Caravaggio astratto

by

di Demetrio Paolin

[Nell’aprile del 2017 ho partecipato a un convegno presso il Monastero di Fonte Avellana dal titolo Viaggio al termine della notte. Oscurità, penombra e splendore. In questi giorni la casa editrice Nicomp ne ha pubblicati gli atti. Per gentile concessione dell’editore pubblico di segiuto il mio intervento su Caravaggio].

Sono seduto alla scrivania nella scomoda situazione di dover scrivere un saggio a proposito di Caravaggio Astratto. In realtà la scomoda situazione me la sono creata da me quando ad aprile 2017 al Convegno, di cui questi atti sono testimonianza, ho deciso di parlare a braccio di questo tema. Ecco, il problema principale è questo: non ho più gli appunti che avevo redatto su di un piccolo quadernino con la spirale. In questo momento non ho nessuna idea del percorso che avevo intrapreso nella mia comunicazione. Potrei chiedere a Matteo se si ricorda qualcosa o alle persone che erano lì, ma invece quasi mi diverte costruire questa cosa partendo da questo vuoto totale di quello che ho detto. Quindi perché astratto?

Per prima cosa dovrei dire meglio cosa intendo io per questa parola. È abbastanza chiaro che non è mia intenzione lanciarmi in una riflessione su cosa è astratto e cosa non lo è. Non è una mia competenza saper parlare di arte a questo livello. Io sono uno che va nei musei e si imbambola davanti alle tele, che guarda le opere, non riesce subito a decifrarle. Ho una preparazione di storia dell’arte nella media. Torno un attimo a questa mia difficoltà a decifrare subito le opere, come se intravedessi qualcosa che in realtà non c’è, qualcosa che supera la semplice esposizione della figura sulla tela. Insomma io guardo il quadro e non vedo quello che il quadro mi racconta, o meglio lo percepisco con gli occhi, ma quell’insieme di colori, forme, proporzioni e prospettive producono in me una sorta di straniamento da ciò che vedo. Io non vedo un quadro, io vedo altro. Questo ‘altro’ io lo definisco astratto nel senso che etimologicamente si astrae, esce fuori e non rappresenta figurativamente quello che il quadro mi racconta. Per me l’astrazione, quindi, non è tanto la mancanza di una forma riconoscibile all’interno del quadro, quando più la percezione di qualcosa di diverso e profondamente altro; quando osservo una pittura sia essa un affresco del ‘200 o un dipinto di Bacon io non ho nei riguardi del dipinto un atteggiamento figurativo, ma figurale; ovvero allargando e modificando leggermente il concetto di interpretazione di figura in Aurebach: il quadro non è solo la storia che il quadro ti racconta, ma rimanda ad un altro che il guardante coglie.

Parlare di astratto quindi per me è come parlare di allegoria, certo avrei potuto scrivere un saggio dal titolo Caravaggio allegorico, ma appunto credo che si noti una sia pur leggera e sottile differenza tra astratto e allegoria. Quindi perché Caravaggio? In Caravaggio tutto è finzione per essere perfettamente reale. Caravaggio costruisce macchine per creare l’ombra e la luce che gli servono, mette in posa, in una posa più naturale possibile ma sempre posa, i proprio personaggi. Li tratta come oggetti: per lui non c’è una reale differenza tra la frutta del canestro in una natura morta e una prostituta morta che diventa la Vergine Maria. Quindi Caravaggio mi serve per produrre una riflessione sulla distanza che esiste tra ciò che vediamo e ciò che ha prodotto ciò che vediamo. È vero che quando guardiamo un quadro, così come quando leggiamo un libro, applichiamo quella sospensione della credulità, che ci fa pensare che quelle cose sono realmente accadute così come sono, mentre sono in realtà il frutto di una deliberata forma di costruzione. Il problema è che noi guardiamo a Caravaggio, dopo aver guardato gli impressionisti e Van Gogh: guardiamo i quadri di Caravaggio con quello sguardo lì, lo leggiamo con gli occhi del romanticismo e con la mistica del maledettismo: dell’arte che si genera dal tormento, che fa a meno di convenzioni, regole e rigidità. Guardiamo sostanzialmente male o con occhi mediamente abituati a una certa idea di creazione.

Uno dei motivi per cui ho scelto Caravaggio è proprio l’uso della luce. Se prendiamo appunto un quadro impressionista e un quadro di Michelangelo Merisi capiamo perfettamente quello che intendo. Al pittore impressionista interessa la riproduzione esatta della luce così come è. Avete presente le cattedrali di Rouen di Monet? Ecco io credo che quello sia veramente il fulcro dell’interesse dell’impressionismo: interessa la luce, interessa come la luce naturale produce fenomeni ottici nel concreto osservare di un medesimo soggetto. È l’esperienza visiva simile a quella che noi ogni giorno viviamo, quando passiamo davanti a qualche luogo e lo osserviamo cangiare a seconda del grado di luminosità che c’è. A me pare che a Caravaggio questa ‘evidenza’ non interessi più di tanto. Ovviamente è attratto, direi come tutti i pittori, dalla luce e dall’ombra, ma la luce e l’ombra a cui fa riferimento non sono naturali, non sono di questa terra, ma credo siano qualcosa di formalmente diverso.

Da un lato abbiamo un fatto tecnico. Caravaggio utilizza teatri di posa, utilizza macchinari per riprodurre un certo tipo di luce. Il termine ‘riproduce’ mi sembra quello su cui vorrei soffermarmi. Caravaggio riproduce la luce naturale, non utilizza la luce naturale: questa cosa è fondamentale per comprendere le sue opere e per capire come non possono essere lette con l’occhio abituato alla modernità. Il quadro per Caravaggio è racconto, finzione, teatro e inganno della realtà e infine, se mi è consentito, superamento ultimo della realtà ovvero è trasfigurazione, che potrebbe essere un altro modo per dire astrazione. Prendiamo un quadro di Caravaggio di quelli più famosi: la Conversione di San Paolo.

Il quadro è noto a tutti, e racconta un episodio contenuto negli atti degli Apostoli, altrettanto noto, ovvero la caduta da cavallo di Saulo che da persecutore dei cristiani ne diviene seguace prima e apostolo poi. Se per un attimo chiudete gli occhi dopo aver visto il quadro; cosa vi rimane impresso nella memoria? Io ve lo dico, a me il cavallo, la sua coscia muscolosa, la sua postura. Non credo che sia un caso che nel buio che attornia il quadro, proprio in corpo del cavallo sia in piena luce. Proviamo a fare qualche ragionamento proprio su questa scelta. Il quadro, come ogni narrazione, ha un suo punto di vista e anche un suo dispositivo narrativo: secondo me in questo caso Caravaggio ha voluto, con un’abile mossa di straniamento, non concentrare la nostra attenzione, il nostro occhio, sul Saulo che cade, ma sul cavallo. Intanto questa scelta è indice, dico una cosa nota ai più, della modernità di Caravaggio, ovvero scegliere per il racconto un punto di vista insolito: tutte le funzioni retoriche del racconto sono presenti, tutte le funzioni narrative codifi – cate da secoli di pittura di quella scena sono presenti, ma il fulcro, la chiave di volta, del quadro è un cavallo, ma non basta. Il cavallo è ripreso di schiena. Non è una cosa da poco, facciamo un passo indietro e chiediamoci: che funzione ha il cavallo? Il cavallo nel quadro ha una funzione di messaggero divino, è colui che disarciona Saulo, che lo fa cadere, che lo porta alla conversione. È un angelo, è in una parola Dio che si manifesta nella sua potenza sulla terra. E allora perché di schiena? Perché il cavallo è disegnato in questa posizione inusuale e, se vogliamo, umiliante? Abbiamo detto che a Caravaggio non interessa la realtà per come è, a lui interessa fornire una interpretazione altra della realtà, una interpretazione, come dicevano prima, che trasfigura la realtà. Caravaggio è anche, come molti uomini di cultura del tempo, un buon conoscitore della Bibbia e sicuramente avrà letto o avuto sottocchio il passo dell’Esodo in cui si dice che di Dio possiamo solo riconoscere il passaggio. La parola ebraica che indica passaggio in realtà può essere letta come ‘dopo’ o come ‘dietro’. In questo secondo caso il passo dell’Esodo significa che di Dio possono essere conosciute le spalle, la schiena. E mi pare che questo cavallo messo al contrario che appunto dà la schiena a chi guarda sia una possibile metafora del Dio ‘dopo’ dell’Esodo, il Dio a cui Paolo si converte. In questo primo esempio mi pare di aver provato a spiegare il disinteresse di Caravaggio per la natura così come è, in favore della natura sub specie aeternitatis, che è poi ancora un modo diverso di dire astratto. L’uso della luce e dell’ombra e del nero in Caravaggio riguarda ancora due opere che vorrei raccontarvi. La prima è la Vocazione di San Matteo e la seconda è San Gerolamo. C’è una scena ne La cognizione del dolore di Gadda che ogni volta che la leggo mi porta alla mente la Vocazione di San Matteo di Caravaggio. Provo a spiegarvi perché. La scena del libro di Gadda è un piccolo paragrafo minore in cui viene descritto il progressivo scomparire della notte in favore del giorno. Sono poche righe in cui Gadda dimostra la sua indifferenza per una descrizione fedele della natura. Nel brano del romanzo l’oscurità sparisce piano piano, con una angolatura precisa. Nulla sembra poter modificare questo fenomeno, che non pare naturale ma appunto più simile a un uomo che tramite una manopola varia con un precisione e costanza la presenza di luce e ombra. Cosa c’è di innaturale in questa scena. Se leggiamo le pagine precedenti a questa descrizione, ci troviamo davanti il resoconto della follia del protagonista, distrutto al suo dolore, distrutto dal suo senso di colpa e dai rapporti tremendi e inenarrabili con la propria madre. Al disordine furioso della mente, qualcosa che pare incontrollabile, si oppone il lento calmo venire alla luce delle cose, come suscitate una a una dall’alba. L’effetto è talmente irreale, che nell’immaginare la scena ho l’impressione quasi che la luce formi un angolo a 45° e divida nettamente ciò che è in ombra da ciò che non lo è più. Ora prendete il quadro di Caravaggio e guardare bene la linea della luce. Osservate come cade, da dove parte fi n dove arriva. Avete visto? Ecco. Lambisce il dito di Cristo e finisce perfettamente a illuminare l’esattore chiamato a cambiare vita. Ovviamente anche in questo caso Caravaggio fa una scelta anti-realistica. La luce che lambisce la piccola finestra posta sul muro, il corpo di Cristo in ombra, di cui si intravede come una forma fantasmatica, mentre dall’altra parte la luce costruisce perfettamente il vestito sfarzoso di Matteo. Non c’è nulla di reale in quella scena, neppure gli atteggiamenti dei vari protagonisti. Io ho proprio l’impressione, forse anche più che nella Conversione di San Paolo, che qui a Caravaggio non interessino le persone, ma siano una sorta di composizione per mettere in evidenza la luce divina: non mi interessa dire che Caravaggio sia un pittore credente, mi interessa sottolineare come la sua ispirazione, ciò che gli interessava raccontare, era qualcosa al di fuori del presente del tempo. Guardate il quadro, non pensando ai personaggi come figure, ma come semplici macchie di colore; lo vedete il taglio della luce? Lo osservate? Non vi pare che l’unica cosa che interessi a Caravaggio sia descrivere come la luce tagli la scena. Come si divida l’ombra dalla luce. Dividere l’ombra dalla luce, ci ricorda qualcosa, ci ricorda precisamente la Genesi e Dio che divise la luce dalle tenebre. Ecco che mi ritorna in mente cosa mi colpì della scena di Gadda: la tensione primordiale; come se quella luce non fosse una semplice luce, ma fosse la prima volta che la luce fosse nel mondo. Questo mi porta a guardare con voi l’ultimo quadro. Il San Gerolamo. Secondo me questo quadro deve essere letto con l’incipit del vangelo di Giovanni davanti agli occhi. E ora uno mi dovrebbe chiedere perché. La risposta sta nello sfondo del quadro, che sono il ritratto delle tenebre. Certo noi sappiamo che le tenebre non prevarranno mai sulla luce, ma a colpirmi è proprio lo sfondo nero, il nero sul nero, un nero così nero che io immagino diverse passate di colore su quella tela. Ora poniamoci le solite domande: dove arriva la luce? Cosa colpisce? Io chiudo gli occhi e provo a visualizzare il quadro; e vedo che la luce cade sul protagonista e in particolare sul braccio che scrive. E quindi torno al vangelo che ho davanti. La parola si è fatta carne e venne ad abitare in mezzo a noi. Cosa rappresenta Gerolamo? Chi è Gerolamo? È il traduttore della Bibbia, è in un certo senso il vicario della parola di Dio in terra. Possiamo spingere questo paragone al limite: Gerolamo è la Parola. La luce cade sulla parola e la parola è contornata dalle tenebre. Credo che questo sia una sorta di testamento riflessione di Caravaggio sulla sua arte. Facciamo nuovamente questo esercizio di trasfigurazione e di astrazione. In questo caso è semplice, abbiamo un fondo nero e una macchia bianca in centro. È come se vedessimo il mondo prima che il mondo fosse. Le tenebre del nulla stanno intorno a una tenue luce fioca, una luce pallida che resiste nonostante tutto. Forse l’ossessione della luce in Caravaggio sta proprio in questo impedire alle cose di svanire. È l’eterna lotta tra le tenebre e la luce. È l’eterna e antica lotta che è alla base di ogni forma di racconto. Non sapere se è preferibile la notte al giorno; perché come recita la Bibbia, spesso il nemico arriva da mezzanotte, arriva da Nord, ma senza il nemico cosa saremmo noi? Forse tra la luce e il buio vince la penombra che è la memoria, quello strano momento dell’animo, quello strano fenomeno naturale in cui serbiamo ricordi di ciò che è bene e ciò che è male, li teniamo davanti ai nostri occhi ugualmente preziosi. Io parlo di Caravaggio e penso alla bellezza dei suoi quadri, che trasfigura la realtà per ingannare la morte, e dipingendosi come Oloferne già morto, pensa di essere salvo dallo scempio.

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4 Risposte to “Caravaggio astratto”

  1. Ma.Ma. Says:

    L’ho fatto. Ho guardato il quadro per pochi secondi prima di leggere il resto del testo. Ho chiuso gli occhi e ho pensato a che cosa mi è rimasto (anche se non so se è vero quello che ricordo): il cavallo, enorme, la criniera bianca, il piede del cavallo alzato, la testa bassa, una macchia rosso sangue sotto l’animale possente e due braccia che si alzano impaurite, di un uomo piccolo. Cioè: ho visto un cavallo che ha appena calpestato a morte un uomo disperato e insanguinato che chiede aiuto al cavallo: che non continui a calpestarlo. Eppure mi sembra che non fosse nelle intenzioni del cavallo, ucciderlo: il piede è alzato, fermo a mezz’aria, ritratto.

    Ora continuo a leggere il testo.
    *****

    Poi mi guarderò anche gli altri quadri per osservarli secondo quanto scrivi.

    Ma per ora dico che Caravaggio mi colpisce più di ogni altro pittore. Io che non so niente, so che mi prende. Non l’ho mai studiato, ma molto guardato, osservato, pensato. Da quando Luigi Baldelli, fotografo di Ettore Mo, un giorno mi disse (giudicando alcuni miei scatti fatti in Pakistan): “Vuoi imparare a fotografare, vuoi diventare una fotoreporter? Non chiedere a un fotografo, non leggere libri sulla fotografia, guarda i quadri di Caravaggio”. L’ho iniziato a fare e ho capito subito perché. Il “problema” è che pure in un testo che vorrei scrivere da un paio d’anni è dato dalla suggestione in parte di Caravaggio… per non parlare delle ombre. E dal distacco di queste rispetto alla luce. Poi io avrò magari la mia versione di lettura astratta… ma anche questa mi piace.

  2. rossana v. Says:

    Gran bel pezzo. Per anni sono stata un’astrattista convintissima, e mi sembra che lei abbia azzeccatoo in pieno proprio sul discorso della “luce strutturale” che costruisce lo spazio. Sono un’amante ossessiva di Rothko, ma non mi stupirei nel vedere questo quadro accanto alle intense campiture di luce leggera del pittore americano. E poi giustissimo il discorso sull’arte guardata male, secondo “cliché”. Non dimentichiamo che Van Gogh, senza la presenza del fratello, tapperebbe ancor oggi i buchi dei pollai. Grazie per questo articolo, veramente caravaggescamente illuminante.

  3. dm Says:

    Bell’intervento, e scritto molto bene.

  4. la luce e il buio - ATBV Says:

    […] ma anche un’idea di arte e un’idea di scrittura. Non poco per un solo post. Ma è una interpretazione di Caravaggio e del suo (nostro) mondo a cui fareste molto male a rinunciare, secondo […]

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