifoso — vibrisse, bollettino […]
31 Maggio 2019 alle 14:28
Non è vero che tutti gli uomini sono uguali e che tutti hanno pensieri brutti, è vero piuttosto che chi ha brutti pensieri è felice quando può dire : “così fan tutti”. La meschinità del prossimo è di conforto alle proprie meschinità.
31 Maggio 2019 alle 15:54
provo a fare un commento cumulativo, cercando di essere il più possibile chiaro. Io stesso, io per primo, mi sono trovato in difficoltà a scrivere questo pezzo, perché mi rendevo conto – mentre lo scrivevo – che stavo descrivendo qualcosa, qualcosa allo stato nascente, come consapevolezza e sentimento, che non riuscivo bene a definire. Ho cercato di essere più chiaro possibile, e mi rendo conto che ci sono dei passaggi che sono ancora avvolti nel dubbio. Non volevo assolvermi e non volevo condannare tutti, volevo cercare di capire come il mio essere uomo influenza il mio modo di guardare il mondo, sesso, il potere, l’altro.
d.
31 Maggio 2019 alle 22:10
Mah. Mi reputo un uomo normale e non sento il bisogno di confessioni o scuse perché tra le gambe ho un cazzo. Non mi sento colpevole della storia e non devo chiedere scusa a nessuno. Detto questo apprezzerei l’ analisi se fosse imparziale, se coinvolgesse anche il pensiero del sesso femminile, i suoi pure reconditi risvolti. Siamo prodotti culturali tutti e due e non per questo siamo snaturati. Esiste la capacità di discernere e scegliere. Chi non ha avuto pensieri suicidi od omicidi ma non mi sembra per questo che il mondo sia disabitato. Mi sembrava, leggendo, di essere tornato all’università negli anni settanta, dove mi proponevano l’analisi dell’analisi, dell’analisi senza mai approdare ad un progetto che significa responsabilità. .
2 giugno 2019 alle 17:14
Credo tu non l’abbia fermato perché sei uno scrittore, quell’uomo ha raccontato la sua verità che era meschina, ma anche onesta, e davanti a quella uno scrittore non può dire basta, né girarsi dall’altra parte.
E neppure un uomo.
3 giugno 2019 alle 10:34
E ora? Ora che hai masticato queste riflessioni? Ora che sei in teoria più consapevole? Se oggi si ripresentasse l’occasione, se oggi ti ritrovassi a parlare con un simile taxista, se oggi tu potessi scegliere di assecondare non la “bestia” ma “la ragione acculturata”? Oggi, lo fermeresti? Cercheresti di evitare di guardare tre persone come fossero tre pezzi di carne? Riusciresti a evitare di pensare alla coscia lunga, al godimento dei tre puttanieri, alla merce più o meno costosa da usare più o meno secondo gli istinti del momento? Rinunceresti al compiacimento di comodo? Faresti in modo di non diventare complice?
Lo chiedo perché questo ti sei chiesto nell’articolo.
3 giugno 2019 alle 13:29
Ma.Ma è una domanda a cui sinceramente non so cosa rispondere. Se lo avessi fermato allora non avrei scritto il pezzo, non scrivendo il pezzo, non avrei potuto riflettere come sto facendo. E non so se me ne trovassi un altro davanti, non lo so cosa come mi comporterei.
d.
3 giugno 2019 alle 14:12
Ok, merci. NB: la domanda, ché forse non si capisce, l’ho posta per sondare quanto sia immaginabile che un “cervello” (cultura, ambiente, educazione, ecc) abbia non solo capacità di “controllo” sulle azioni più ancestrali, ma che possa addirittura riuscire a modificarle. Io ad esempio fatico a far capire ai membri della mia famiglia quanto dannoso sia l’orgoglio (un “virus” letale che ci ha colpiti tutti), e loro niente non ce la fanno a modificarsi. Io sola – essendomi annoiata anni or sono, quando ne avevo una dozzina, delle migliaia di litigate quotidiane – a un certo punto ho mollato (con tantissima fatica all’inizio) per riuscire a sbattermene infine, e dopo anni ha funzionato, credo di essermi modificata molto. Quindi credo sia possibile… ma non riesco a farlo fare ai miei cari che sono vulcuani in continua eruzione. Va be’ niente… riflessioni mie. Grazie della risposta.
4 giugno 2019 alle 13:29
Mi colpisce il fatto che alcune reazioni a questo pezzo difficilissimo, in cui cammini sul filo del rasoio cercando di illuminare qualcosa che non è nemmeno un terreno inesplorato ma la linea di sutura fra diversi terreni, implichino che tu debba passare, chissà perché, dalla riflessione all’azione su te stesso e sul mondo, al “progetto” addirittura.
Uno scrittore fa già qualcosa di gigantesco quando cerca di restituire a chi lo legge la realtà così come lui la vede, senza farsi condizionare dalle manipolazioni mediatiche che ipnotizzano tutti, oppure tematizzandole e discutendole con se stesso davanti al lettore.
Nessuno lo fa; oppure molti lo fanno ma non riescono a tradurre in espressione questi travagli interiori, e come mi disse un giorno Aldo Busi (più di venticinque anni fa) “sentire senza esprimere è la cosa più a buon mercato che ci sia”.
26 giugno 2019 alle 15:31
Gentile Raul ^_^ mi sento presa in causa, considerandomi tra quelli che hanno commentato cercando di andare oltre il testo. Perché la sorprende? Certo, non è qualcosa che può essere fatta di solito, leggendo un libro, ma ho sempre pensato che diventa o potrebbe diventare interessante – secondo me – proprio quando si ha la possibilità di creare una discussione. Io non ci vedo niente di male. Rispetto ovviamente l’autore che non vuole confrontarsi con i lettori e con i pensieri e le riflessioni che i suoi testi possono generare, ma dato il luogo (virtuale) e la modalità (scambio di commenti attivi) non vedo perché doversi limitare a considerazioni che si fermino giocoforza al punto finale del racconto. Poi siamo d’accordo: non è necessario e nemmeno preteso che l’autore abbia una risposta o voglia darla. Auspicare invece che in un lettore non si generino riflessioni, o che se li tenga per sé, mi pare che sarebbe come sperare che un testo resti tale, fine a sé stesso, e a me ciò sembra una forte limitazione. Ma è solo un pensiero di una lettrice.
26 giugno 2019 alle 15:32
Ps: vedo che mi è rimasto il link a un altro profilo, ma sono Ma.Ma.