[Che io abbia molta stima di Stefano Trucco, narratore finora poco notato, lo sanno – credo – tutti. Fin da quando ospitai un suo istruttivissimo intervento sulla sua partecipazione a Masterpiece. L’editore Intermezzi ha pubblicato un suo piccolo romanzo. Ve ne offro qui l’inizio; e domani un altro pezzo. gm]
Il cameriere di mezz’età, col suo maldestro riporto e l’aria di uno schiacciato dalla vita, sa di chi è la colpa se fuori non si può uscire e dentro non si può stare.
«Sono tutte ‘ste bombe atomiche che fanno esplodere gli americani e i maledetti russi! Non s’è mai visto un luglio così! Altro che 2000, qui non arriviamo al mille e novecento e sessanta!» lo pronuncia così, scandendo.
E cosa vuoi dirgli? L’atomica ha la colpa di tutto, dicono, dal cancro alla violenza giovanile, dall’arte astratta al fatto che quest’anno non siamo nemmeno arrivati in finale ai Mondiali. Figuriamoci il caldo e le stagioni che non sono più le stesse (che magari è pure vero). È più di due mesi che l’Italia pare un deserto di piante secche e nuvole di sabbia, come se la Libia avesse conquistato l’Italia e non viceversa. Nelle ultime due settimane, poi, 40 gradi fissi, da Bolzano a Siracusa. Ogni giorno qualcuno muore di insolazione. Dicono che pure il Papa stia male. Abbiamo traversato un Po ridotto a rigagnolo. Sì, è luglio, ma un luglio così davvero non c’era mai stato.
La Giulietta rossa, comprata giusto due mesi fa con i soldi della pubblicità e un bel po’ di cambiali, fa i 120 l’ora con comodo e quindi lo senti meno, il caldo, ma basta che parcheggi e i 10 metri fino alla porta automatica dell’Autopausa ti pezzano immediatamente la camicia bianca.
Poi, appena le porte si aprono come per magia, sei investito dall’aria refrigerata al massimo che ti raggela immediatamente e hai come un attimo di sincope.
Il cameriere non si lamenta del caldo fuori, ma del freddo dentro. La politica aziendale della Motta è «Motta va al massimo!» e non si può assolutamente scendere a una temperatura più umana. L’hai voluta la ricchezza, bifolco? E ora trema dal freddo. Anche tu che te ne stai lì a rabbrividire fra le merci luccicanti e illuminate e le canzonette allegre della filodiffusione e il cameriere che bestemmia perché ci deve stare tutto il giorno, a soffrire il freddo, e pensi che forse forse dovevi portarti dietro un maglioncino.
Fossero tutti lì, i problemi…
Ma sono maleducato. Meglio che mi presenti.
Buongiorno a tutti, mi chiamo Andrea Carcano e sono a nato a Varese nel 1930. Vivo a Milano, dove mi sono laureato in giurisprudenza per far contenta mia madre e i nonni materni (che sono quelli che ci mettono i soldi, diciamolo), poi ho fatto il militare a Cuneo, dove mi sono divertito più del previsto, e ora studio recitazione all’Accademia dei Filodrammatici, la mia vera passione. Voglio fare l’attore e ho già lavorato in scenette pubblicitarie per la televisione, di sicuro avete visto quella del Cinzano Bianco insieme a Eleonora Rossi Drago, quella dove esco dalla piscina in costume, e anche (vergogna!) in un paio di fotoromanzi. Sono quel che si dice un bel ragazzo, un tipo alla Gérard Philipe, un po’ più sportivo, e indosso bene. Per questo vengo invitato spesso nelle feste che contano, io e certi miei amici, giovani gentiluomini che vivono nella fatata e paradossale condizione di non avere mai una lira in tasca e al tempo stesso di non avere problemi di soldi. In fondo si vive con poco, nella Milano spumeggiante dell’anno 1958, 33° dell’Era Umbertina Seconda. Basta conoscere le persone giuste.
Di recente mi sono capitate due cose importanti: primo, mi hanno scelto per una parte piccola ma importante, lo stupratore arabo, ne Le malentendu d’Alger di Jean-Paul Sartre, che Strehler metterà su quest’autunno al Lirico. Secondo, mi sono innamorato.
Sono, indubbiamente, figlio dell’Onorevole Carcano ma, credetemi, la cosa non mi sta aiutando. In realtà, non lo vedo da quasi sette anni, cioè da quando lui e mia madre hanno divorziato.
Non lo vedevo, per essere precisi. Fino a stanotte quando, rientrando in casa da una serata di tranquilli piaceri mondani con Alberto, Antonio, Renato, Klaus, Jean Claude, e l’Elefante, davvero, non s’era fatto nulla di che, ho sentito prima l’odore e poi visto la punta rossa incandescente di un sigaro. Era mio padre seduto in poltrona al buio, immobile, che mi aspettava. C’era mancato poco che gridassi.
Ora sono qui, a rabbrividire in questa modernissima Autopausa a ponte sulla Strada Nazionale, dalle parti di Fiorenzuola d’Arda. Mio padre è da venti minuti chiuso nella cabina telefonica a parlare concitatamente con chissà chi. È vestito del suo classico gessato antracite, come se per lui non ci fossero né il caldo né il freddo.
Io aspetto, con la mia tazzina di caffè che sa di nylon, e penso alla Walther P.38 di mio padre nel cassetto portaguanti della Giulietta.
L’hanno spiegato qualche giorno fa nella classe di drammaturgia, il Principio di Cechov: «Se nel primo atto mostri che c’è un fucile appeso alla parete, o una Walther P.38 nel cassetto portaguanti della Giulietta, nel secondo o terzo atto deve assolutamente sparare. Se la Walther P.38 non viene usata, allora non dovresti nemmeno dire che c’è, lì chiusa nel cassetto portaguanti della Giulietta».
Credo che mio padre non stia bene. Forse è impazzito. Ha paura, e se c’è una cosa che non ho mai visto è mio padre spaventato e questo fa paura a me. Non so cosa sia, se l’età, qualche donna di troppo o la crisi di governo, ma non è normale. Già il fatto che mi abbia cercato non è normale.
Ma la vera domanda è un’altra: come faccio a dire a mio padre che sono fascista?
11 Maggio 2018 alle 09:57
[…] L’editore Intermezzi ha pubblicato un suo piccolo romanzo. Ve ne ho offerto ieri l’inizio; e oggi un altro pezzo. […]
10 luglio 2018 alle 10:47
Ho apprezzato anch’io questo piccolo romanzo (piccolo nella lunghezza), che mi ha sorpreso profondamente. E’ in casi come questi che si spera che l’autore abbia, da qualche parte, un romanzo di tre o quattrocento pagine pronto per la pubblicazione.