di Luigi Preziosi
Carlo Bo scrive in uno dei testi fondativi dell’ermetismo (Letteratura come vita, del 1938) che la letteratura (come la vita) è uno strumento di verità, un tramite per conseguire la condizione esistenziale di “attendere con dignità, con coscienza, una notizia che ci superi”. Lo stesso atteggiamento di attesa, e la stessa concezione della letteratura come ausilio indispensabile per la comprensione del mondo, si ritrova (e non per caso) nell’intera opera del domenicano Jean – Pierre Jossua. Teologo e critico letterario, studioso particolarmente attento ai rapporti tra teologia e letteratura, nei suoi studi ha valorizzato quella parte dell’universo letterario che possiede anche significato teologico nel senso etimologico del termine, si costituisce cioè come un discorso da cui traspare il divino, e non soltanto in praesentia ma anche e soprattutto in absentia, come nostalgia o come rimpianto.
Di particolare interesse sono allora le sue recenti Brevi nuove della terra e del cielo (Edizioni San Paolo, 2017), nelle quali l’autore esprime la stessa propensione all’esplorazione del mondo presente nei saggi, che qui però non si manifesta attraverso il rigore della ricerca scientifica, ma nello svelamento di un profilo più intimo ed esperienziale. Il libro è la singolare storia di un’anima, tracciata con una serie di annotazioni composte tra il 2010 e il 2015, nelle quali l’autore legge la ferialità dell’esistenza con le lenti del suo duplice sapere, teologico e letterario. Commenta (programmaticamente in non più di cinque righe) fatti, impressioni, sensazioni, ricordi, e quanto può impregnare la coscienza di un uomo che vive pienamente i nostri giorni, registrando tutto con un’attenzione particolare ad identificare segnali, a ricavare indicazioni che superino l’ordinario che il quotidiano ci offre.
Per Jossua tutto ciò che è del mondo attiene anche ad una frazione infinitesimale dell’infinito, e si riesce ad averne consapevolezza per il tramite della letteratura, strumento di comprensione della realtà contingente ma anche mezzo per indirizzare la tensione (o la nostalgia?) di ognuno verso l’eterno. Per altro verso, la peculiare sensibilità del letterato è vivificata in lui dalla fede del teologo: “dal primo giorno in cui Tu mi hai chiamato, al di là dei paesaggi già tanto amati, al di là dei testi e dei dipinti che mi avevano reso sensibile ad essi, Tu hai donato alle cose, agli esseri, alle opere, un’intensità di incanto e come una nuova profondità”.
L’autore scrive assecondando l’immediatezza delle sensazioni che di volta in volta innervano il commento, e con l’accortezza di tener lontano “il dogmatismo, il didatticismo, l’ermetismo che sono così spesso il tono proprio degli aforismi”, come dichiara nell’introduzione. Ne deriva la particolare scorrevolezza della lettura, anche laddove la materia si fa più impervia. Le riflessioni provengono dalla terra e dal cielo (letteratura e teologia?) ed il catalogo tematico conseguentemente è amplissimo. In certi casi, si tratta di appunti sulla fede, a cui la pianificata stringatezza conferisce una densità straordinaria. Così: “Dio è nell’istante. Quello in cui divento contemporaneo del Cristo…in maniera assolutamente semplice questo istante della mia vita in cui, come Jean Jaques [Rousseau], sperimento la semplice felicità e la gratitudine di respirare, di esserci ancora”. Nella meraviglia per il puro esistere, in atteggiamento costante di gratitudine, si consuma il dialogo continuo con Dio, che, prima ancora della contemplazione, implica l’ascolto della natura, nella sua specifica essenza di occasione di conferma per la speranza cristiana: ”le tre volpi … che vengono a visitarci ogni sera quest’autunno, senza paura di avvicinarsi … sono animali la cui vita è sempre minacciata, precaria, breve. E tuttavia sono così belle, così tanto intelligenti!” O ancora: “Dopo qualche giorno primaverile e dolce, ecco di nuovo il freddo e un po’ di neve…due piccole cinciallegre blu hanno fatto il giro della casa e son venute a picchiare col becco ai vetri della cucina per reclamare il loro cibo: “O uomo, che ti ritieni tu solo intelligente…”
Altrove, la riflessione religiosa si fa più intima, quasi un rendiconto a se stesso di come la fede possa evolvere a seconda delle età della vita: “questo sentimento della presenza, provato agli inizi della mia fede, è stato allora fonte di grande certezza. Dopo, l’ho compreso come un appello allo stesso tempo autentico e condizionato, ma non come un segno infallibile. Il solo segno, se si vuole, che mi è stato dato, è che questa grazia è stata feconda in me”.
Neanche la fede più intimamente sentita è scevra da momenti di stanchezza, la fatica di credere ci contiene tutti: “una ragazza è morta… sulla piazza, a Carpentras, un grande cerchio di persone, silenzioso, attende con dei fiori l’uscita del feretro. Il portico della chiesa apre su uno spazio oscuro, da cui non viene nessun rumore. Scena doppiamente angosciante: morte di un essere, eclissi di Dio”.
Ma è nelle apparenze minime del quotidiano che Jossua scorge le possibilità più ampie per sviluppare la sua concezione del vivere. Da esse trae molteplici occasioni per rendere il suo grazie, quasi a voler suggerire che è nell’hic et nunc (“nel piccolissimo spazio si può trovare l’universo”) che trova compiutezza l’umanità di ciascuno. Così tanto della vita gli pare apprezzabile, così tanto merita attenzione: “una giovane donna dai capelli ricci, di un biondo molto chiaro, dal viso aperto e ancora fresco, un’andatura vispa. Non l’ho mai incrociato prima su questo boulevard, e non la rivedrò certamente mai più. Non penso, come Baudelaire: O te che avrei amato…”, ma: che gioia che un’apparizione così deliziosa sia possibile!” Dal quotidiano, altrove, trae spunti per universalizzare l’esperienza più minuta, trasformandola in meditazione sulla mutevolezza delle cose: “il Tour de France passa davanti alla mia finestra…grande entusiasmo al passaggio della carovana pubblicitaria, così volgare. Un’ora dopo, il plotone di testa, che passa in un lampo, e poi gli inseguitori. E’ tutto. E si è già fatto fagotto.”
Dagli avvenimenti quotidiani direttamente vissuti, dal fluire della cronaca che si fa storia collettiva, dai ricordi, dalle sensazioni e dalle impressioni anche minime possono giungerci le notizie che attendiamo su noi stessi e sul mondo: la finitudine dei frammenti che Jossua aduna non è un limite, ma un’ esortazione a ricercare in ognuno di essi un riflesso minimo di verità sulla vita. In questo cercare nulla va perduto, tutto ha (o avrà) un significato: “nello stesso modo in cui Dio è presente nel mio minuscolo essere con tutta la sua immensità, e in quest’istante con tutta la sua eternità, nello stesso modo io sono presente in Lui, con tutta la mia memoria, e tutto ciò che ho amato è vivente in me e dunque in Lui”.
Tag: Carlo Bo, Jean_Pierre Jossua
23 aprile 2018 alle 09:40
Ho letto con piacere e curiosità questa recensione. Grazie.