Di che cosa parliamo quando parliamo d’amore? Michele Vaccari nel suo Un marito ( Rizzoli, euro 20,00) al numero sconfinato di risposte a questa domanda che popolano la letteratura di ogni tempo aggiunge la sua, non superficiale, densa di significati, ricca di una tensione emotiva resa con partecipazione tale da riuscire a volte difficilmente tollerabile.
Ci propone una forma di amore totale: la normalità del contesto in cui prospera si fa cemento di un’unione che cresce nel piccolo, nel particolare di singoli gesti, in un susseguirsi di prospettive sul futuro prevedibilmente sempre uguali, caldamente rassicuranti, confermate da una quotidiana sottintesa confidenza. E’ al tempo stesso un amore assoluto, ne sono fondamento stilemi romantici trasferiti, con abile gioco di contrasti, in una contemporaneità rappresentata come deserta di speranze. Un amore talmente ancorato alla più ovvia quotidianità da diffidare da qualsiasi mutamento, da negare lo stesso scorrere del tempo.
La dismisura di questo amore abita la storia, in sé lineare nella sua drammaticità, che riguarda Patrizia e Ferdinando, una coppia sposata da tempo che conduce una rosticceria nel cuore di Marassi, Genova, dove il “degrado non esiste, il degrado è bellezza”. La perifericità del quartiere viene nobilitata dalla prosa immaginifica di Vaccari, una danza che pare sollevarsi al disopra della precarietà delle vite che lo popolano: “Marassi, quartiere popolare, Marassi, l’esistenza ridotta a speranza urbanistica, Marassi, la realizzazione personale comprata con l’illusione della pacificazione abitativa, Marassi, apologia al parallelepipedo, Marassi, teatro di voci granitiche e meridionali, riposo obbligato per le genti dei porti, delle centrali elettriche, delle portinerie eleganti, dei sottoscala degli alberghi del centro, delle manifatture malpagate, delle edicole loculo, dei tabaccai delle stazioni, dei casalinghi in offerta, delle mense candeggiate, casa dei servi dei quartieri alti, Marassi, la felicità come consuetudine”. E di questa felicità, non episodica, ma prolungata in durevole abitudine, i protagonisti sono i due sposi, per i quali, nella pervasività del loro vivere in due risulta ben plausibile l’oltranza del sentimento: “nella Marassi che hanno scelto per crescere e morire insieme, la notte è il tempo del rientro a casa, e nelle strade percorse alla cieca che stanno per condividere anche stasera per tornare alla loro automobile, stringendosi per paura di finire separati dall’oscurità, la loro unione profonde la tipica, invisibile luminescenza delle cose inestimabili.”
I due condividono anche una sorta di missione, riconoscendo nella gestione della rosticceria un modo per tramandare le antiche tradizioni culinarie (ma non solo, si intuisce), della città, una tutela nei confronti di una contemporaneità sempre più sciatta ed inconsapevole delle propria storia. E’ con religioso rispetto che si propongono ricette conservate da secoli: la scena è conquistata per lunghe pagine da “cime classiche o alla savonese”, “tomaxelle o pignolini fritti, seppie in zimino e vitelli tonnati”, “frittelle di borraggine”, “fiori di zucca al forno”, “polpettone di fagiolini”; e ancora, castagnacci e frisceu; taglieri di formaggi, trippa rossa, coniglio alla ligure. Il tutto è virtuosisticamente descritto in un gaddiano trionfo di dettagli: “La prescinseua deve dominare ogni altro sapore, compatta e pungente, da far indietreggiare alla prima sniffata, a schiacciare sul fondo della torta la verdura, bollita, strizzata e saltata con aglio e pinoli a farla ricca, e le sfoglie, sottili come una palpebra, non trentatré come l’antico adagio evangelico prevede, ma comunque almeno in misura di sei, per resistere al peso di quella dittatura fradicia e non subire il doppio danno provocato dalla combinazione del latticello in eccesso – di cui le verdure vanno a intridersi – con l’acqua di vegetazione dei carciofi violetti, quando è stagione, o delle bietole, per il resto dell’anno”.
Nell’imminenza dei cinquanta anni di Ferdinando, i due coniugi decidono di regalarsi un paio di giorni di vacanza a Milano. E’ Ferdinando ad insistere, è Patrizia ad essere dubbiosa: il cambiamento contempla il rischio di non essere più quelli di prima. La svolta tematica è qui, a approntare conseguenze irrimediabili, nel contrasto tra il desiderio di cambiare, anche soltanto per un periodo breve, anche, nelle intenzioni, con la rassicurante (ed errata) prospettiva di ritornare identici a prima, e l’indugio pacificante nella breve eternità della serenità quotidiana.
Minuziosi preparativi precedono la partenza, ed una volta a destinazione il desiderio di minima novità di Ferdinando sembra realizzarsi. Ma, improvvisamente, una bomba esplode sotto il Duomo: è una strage, ed in essa Patrizia scompare, tanto che il suo corpo non viene ritrovato tra le macerie. Ferdinando sopravvive, e la seconda parte del romanzo è il racconto dei due anni successivi della sua esistenza limbale. I gesti, i pensieri, il sonno, la veglia: nulla è più come prima, e non c’è più alcun senso nella vita di adesso.
Ferdinando precipita in un gorgo di disperazione, recluso in una solitudine che nemmeno l’accudimento affettuoso dei parenti più stretti riesce a scalfire: nella notte dei suoi pensieri non trova spazio quel lutto a metà, e la mancanza di una prova irrefutabile del contrario rende Ferdinando riottoso a credere alla morte di Patrizia: “ora gli basterebbe averla, anche solo una nuvola di pulviscolo di ciò che amava: “nessuna traccia” diranno le fonti ufficiali, i primi rilievi, i riscontri ematici; dissolta, cancellata dal novero dei vivi, così si ostinano a ribadire le evidenze, i documenti, l’eziologia del caso, la dinamica degli eventi, le ricostruzioni, i rendering, c’è così tanto nulla che di lei sarà difficile trovare anche solo una traccia ematica, nessuno ci pensa, non lui, ancora no, questo è quello che lo persuade, che lo fa davvero sopravvivere, l’idea che da lì a qualche mese di lei non sarà mai più trovato alcunché, nessuno la cercherà. Sarà tra le vittime, ma di lei nemmeno un fotogramma; sarà sull’obelisco, ma non ne seppelliranno neanche una falange, un vestito, un diadema; scaveranno e puliranno e sistemeranno, del passato di questi giorni futuri lei sarà la svanita, la scomparsa, per chiunque, tranne per lui, lui contro il consueto, per lei ancora palpitante, ancora reale, ancora integra, ancora ovunque, loro, ancora loro”.
Lo strazio è infinito, ma, dal buio tombale in cui si è rincantucciato, Ferdinando riesce a rivedere qualche parvenza di vita grazie all’intervento di Sandra, una psicoterapeuta a cui ha fatto ricorso dietro le insistenze dei cognati. I due intrecciano dialoghi di forte intensità emotiva, dapprima stentati per lo strenuo scetticismo del protagonista, poi via via di maggior respiro. Riescono così a far emergere dalle profondità della coscienza di Ferdinando il punto di svolta, equidistante tra il prima e il dopo, il momento dello squarcio del suo universo.
Ferdinando è di nuovo in piazza Duomo, nel centro di quell’attimo: “Guarda ancora il suo riflesso frontale che ora è diventato di schiena, sempre più piccolo mentre si dirige alla cassa. Poi, quando scompare, fa per seguirla, per vedere dove va, ma qualcosa lo tiene fermo alla sedia. Una forza sconosciuta che gli ha permesso di esserci, ma non di cambiare le cose come vuole lui. Impossibilitato a muoversi, in preda a una furia improvvisa, si gira verso il Duomo. Vorrebbe spaccare tutto, vorrebbe prendersi Patrizia, portarsela a casa, mettere fine all’incubo, svegliarsi con lei che lo sgrida perché sta ancora dormendo, avere la cucina invasa dall’odore di bietole. Si ribella, scalcia, tira i pugni al tavolo ma è come uno spettro”.
Ma non si può tornare a prima dell’attimo, e Ferdinando deve rassegnarsi e lasciare andare via Patrizia, per ricomporne, sia pure in modo precario e dolorosissimo, la memoria e quindi la propria stessa esistenza.
Il finale, vagamente distopico, conferma nella memoria del lettore l’impressione di straniamento che caratterizza in crescendo tutto il libro, che, nel suo complesso, pare teso se non a negare l’esistenza del limite, come elemento che presiede alle nostre esistenze, almeno a spingerlo comunque il più avanti possibile.
La rutilante sontuosità della scrittura di Vaccari lascia infatti scorgere un latente, e, per i due protagonisti, forse non del tutto consapevole, desiderio di infinito, espresso tramite le forme facilmente decifrabili di un amore coniugale di straordinaria intensità. Un amore che, nella sua pretesa di superare i termini dell’esistenza, non sa riconoscere la propria fine.
Tag: Marassi, Michele Vaccari, Rizzoli, Un marito
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