di Demetrio Paolin
Molti, tra ieri e oggi, hanno condiviso una foto, dove è ritratta una donna dal sorriso sguaiato, la dentatura orribile, con indosso una maglietta che, ricalcando i caratteri della Disney, portava scritto “Auschwitzland”. Il mio primo sentimento è stato di indignazione, mi sono sentito offeso, poi mi sono chiesto: cosa ha reso possibile quella maglietta? A me interessa più comprendere questo che non il semplice condannare un gesto scriteriato.
Provo a fare un ragionamento che inizia con un cortocircuito, che potrei riassumere in questo modo: la maglietta “Auschwitzland” non è molto diversa dalla scritta – che imperversava sui social qualche anno fa – #iosonoannefrank. Anzi direi che sono due facce del medesimo atteggiamento.
Durante il fenomeno #iosonoannefrank e simili, le bacheche e i profili di molti utenti hanno duplicato l’immagine della ragazza ebrea, autrice di un Diario e morta nel lager. Anne Frank ha subito una sorta di riduzione dell’immaginario. Non era più una persona reale, non era neppure più una semplice autrice, non era neppure più (penso al romanzo di Roth) un semplice personaggio, ma era diventata una sorta immagine matrice alla Andy Warhol.
La duplicazione di quella fotografia aveva lo stesso potere di mercificazione del quadro di Marilyn.
Il passaggio da questo svilimento d’immaginario allo svuotamento totale di senso dell’esperienza del lager è brevissimo; tanto che così si può arrivare a fare del lager una parodia. Infatti dal punto di vista meramente retorico la maglietta indossata dalla signora al raduno di Predappio è una parodia, perché unisce due universi ben individuabili ma distinti.
Il problema, secondo me, è che anche #iosonoannefrank è una parodia, perché anche in questo caso unisce due universi conosciuti ma distinti. Nessuno di noi è Anne Frank, ne potrà mai esserlo, nessuno di noi è gasato, nessuno di noi ha vissuto le sue privazioni. Noi siamo comodi, al caldo, scriviamo le nostre parole apertamente senza che nessuno possa in qualche modo impedircelo.
Noi non siamo Anne Frank allo stesso modo come Auschwitz non è Disneyland.
La verità, che forse non vogliamo dirci, è che la Shoah è diventata pop; è entrata nella nostro immaginario che l’ha via via addomesticata. Pensiamo solo alla percezione del fenomeno che può avere uno studente delle superiori. Per lui il lager è diventato un momento della gita scolastica, da mettere in mezzo alla visita di Cracovia o di Monaco di Baviera o di Salisburgo; lo sterminio è una tappa tra le altre. Così, lentamente, la Shoah e il suo concetto si sono resi porosi a queste idee parodiche. Per i ragazzi delle scuole di ogni ordine e grado il deportato di turno è sempre di più uno che vedi ogni anno, il 27 di gennaio, e sedendoti in aula magna già sai cosa accadrà, così come sai che il 25 dicembre arriva Babbo Natale. Date queste premesse è logico il travisamento e la riduzione del fenomeno dello lager.
Abbiamo addomesticato la Shoah, l’abbiamo resa un fatto commerciale: viaggi organizzati, pacchetti turistici, depliant; abbiamo prodotto professionisti della Shoah (intellettuali, docenti, scrittori, conferenzieri). Senza contare nel mondo editoriale il fenomeno dei libri sulla Shoah che devono uscire tassativamente intorno a Gennaio così da legarsi alle presentazioni nelle scuole, alle commemorazioni etc etc. Tutto questo insieme di proposte culturali ha prodotto l’esatto opposto di quello che si desiderava: non una memoria attiva, ma lo svuotamento dell’evento.
Ormai Auschwitz è un nome, puro e vuoto, non ha radici nella storia e non ha più radici nel futuro: lo abbiamo svuotato perché lo abbiamo nominato e con troppa leggerezza. Auschwitz, che è il male assoluto, il luogo più profondo della radicalità dell’offesa, non dovrebbe essere nominato invano, proprio come Dio. Nominare Auschwitz è bestemmiare come violare un comandamento. Invece si è pensato, erroneamente, che per ricordare bisogna ripetere continuamente, non sapendo che proprio il continuo mormorio di una parola fa della parola puro suono, vaso vuoto, che ognuno riempie di cosa vuole.
Ecco guardiamoci allo specchio. La faccia sorridente della donna non è difforme dalla nostra faccia, quando – senza pensare alle conseguenze – parliamo di canile lager, di ospedale lager, di fabbrica lager, di ospizio lager; quando usiamo il termine deportazione con troppa facilità; quella faccia sorridente siamo noi, più di quanto vorremmo ammetterlo. Perché abbiamo abdicato al pensiero e alla complessità, in nome di un facile slogan: quello della donna è stupido e vuoto; il nostro è sterile e vuoto, ma il risultato è comunque disastroso.
Tag: Andy Warhol, Anne Frank, Auschwitz, Philip Roth, Pop
29 ottobre 2018 alle 13:56
[…] via Auschwitz ovvero il male “pop” — vibrisse, bollettino […]
29 ottobre 2018 alle 17:42
Sono pienamente d’accordo.
29 ottobre 2018 alle 22:13
Del resto… sulla banalità del male ci avrebbe già messo in guardia da tempo una mente autorevole – Hannah Arendt.
30 ottobre 2018 alle 18:26
Un’analisi lucida, autorevole della deriva umana, della presenza della bestia pronta a ripresentarci l’orrore.
30 ottobre 2018 alle 21:27
Apprezzo l’acume di questo ragionamento. Non credo Auschwitz sia (ancora) un nome “puro e vuoto”, se non perche’ la comunita’ ebraica vigila affinche non lo diventi. Temo che Auschwitz debba temere piu’ il Tempo che si mangia tutto che non la retorica degli umani. Ma, ripeto, apprezzo questo articolo e quello che alla fine ci dice non tanto sul destino di Auschwitz, ma sul nostro – e del nostro ciarlare a vanvera.
30 ottobre 2018 alle 23:06
Con i miei amici scherziamo continuamente su ebrei, negri, froci, stupri e così via. Tutti trentenni. Nessuno di noi lo farebbe in pubblico. Mi trovo concorde con alcune parti del ragionamento di Paolin, ma credo forse cose diverse. Intanto come è stato scritto c’è il fattore tempo, lo stesso che viene citato quando si discute intorno alla satira. Più tempo passa più si può scherzare su certe cose. Sono concorde che la Shoah venga nominata con leggerezza, ma non credo sia questo che l’ha addomesticata. Forse non c’erano altre possibilità. Credo appunto dipenda dal tempo e dal fatto che chi non ha vissuto in quel periodo non può considerarla in un certo modo, a meno che non vi abbia particolari motivi. Uno può avvertirla come assoluta in certi momenti, visitando certi luoghi, ascoltando i superstiti, ma sono momenti, che poi passano. Trovo inutili e senza senso i giorni del ricordo, per tre ragioni. La prima è che noi non impariamo dai nostri “errori” nel quotidiano, figuriamoci come collettività. La seconda è che se l’educazione che ricevono oggi i figli, a casa e a scuola, non è sufficiente per scongiurare certe tragedie, allora c’è qualcosa che non va nell’educazione, e non saranno certo le giornate della memoria a fare la differenza. La terza è che chi nasce oggi non ha alcun legame con il nazifascismo, come chi nasce in India, in Cina o chissà dove, quindi non si capisce perché dovrebbe imparare certe cose, dal momento che non credo che i bambini cinesi o indiani lo facciano con le tragedie europee, al fine di non ripeterle. Al fine di conoscere ovviamente ha senso. Se dovessi dire dove vedo il disastro dunque, è nel fatto che ci sono persone che non hanno la sensibilità per capire i contesti nei quali si può scherzare e quali no. Io non avverto la necessità di mantenere la memoria attiva della Shoah. Pubblicamente come non bestemmio pur essendo ateo (o a maggior ragione, non avendo per me senso bestemmiare, ma essendo la bestemmia un gesto linguistico comune di sfogo) così ho la sensibilità di ritenere la Shoah qualcosa di simile a un evento sacro. Qualcosa però da dimenticare collettivamente e da praticare privatamente o collettivamente da parte delle comunità coinvolte che giustamente ne mantengono la memoria.
31 ottobre 2018 alle 15:13
Mi rifiuto di riconoscere che anche una minima parte dei miei pensieri, delle mie parole, della mia coscienza possa essere accomunata all’immagine e, soprattutto, al cervello e ai sentimenti (si fa per dire!) della sig.a. Selen Ticchi.
È una trentenne, adulta e vaccinata e – per quanto non sembri – potrebbe aver frequentato anche qualche scuola, oltre ai camerati di Forza Nuova.
Non ha raccattato quella maglietta in un cassonetto della spazzatura (anche se quello dovrebbe essere il suo posto) e l’ha indossata con evidente compiacimento in un’occasione per lei speciale: la ricorrenza dell’anniversario di un criminale, celebrata ogni anno dai più squallidi nostalgici di quell’oscuro periodo della nostra storia.
L’ha esibita sghignazzando sul fumo dei crematori, sulle cataste di cadaveri, sui treni della morte che è impossibile lei non conoscesse, magari anche solo per negare l’esistenza come qualche cattivo maestro le avrà insegnato.
No, non ho nulla in comune con lei e con la sua ideologia nefasta. Io sto con la vita, non con la morte.
1 novembre 2018 alle 10:28
[…] in sostanza pensavo, da sempre. E la cosa che io inquietamente pensavo (Giulio Mozzi la scrive in questo articolo che va letta per intero, secondo me, senza esitazione) è per esempio […]
28 dicembre 2018 alle 08:13
In questo senso anche il Colosseo e le Catacombe di San Callisto è tipo disneyland. Ma la storia va comunque fruita, luoghi e reliquie vanno visitati, anche in gita scolastica, altrimenti si perde il contatto tra quel che c’è nei libri di storia e la realtà tangibile. Specie ora che i testimoni diretti si avviano all’estinzione, ben venga Auschvitz come attrattiva quasi parco a tema Disneyland. Sembra banale dirlo che serve “per non dimenticare”: lo dicono tutti sempre, ma poi banale non è, perché poi di fatto si dimentica lo stesso.
28 dicembre 2018 alle 08:42
Io per esempio ne ho già dimenticato lo spelling 😦
13 settembre 2019 alle 15:00
Gentile Sig. Mozzi,
ci siamo incontrati da Sironi anni e anni or sono, in vista dell’eventuale pubblicazione del mio primo romanzo “Il corvo sulla neve” che, a suo dire, aveva felicemente superato il suo esame ma era stato posto in lista d’attesa per l’uscita nell’anno successivo (credo fosse il 2006!l). Una piccola casa editrice (VIENNEPIERRE, della compianta Vanna Massarotti Piazza), mi pubblicò in tempi più rapidi e “prenoto'” il libro successivo, allora in fieri.
La Sua scomparsa, tuttavia, segnò la fine di VIENNEPIERRE e anche dell’unico canale editoriale su cui da esordiente avevo navigato con qualche soddisfazione.
Da allora, ho scritto altri due romanzi di narrativa storica: il primo su Totila, il re Ostrogota protagonista della seconda Guerra Gotica contro I Bizantini, il secondo (“IL DONO DELLA VEGGENTE”) che, per ambientazione e riferimenti stilistici e letterari, si riallaccia alle saghe dei Vichinghi.
Mi piacerebbe sottoporli al suo giudizio (seguendo la procedura chiaramente da lei indicata)
ma gradirei sapere, preliminarmente, se la narrativa storica può rientrare nel progetto editoriale di MARSILIO.
Spero vivamente di sì, anche perché mi darebbe il destro di rinnovare la nostra conoscenza.
Con i migliori saluti.