“1958: una storia dell’età atomica”, di Stefano Trucco

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di Stefano Trucco

[Che io abbia molta stima di Stefano Trucco, narratore finora poco notato, lo sanno – credo – tutti. Fin da quando ospitai un suo istruttivissimo intervento sulla sua partecipazione a Masterpiece. L’editore Intermezzi ha pubblicato un suo piccolo romanzo. Ve ne ho offerto ieri l’inizio; e oggi un altro pezzo. gm]

Qui da noi in Italia «quella cosa lì» si può dire in tanti modi: frocio, finocchio, omosessuale, checca, rottinculo, pederasta, sodomita, bardassa, culattina, invertito, paraculo, ricchione, uranista… Mi piace tantissimo come dicono a Firenze: «c’è le paste», che sembra l’annuncio di una festa. Invece odio come lo dicono a Genova, «buliccio», che sembra una specie di lumaca o verme bavoso.

Negli ultimi vent’anni circa, specie dopo la guerra, s’è diffusa un’espressione nuova: «fascista».
Ora, il fascismo che imperversò per l’Italia dopo la Prima Guerra Mondiale era tutta un’altra cosa. Non per niente l’aveva fondato Benito Mussolini.

Mussolini, un romagnolo, figlio del fabbro del paese, dopo aver fatto il maestro, il muratore, il barbone e chissà che altro, aveva risolto il problema di come mettere insieme il pranzo con la cena buttandosi in politica. Un fantastico oratore, era rapidamente diventato un caporione socialista, fino a diventare direttore dell’Avanti. Poi, nel 1914, era uscito (o era stato cacciato) dal partito, che non voleva la guerra mentre Mussolini la voleva: s’era messo con D’Annunzio e aveva fatto di tutto per far entrare nel conflitto l’Italia al fianco degli Alleati, generosamente finanziato da massoni e francesi.

Dopo la vittoria crea un movimento detto appunto «fascista» la cui principale attività è quella di manganellare e far bere olio di ricino a socialisti, comunisti, popolari, contadini e operai per conto di agrari e industriali, ovviamente in nome della grandezza dell’Italia. I picchiatori, organizzati in squadre e perciò detti «squadristi», erano spesso ex Arditi delle trincee, si chiamavano fra di loro «camerati» e per distinguersi indossavano camicie nere. Fecero fuori qualche centinaio di persone e nell’ottobre del 1922 sembravano sul punto di conquistare l’Italia.

Ecco, mio padre era uno di loro. Ex Ardito nell’invitta Terza Armata, era andato a Fiume con D’Annunzio e aveva dato fuoco a una Casa del Popolo vicino a Varese, ammazzando una dozzina di persone – un assassino, per non usare eufemismi. Ma a quei tempi lo erano in tanti, e non solo loro…

Poi, nel giro di tre giorni, fra il 28 e il 30 ottobre, andò tutto storto. La cosiddetta «Marcia su Roma» finì malissimo, piovve troppo e bastò un reggimento di fanteria per disperdere le squadre fasciste. Mussolini sfuggì all’arresto e scappò in Francia, che gli doveva un favore per l’entrata in guerra dell’Italia. Insomma, i veri padroni dissero: finché bastonavate i socialisti bene ma ora vi siete montati la testa e vorreste il potere tutto per voi. Chi vi credete d’essere? A cuccia!

Il nuovo Presidente del Consiglio, il generale Caviglia, disperse le ultime squadre e, già che c’era, anche i comunisti, che tanto non piacevano a nessuno.

Per un po’ Mussolini, da Parigi, tentò di rientrare nel gioco politico, alleandosi con questo e quello, ma riuscì solo, nel 1925, a farsi espellere da quel che rimaneva del partito. Denunciò con violenza i suoi vecchi camerati. Appena in tempo, dato che pochi mesi dopo a Torino, in piazza San Carlo, un gruppo di fascisti fanatici guidati da Pietro Brandimarte lanciò tre bombe a mano nell’auto scoperta in cui viaggiavano Re Vittorio Emanuele e il capo di stato maggiore dell’esercito, Pietro Badoglio. Vittorio Emanuele III, il Re Soldato, quello che passò l’intera guerra mondiale al fronte a fotografare i soldati. La storica sfortuna dei Savoia con le auto scoperte. Tragedia nazionale, folle piangenti sfilano dinanzi al feretro sull’Altare della Patria. Umberto II comincia la sua carriera di «Re triste». In compenso, per quel fascismo non c’è più storia.

Ancora oggi ci sono un bel po’ di nostalgici di quel Fascio in Argentina e Uruguay e, per motivi che mi restano oscuri, i giornalisti di tanto in tanto vanno a intervistarli e gli chiedono come la pensino su quel che succede in Italia. Gli altri leader del partito se ne fecero una ragione e si adattarono, diventando Nazionalisti, come Dino Grandi che finì ambasciatore a Città del Messico, Giuseppe Bottai che finì direttore del Messaggero, o Curzio Malaparte che finì per diventare Curzio Malaparte. O come mio padre, che aveva molti amici nell’esercito in grado di apprezzare l’utilità di un uomo d’azione non del tutto stupido e col gusto del segreto.

Sì, ma poi? Poi successe che nel 1928 un ex ras (così si indicavano i capi delle squadracce) fascista di Trieste, Augusto Turati, uno degli ultimi disperati che formavano il Gran Consiglio del Fascismo in esilio a Parigi, si fece arrestare nel corso di una retata in un bordello specializzato a Montparnasse, sfortunatamente in compagnia di un delizioso ragazzino algerino. Guarda caso, c’era pure il fotografo di un giornale giusto lì a portata di mano…

La notizia rimbalzò subito in Italia e visto che dei fascisti ormai si poteva dire tutto il male possibile, ne fece pure una canzonetta Petrolini alla radio: «Qual è il modo giusto di usare un manganello? Non lo so, ma di certo non è quello!», e si rise tantissimo. Poi saltarono fuori altre storie piccanti su altri ras ‘col vizietto’ e su certe cose allegre successe a Fiume (a Fiume, eh?) e il seme venne piantato. Una di quelle battute che ripetono tutti quelli che non hanno senso dell’umorismo per fare gli spiritosi.

Del resto, dicevano certi giornalisti, c’era un rapporto molto stretto fra movimenti d’estrema destra e sodomia, come dimostrano numerosi eclatanti esempi in Francia e in Germania – amicizia virile, disprezzo della donna, sfida alla morale borghese… Venne tirato in ballo l’eccentrico professor Evola, il creatore dell’Imperialismo Pagano e ammiratore di Mussolini, con l’accusa di mettere le mani addosso ai ragazzini – seguirono querele e processi che duravano ancora allo scoppio della guerra e che contribuirono a tenere vivo il tema fascismo uguale omosessualità…

Però, dall’altra parte, c’era ancora Mussolini, «l’uomo che volle farsi Re», l’imperterrito frequentatore di transatlantici che imperversava da Cannes a Hollywood, l’idolo dell’aristocrazia, sia del sangue che del denaro, il nuovo Giacomo Casanova, lo «sciupafemmine», il corrispondente di guerra pagato milioni dai giornali americani, l’amico di lord inglesi, cinematografari ebrei, scrittrici tedesche, duchesse francesi, samurai giapponesi e signori della guerra cinesi, la star che andava alle prime di film basati sulla sua vita, l’uomo, in breve, che sapeva farsi pubblicità come nessun’altro al mondo. Almeno fino alla misteriosa morte nell’Hotel Adlon di Berlino nel 1932. Più maschio italico di così.

Il termine finì per imporsi durante l’Occupazione, quando per qualche motivo i peggiori fra i Giustizialisti, quelli che denunciavano e torturavano i Patrioti, presero l’abitudine di chiamarsi anche loro fascisti o nuovi fascisti e a pavoneggiarsi in camicia nera e chiamarsi l’un l’altro «camerata». Bisogna ammetterlo: erano spesso e volentieri sodomiti, come il famigerato Gino Bardi a Roma (ci sono omosessuali che puntano sul rosa, mentre altri impazziscono per il nero, posso testimoniarlo). Giovani nichilisti a caccia di sensazioni forti che erano ‘fascisti’ perché fascista era la cosa peggiore che si potesse essere in Italia, i malvagi fascisti che avevano ucciso il Re Soldato. Un po’ come i teddy boys oggi. Al Console Preziosi e ai capi Giustizialisti non piacevano, come non piacevano ai tedeschi, ma qualcuno doveva fare il lavoro sporco. Anche ai Patrioti non parve vero di poter accusare i Giustizialisti di sodomia.

Così, dopo la guerra, il termine rimase ed era un gran brutto termine, fatto apposta per insultare, provocare una reazione e giustificare la violenza. Il bravo italiano patriottico era antifascista e maschio al 100 per 100. Poi, poco a poco, ci si è abituati, i fascisti veri sono ormai un lontano ricordo e il termine è diventato d’uso comune, un «sì, sono anch’io fascista» ai giardini pubblici o un «ce l’hai una sigaretta, camerata?» nel cesso del cinema.

Ecco, mio padre era un vecchio fascista e io sono un nuovo fascista.

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