
Lo scrittore francese Serge Doubrovsky: il primo a parlare della propria opera come di una “autofinzione”
di giuliomozzi
Sono in cucina, sto pelando gli asparagi. Il telefono portatile suona. E’ un numero ignoto. Rispondo.
“Buongiorno, lei è Giulio Mozzi?”, dice una voce maschile leggermente rauca.
“Sì, buongiorno”, dico, “lei chi è?”.
“Be'”, dice la voce maschile leggermente rauca, “a questo punto potrei dire che sono Giulio Mozzi anch’io, come tutti”.
“Bene, Giulio Mozzi”, dico. “Mi dica”.
“Ero l’altro giorno lì a Milano, alla Statale”, dice Giulio Mozzi, “a sentire la sua lezione sull’autofiction“.
“Non pronunci all’inglese”, dico. “Semmai alla francese”.
“E cioè?”, dice Giulio Mozzi.
“Autofiction“, dico. “Oppure può dire, italianamente, autofinzione o finzione di sé”.
“Finzione di sé mi pare brutto”, dice Giulio Mozzi, “mi sa una roba di simulazione, gesuitica…”.
“Ho sempre avuto un’ammirazione incondizionata per i gesuiti”, dico.
“D’altra parte”, dice Giulio Mozzi, “lei ha dichiarato più volte di essere un uomo del Seicento”.
“Sì”, dico. “Il barocco è il mio ambiente naturale, il gesuitismo è la mia forma mentis. Ma è di questo che lei voleva parlare?”.
“No”, dice Giulio Mozzi.
“E allora dica”, dico.
“Volevo parlare di questa cosa che lei diceva”, dice Giulio Mozzi, “che secondo lei l’autofinzione è un po’ una bufala, se non una fesseria”.
“Non ho usato nessuna di queste due parole”, dico.
“Lo so”, dice Giulio Mozzi. “Sto interpretando”.
“Esistono dei limiti all’interpretazione“, dico.
“Ma io sto facendo una tesi su Derrida“, dice Giulio Mozzi.
“Oh”, dico. “Mi spiace”.
“Eh, i casi della vita”, dice Giulio Mozzi.
“E dunque mi dica”, dico. “Lei ritiene forse che, per usare il suo triviale linguaggio, l’autofinzione non sia né una bufala né – e tanto meno – una fesseria?”.
“No, no, per carità, non mi permetterei mai di dissentire da Giulio Mozzi”, dice Giulio Mozzi. “E’ che mi ha colpito l’argomentazione. Lei in sostanza ha detto, a dirla senza tanti giri di parole…”.
“Avevo da dire una cosa che si dice in due minuti, lo so”, dico, “ma dovevo riempire due ore di lezione”.
“Sì, sì, mi rendo conto, si figuri”, dice Giulio Mozzi, “ma lei ha detto, in sostanza, che l’autofinzione è un genere letterario…”.
“Credo di aver parlato di pratica“, dico, “più che di genere letterario“.
“Sì, sì, certo”, dice Giulio Mozzi, “lei ha tutto questo suo gergo sociologistico, si vede che ha letto de Certeau, mancava solo che ci parlasse del bricolage… Ma insomma, lei diceva che l’autofinzione è una pratica – usiamo la sua parola – che diventa possibile solo quando l’autore, in quanto persona reale e carnale, si trova esposto, visibile al pubblico attraverso tutto il putiferio degli old e dei new media, nonché nell’ottovolante delle presentazioni, dei festival, degli apericena letterari, eccetera, e quindi il lettore ha, almeno teoricamente, la possibilità di confrontare la vita reale dell’autore con la finzione che l’autore stesso ne fa nella sua opera autofinzionale. Ho capito bene?”.
“Sì”, dico. “Se io scrivessi un’opera nella quale trasformo finzionalmente la mia vita, ma nessuno conoscesse la mia vita, quest’opera potrebbe essere percepita come autofinzionale?”.
“No, in effetti”, dice Giulio Mozzi. “E’ un po’ come la storia dell’albero che cade nel bosco senza che nessuno se ne accorga. Sarà caduto davvero?”.
“Appunto”, dico.
“E tuttavia”, dice Giulio Mozzi, “proprio perché lei ha parlato dell’autofinzione in quanto pratica, cioè in quanto attività che l’artista compie, e non in quanto genere letterario, cioè in quanto testo che risponde a certi criteri di descrizione, si potrebbe sostenere che indipendentemente dalla percezione – pardon, dalla ricezione – di un’opera come autofinzionale o non autofinzionale, l’esperienza che l’autore ne fa nel farla, ossia nel praticarla, è la medesima”.
“Non ne sarei sicuro”, dico. “E’ come la differenza tra fare sesso nel proprio letto, nella propria camera, e farlo in camporella“.
“Prego?”, dice Giulio Mozzi.
“Lei ha presente il sesso?”, dico.
“Presente e vivo, e il suon di lui”, dice Giulio Mozzi.
“Lei ha presente la camporella?”, dico.
“Come no!”, dice Giulio Mozzi. “Ho fatto il militare a Cuneo“.
“Ecco”, dico. “Ora: un conto è fare sesso nella tranquillità della propria camera, sapendo che nulla e nessuno – se non forse il terremoto, la fine del mondo, è arrivato l’arrotino, o simili eventi estremi – potrà turbare l’intimità di quella pratica. E un conto è fare sesso in camporella, sapendo che per quanto ci si sia infrattati per bene potrebbe sempre sopraggiungere qualcuno – un’altra coppia in cerca del luogo adatto alle effusioni, un guardone, la buoncostume, la mamma – a spezzare, più o meno drammaticamente quell’intimità. Nel secondo caso ai piaceri consueti del sesso si aggiunge appunto il brividino dato dalla consapevolezza del poter essere scoperti. E’, in fin dei conti, la camporella, un atto di esibizione. Come l’autofiction“.
“Di nuovo. E’ francese, non inglese”, dico.
“Mi scusi”, dice Giulio Mozzi. “Autofiction“.
“O autofinzione”, dico.
“Senta”, dice Giulio Mozzi.
“Dica”, dico.
“Lei è mai stato studente universitario?”, dice Giulio Mozzi.
“No”, dico.
“Appunto”, dice Giulio Mozzi. “Lei non considera, dunque, la possibilità che la camporella possa essere, indipendentemente da brividini ed esibizioni, una pura e semplice necessità”.
“Vederti o non vederi tutta nuda”, dico, “era un fatto di clima e non di voglia”.
“Prego?”, dice Giulio Mozzi.
“Niente”, dico, “una vecchia canzone di Guccini“.
“Autofinzionale?”, dice Giulio Mozzi.
“Temo di sì”, dico.
“Comunque non ho studiato a Bologna”, dice Giulio Mozzi.
“Nemmeno io”, dico.
“E vabbè”, dice Giulio Mozzi.”
“A che punto eravamo?”, dico.
“All’autofinzione come pratica“, dice Giulio Mozzi, “e come genere letterario“.
“Una soluzione potrebbe essere”, dico, “cambiare la domanda”.
“La cambi, dunque”, dice Giulio Mozzi.
“Ci potremmo domandare non se un certo testo è, o non è, di per sé, autofinzione”, dico, “ma quando, a quali condizioni, un testo, a prescindere dalla sua essenza – per tacer delle intenzioni dell’autore – è autofinzione”.
“Il che implica, se non capisco male”, dice Giulio Mozzi, “che un testo possa essere autofinzionale in un certo momento, o in una certa situazione, o per un certo lettore, e non esserlo – quel medesimo testo – in altri momenti, in altre situazioni, o per altri lettori”.
“Già”, dico.
“Lei è un vero democristiano”, dice Giulio Mozzi.
“Sempre stato”, dico.
“A lei non interessa risolvere il problema”, dice Giulio Mozzi. “A lei interessa trovare una formula che lo ipostatizzi, che lo metta là, che accontenti tutti e non risolva nulla”.
“Bisogna vivere nella contraddizione”, dico.
“O nella mediazione interminabile”, dice Giulio Mozzi.
“Che è la stessa cosa dell’interpretazione interminabile”, dico.
“Lei sta cecando di usare contro di me i miei stessi argomenti”, dice Giulio Mozzi.
“E’ una vecchia tattica”, dico.
“E’ una tattica vecchia”, dice Giulio Mozzi. “Ma non voglio stare a questionare. Piuttosto, le propongo un’ultima domanda”.
“Purché sia proprio l’ultima”, dico. “Devo finir di pelare gli asparagi”.
“I suoi asparagi possono dormire sonni tranquilli”, dice Giulio Mozzi. “Mi dica dunque: questa nostra conversazione, secondo lei, è autofinzionale”.
“Da parte sua sì”, dico. “Da parte mia, no”.
“Ho capito. A risentirci, dunque”, dice Giulio Mozzi.
“Spero di no”, dico.
Tag: Francesco Guccini, Jacques Derrida, Michel De Certeau, Serge Doubrovsky, Umberto Eco
1 Maggio 2018 alle 09:15
Ho letto rapita. Una lezione sull’autofiction (pardon, in francese autofiction, anzi usiamo l’italiano: autofinzione). Mi piace usare l’autofinzione e specie negli esercizi sui dialoghi, un po’ come hai fatto tu (salvo che tu lo abbia fatto in modo magistrale). Mi serviva questa cosa e andrò ad approfondire su Serge Doubrovsky. Grazie di tutto.
1 Maggio 2018 alle 09:29
A me viene il sospetto che si tratti “sempre” di autofinzione, anche qui, anche ora, dice Nadia Bertolani. Ma, infine, cosa ne può sapere lei?
1 Maggio 2018 alle 09:45
Non so, Nadia, sinceramente dubito che I promessi sposi siano autofinzione.
Tiziana: il romanzo di Doubrovsky che fonda ufficialmente l’autofinzione s’intitola Fils. E, dirò, a me non è sembrato un gran romanzo – con l’aggravante d’essere lungo 469 pagine. Non è stato tradotto in italiano.
1 Maggio 2018 alle 10:59
Il problema vero non è l’albero che cade quando nessuno l’ascolta: pure Einstein, che per fortuna non scriveva romanzi, sapeva che la Luna esiste anche quando nessuno la guarda. Il problema è il silenzio del bosco che cresce. Che poi, dato il panorama odierno – così scevro di pini -, potremmo parlare del silenzio del prato che cresce. E dico silenzio in senso stretto: un tale parlava di scrittura come asce e ghiaccio e, si sa, colpi d’acciaio contro un iceberg rumore ne fanno parecchio.
Dunque: il silenzio in sé come mancanza di contenuto. Perché, di tutta questa gente che scrive di sé e che si pone sul piano di veline e tronisti, tra vecchi e nuovi medium, “chissenefrega” direbbe lo sboccato Giulio Mozzi. Viceversa, il gesuitico e secentesco Mozzi Giulio, potrebbe parimenti commentare: “cui prodest?”.
1 Maggio 2018 alle 11:28
Michele, a me interessa la categoria (critica, o addirittura sociologica) di “autofinzione”. Che poi tra le opere così etichettate o etichettabili ci siano capolavori o cioféche, è un’altra questione. In fondo, tra “tutta questa gente che scrive di sé” potremmo metterci, a occhio, anche Agostino d’Ippona, Montaigne, Rousseau… (e non oso immaginare – proprio perché me l’immagino, ovviamente – cosa avrebbe fatto Rousseau con Facebook a disposizione; mentre sono certo che Montaigne si sarebbe limitato a un sobrio blog).
1 Maggio 2018 alle 13:02
[…] cosa dell’otoficsiòn ci sta un po’ sfuggendo di […]
1 Maggio 2018 alle 17:18
Mi sembra un testo a cavallo tra Pirandello e Campanile. Gli asparagi da pelare mi fanno propendere per Campanile. E, per rimanere in tema, è una lettura gustosissima.
2 Maggio 2018 alle 09:15
Campanile, senz’altro, Donatella.
2 Maggio 2018 alle 11:35
Testo molto istruttivo, come al solito. Grazie (anche per gli asparagi: non sapevo si pelassero; mi limitavo ad accorciare il gambo fino alla parte tenera. ma immagino che pelati siano più digeribili).
2 Maggio 2018 alle 14:04
Fiammetta: gli asparagi bianchi che vengono su da noi devono essere pelati, perché la parte esterna è molto fibrosa. Quelli verdi non i pelo.