Tutti sanno che una cosa è impossibile da fare, finché arriva un giapponese che non lo sa, e la inventa. Questa rilettura irriverente di una celebre frase attribuita ad Albert Einstein (“Tutti sanno che una cosa è impossibile da fare, finché arriva uno sprovveduto che non lo sa, e la inventa”) è forse il modo migliore per introdurre un genere – la letteratura femminile del periodo Heian – del quale il Makura no sōshi, ovvero Le note del guanciale, è uno degli esempi più noti e pregevoli.
È risaputo che un contesto socio-politico in cui le donne hanno posizione subalterna e opportunità limitate non può che produrre un’arte femminile altrettanto limitata, dove le eccezioni notevoli – che ovviamente ci sono – sono spesso costrette a mascherarsi dietro pseudonimi maschili.
Ma le dame di corte giapponesi dell’anno Mille questo non lo sapevano. E così, pur obbligate a una condizione di inferiorità e isolamento, queste nyōbō (女房) hanno dato origine a un fenomeno che probabilmente non ha eguali in nessun altra parte del mondo: il netto predominio, nella letteratura prodotta in lingua autoctona, di testi scritti da donne. Predominio che non è solo quantitativo, ma anche e soprattutto qualitativo e di immaginario: tanto che molti uomini, quando a questi testi hanno deciso di accostarsi come autori, hanno scelto di utilizzare degli eteronimi femminili. Si sono finti donne.
Come è potuto succedere?
Fino al V secolo d.C. i giapponesi non scrivevano. La scrittura la apprendono dal continente, dai cinesi: l’opera di adattamento è favorita dagli scribi coreani, rifugiati che approdano via mare nell’arcipelago. Un adattamento non semplice: il cinese è una lingua isolante e tonale, mentre il giapponese è agglutinante e atonale. Occorre una soluzione che le metta d’accordo, senza sacrificare all’una o all’altra. Viene scelta la via più complessa: ogni kanji (漢字, carattere cinese) può essere utilizzato o per il solo valore fonetico, tralasciandone il significato; o per il solo significato, senza badare al suono. Le parti variabili di ogni parola vengono affidate a due alfabeti sillabici: lo hiragana (ひらがな), dal segno flessuoso ed elegante; e il katakana (カタカナ), dal tratto più duro e geometrico. Una disperazione per ogni straniero (gaijin) che ancora oggi si disponga all’apprendimento.
Si delinea, nella scrittura, un bilinguismo. Il cinese diventa la lingua della burocrazia: cronache dinastiche, poesia ufficiale, documenti, trattati. Ed è riservato agli uomini che, soli, detengono il potere. Il giapponese che, in quanto nativo, possiede lo “spirito della parola” (kotodama, 言霊), ha il compito di accogliere la scrittura privata: per la sua capacità unica di rendere le sfumature, il non detto, il sentire prima che il sapere. E a utilizzarlo sono specialmente (ma non esclusivamente) le donne.

Sei Shōnagon in un’incisione su legno di Katsushika Hokusai (1760-1849).
794 d.C.: la capitale viene trasferita da Nara a Heiankyō (l’odierna Kyōto). L’imperatore fa costruire, nella parte settentrionale della città, una vastissima cinta di mura: vi sono racchiusi uffici, biblioteche, templi, caserme e palazzine di rappresentanza. Gli edifici sono accuratamente disposti ai quattro punti cardinali: li collegano strade rettilinee, lastricate in pietra e interrotte da cortili di fine ghiaia bianca. E poi piccoli giardini: con prati, cespugli, e radi ma maestosi alberi, scelti perché diano bellezza nelle diverse stagioni dell’anno – per lo sbocciare dei fiori (il ciliegio, il susino), l’arrossarsi delle foglie (l’acero), il ricoprirsi dei rami di neve (il pino). La cinta esterna ne contiene un’altra, leggermente spostata a oriente: lì c’è il palazzo imperiale. Ospita, nei vari padiglioni, l’imperatore, l’imperatrice madre, l’imperatrice consorte e, di tanto in tanto, il primo ministro, suocero dell’imperatore. E poi dame, concubine e guardie, al loro servizio.

Ricostruzione dello Higashi Danjo Dono, residenza della famiglia Fujiwara: mostra con buona approssimazione lo stile architettonico nobiliare
del periodo Heian
Le donne sono escluse dalla vita politica. E però sono preziose: le famiglie aristocratiche le maneggiano con cura, nella speranza che una figlia diventi amante o consorte dell’imperatore. Che gli dia un figlio. È l’unico modo per monopolizzare le cariche principali e tenere saldamente il sovrano nella propria sfera di influenza.
Le donne devono piacere. Il loro successo – dunque la sopravvivenza – dipende dalla loro bellezza e giovinezza, ma anche dal talento: devono saper vestire abbinando i colori al protocollo e alla stagione; comporre versi adatti al sentimento, al destinatario e alla circostanza; suonare il koto o lo shamisen, accordandosi al frinire delle cicale o al tamburellare della pioggia; muoversi con garbo, scivolando silenziosamente sulle ginocchia, mentre i capelli lisci tracciano una lunga scia nera sull’impiantito. Vivono circondate da altre donne – al contempo amiche e rivali – in uno stato di perenne incertezza: la loro sicurezza, il loro prestigio, dipendono dagli uomini: che possono scegliere di amarle come di respingerle, di accoglierle sotto la loro protezione così come di abbandonarle. Il loro destino è “incerto come erba galleggiante sull’acqua” (Genji monogatari).
Queste donne scrivono: poesie (waka, 和歌), ma specialmente monogatari (romanzi, 物語) e nikki (diari,日記). Scrivono in giapponese: perché è la lingua nativa, del sentimento, e perché il cinese è a loro interdetto. Anche se sono state educate ai classici del continente, sia di prosa che di poesia, devono dissimulare, fingere di non conoscere: certi saperi, se da loro esibiti, sono ritenuti sfrontati e disdicevoli. Scrivono con e per altre donne, di nascosto dagli uomini: l’etichetta di corte impone una rigida separazione fra i sessi, che si possono incontrare solo di notte, per l’amore, al buio. Quel che di una donna l’uomo può vedere, è sempre osservato furtivamente, spiato: attraverso uno spiraglio nella recinzione del giardino, una cortina di bambù semitrasparente, un paravento non spiegato a sufficienza o, in estate, una tenda arrotolata per lasciar penetrare il vento fresco.
Sono dame “orgogliose e riservate, timide fino alla passività, materne e rassicuranti, immature e fragili, gelose e insicure, patetiche e anacronistiche, consapevoli della precarietà e della debolezza della condizione femminile” (Maria Teresa Orsi). Ma grazie a loro, e agli esiti felicissimi raggiunti da alcune delle loro opere, la lingua giapponese acquisisce dignità artistica, emancipandosi dalla propria condizione subalterna. Classici come il Genji monogatari (Il romanzo di Genji, o Il principe splendente) e il Makura no sōshi (Le note del guanciale) vanno letti con gusto, assumendo anche questa prospettiva. Facendo un (azzardato) parallelismo: come sarebbe stata la storia della letteratura italiana, se Dante e Boccaccio fossero state donne?
Torniamo a palazzo.

Giardino del palazzo imperiale di Kyōto
Fine del X secolo d.C. Nei padiglioni alloggiano l’imperatore Ichiho, l’imperatrice madre, l’imperatrice consorte Sadako e, di tanto in tanto, il primo ministro Michitaka, suocero dell’imperatore. E poi dame e concubine. Fra di loro, a servizio di Sadako, c’è Sei Shōnagon (ca 966-1017).
Il Makura no sōshi (枕草子), è un’opera particolare. Difficile associarla incontrovertibilmente a un genere: a seconda dei casi, può essere considerata un nikki (diario), oppure una raccolta (shū), o ancora uno zuihitsu (随筆), uno zibaldone contenente pensieri, note sparse, citazioni e prosa libera – un tipo di testo che avrà larga fortuna nel successivo periodo Kamakura (e sarà scritto da autori maschi, però).
Nei suoi 317 capitoli – lunghi da poche righe a qualche pagina – il Makura no sōshi contiene:
– osservazioni e descrizioni:
Moltissime dame sono radunate a chiacchierare, in un allegro cicaleccio, nei corridoi dei loro appartamenti, quando passano paggetti e giovani leggiadri, carichi di archi, frecce e scudi e di lussuosissimi involti e sacchi contenenti vesti, da cui sporgono le bande di qualche ampio pantalone. Si chiede loro a chi appartenga tutta quella roba, e alcuni di essi rispondono graziosamente, abbozzando un frettoloso inchino; altri invece, odiosissimi, fingono un ritegno del tutto artefatto e, dicendo: «Non so», corrono via.
– aneddoti della vita di corte:
Il predecessore dell’imperatore Murakami, un giorno in cui era caduta abbondante la neve, ne riempì una scatola di legno bianco, vi pose un fiore di prugno e, quando la luna salì luminosissima nel cielo, la consegnò alla guardarobiera, dama Hyōe, dicendo: «Recitami una poesia su questo argomento. Quale sceglieresti?». Ella rispose: «Al tempo dei fiori della contemplazione della neve», e fu molto lodata dall’Imperatore, che disse anche: «Recitare una poesia è facile e frequente; il difficile è recitarne una realmente adatta all’occasione.» Un altro giorno, in cui l’Imperatore era in compagnia della dama Hyōe, e nessun altro era presente, Sua Maestà, vedendo del fumo salire da un braciere, chiese: «Che sarà mai?». La dama andò a vedere, e al suo ritorno recitò i versi: «Nel mare aperto ho visto qualcosa navigare; erano le pescatrici, in procinto di tornare». Anche questa poesia era mirabilmente adatta alla circostanza. Infatti quel fumo saliva da una rana che era saltata nel braciere.
– liste (di cose piacevoli, spiacevoli, imbarazzanti, antitetiche, preoccupanti… e sono queste, a mio parere, le sezioni più belle):
Cose che dovrebbero essere vicine ma sono realmente lontane
Il paradiso. I viaggi per mare. I rapporti umani.
Cose che non si possono raffigurare bene in un dipinto
Le rose selvatiche, gli iris, i fiori di ciliegio. Un uomo e una donna che stiano esclamando: «Meraviglioso!», come accade di vedere nelle illustrazioni dei romanzi.
– preferenze:
Per essere suggestivi, gli inverni dovrebbero essere freddissimi, e le estati di un caldo senza eguali.
Mi sembra che i titoli di poesia più squisiti siano: La capitale, La pueraria, L’alga palustre, Il puledro, La grandine.
– opinioni, intuizioni e giudizi:
Bisognerebbe dedicarsi alla musica solo di notte, iniziando a farlo quando i volti delle persone più non si distinguono nel buio.
Non capisco perché alcuni si arrabbino udendo dei pettegolezzi. Come si può non farne mai? Spesso si ha la tendenza a innalzare su un piedistallo noi stessi e a criticare gli altri. Ma questa è senz’altro una cattiva abitudine ed esiste inoltre la possibilità che l’interessato venga a conoscenza del pettegolezzo che lo riguarda e cominci a odiarci. E perché mai, quando si tratta della persona che non possiamo smettere di amare, ci sentiamo invase da una grande sollecitudine di non nuocerle in alcun modo e ci tratteniamo dal dirne male? Eppure, se tra noi non esistesse un rapporto così stretto, non le risparmieremmo certo critiche e risate!
Il Makura no sōshi è un testo eterogeneo e privo di una vera e propria trama. Alcuni studiosi come Arthur Waley (si veda The Pillow Book of Sei Shonagon, London) hanno evidenziato il suo valore documentaristico: la quantità e l’accuratezza delle descrizioni porterebbero a ritenere il Makura no sōshi una delle fonti più ricche e probanti sul contesto sociale e sulla vita culturale e artistica dell’epoca Heian.
Questa visione è da un lato corretta e giustificata (il testo di Sei Shōnagon realmente propone un’analisi spesso minuziosa di quel macrocosmo immobile e dorato che era il palazzo imperiale nel Giappone dell’anno Mille); dall’altro lato, però, non si deve dimenticare che Sei Shōnagon era una scrittrice e che il Makura no sōshi è un’opera di finzione.
Nel capitolo che chiude la raccolta, è Sei Shōnagon stessa a parlarci della sua genesi:
In queste mie note, scritte per mitigare la noia di una vacanza a casa, ho voluto fermare quel che i miei occhi hanno veduto e che il mio cuore ha sentito, pensando che nessuno le avrebbe lette. Le ho tenute nascoste sin qui, anche perché vi sono accenni infelicemente scortesi e irriguardosi per qualcuno. Purtroppo, contro la mia volontà, sono state divulgate. La carta su cui sono state scritte l’aveva portata all’Imperatrice il principe Korechika. Sua Maestà aveva detto: «Cosa vi scriveremo? L’Imperatore vi stava copiando le Cronache di storia.» Io allora esclamai: «Andrebbe bene per un guanciale!» Sua Maestà aveva approvato, donandomi quei fogli. Erano numerosissimi, e io, per riempirli tutti, ho finito con lo scrivere moltissime cose bizzarre, che possono persino sembrare insulse. Comunque, se avessi scritto in queste note qualcosa di straordinario o tale d’attirare le lodi, e se vi avessi aggiunto anche poesie sugli alberi, sulle erbe, sugli uccelli, sugli insetti, si sarebbe a ragione potuto dire: «È inferiore a quel che pensassi, ha messo troppo a nudo il suo cuore». Queste note le ho scritte soltanto per me, per trovare conforto nell’annotare i miei sentimenti, e non ho mai pensato che avrebbero potuto allinearsi alle grandi opere e attirare l’attenzione del pubblico, per cui mi stupisco quando sento dire: «È un capolavoro!». I miei ammiratori devono appartenere, ne sono certa, a quel genere di persone che lodano ciò che gli altri disprezzano e disprezzano ciò che gli altri ammirano. Ma quel che più mia angustia, in definitiva, è proprio il fatto che queste mie note siano state scoperte.

Dal manoscritto originale
Una scrittura privata, dunque? E la sua involontaria circolazione uno scherzo, un furto?
No: al pari dell’Anonimo manzoniano o dello psicanalista svevano, quello di Sei Shōnagon è un artificio letterario. È lei stessa a smentirsi, in un capitolo precedente, quando dice:
Questo che ora ho riferito può sembrare un episodio davvero insignificante, ma ho preferito ricordarlo, perché tutti mi hanno esortato a non tralasciare in queste note alcun particolare
facendo intendere la chiara e consapevole destinazione pubblica dell’opera (dove per pubblico va inteso: l’entourage delle dame di corte).
Ma – disvelamento a parte – è il taglio dato alla narrazione a dar prova del suo carattere finzionale. Le opere coeve (Eiga monogatari, Ōkagami) ci presentano – tra lotte fratricide, incendi, epidemie, terremoti e tifoni – un periodo storico duro e cruento: ma Sei Shōnagon non ne fa mai menzione presentando, della corte, un’immagine aggraziata e idilliaca, dove la cosa che più può dar dolore è un kimono indossato in maniera maldestra o un amante che – dopo tanta fatica per riuscire a nasconderlo – si metta a russare fragorosamente. Le omissioni di ogni bruttura hanno un unico scopo: trasformare l’opera – che dunque storia non è – in un omaggio a Sadako, l’amata imperatrice della quale Sei Shōnagon è al servizio. L’intento finzionale ha un valore affettivo.
Anno 1000. Sadako muore. La fortuna mondana di Sei Shōnagon declina irreversibilmente. A sostituirla sarà Murasaki Shikibu, protetta della nuova imperatrice Akiko, e autrice del (giustamente) più famoso e celebrato Genji monogatari.

Sei Shōnagon
Il Makura no sōshi, pur se meno pregevole del Genji, resta un testo di riferimento nella storia della letteratura giapponese. Ha anticipato, con la sua forma miscellanea, opere come lo Hōjōki di Kamo no Chōmei e lo Tsurezuregusa di Yoshida Kenkō. Ha regalato ai giapponesi uno degli incipit paesaggistici più conosciuti (un po’ come il nostro “Quel ramo del lago di Como”):
L’aurora a primavera: si rischiara il cielo sulle cime delle montagne, sempre più luminoso, e nuvole rosa si accavallano snelle e leggere. D’estate, la notte: naturalmente col chiaro di luna; ma anche quando le tenebre sono profonde. È piacevole allora vedere le lucciole in gran numero rischiarare volando l’oscurità, oppure distinguere solo le luci di alcune di loro. Anche quando piove, la notte ha un suo fascino. Il tramonto in autunno: malinconico quando i raggi del sole calano obliqui dalla vetta dietro cui tramonta, e i corvi a gruppi di due, di tre, di quattro si affrettano disordinatamente al nido; piacevole è anche ammirare gli stormi ordinati dei gabbiani rimpicciolirsi sempre più all’orizzonte. L’armonia del vento e il ronzare degli insetti, quando il sole è calato, infondono una dolce tristezza. D’inverno, il primo mattino: bellissimo, inutile dirlo, quando cade la neve. Bello è anche il candore della brina; oppure, oltre a questo, riattizzare il fuoco rapidamente, quando il freddo è più intenso, e attraversare le sale portando il carbone. È anche piacevole verso mezzogiorno, quando l’ambiente si è intiepidito, vedere il fuoco del braciere, non più alimentato, ridursi a bianca cenere.
Di questo primo capitolo, Yukio Mishima ha scritto:
È una pagina perfetta e ancora una volta, rievocandola, mi stupisco della sua concisione. Ciò che più mi affascina è la prodigiosa scelta dei particolari che così vivamente cristallizzano la bellezza del mutare delle stagioni. In questa scelta, in cui lo spirito di Sei Shōnagon isola, nel fluire dell’esistenza umana, un attimo, uno stato d’animo, e poi lo combina con immagini di raffinata sensibilità estetica, consiste l’incomparabile bellezza nel mondo di questa donna incomparabile.
Ma specialmente, il Makura no sōshi è una delle espressioni più belle e compiute del mono no aware.
Tradotto – letteralmente ma un po’ frettolosamente – con l’espressione “il sentimento delle cose”, il mono no aware è un ideale estetico e di sensibilità peculiarmente giapponese. Eppure tutti noi sperimentiamo, più spesso di quanto non vogliamo credere, uno stato di commozione molto simile. Il mono no aware non è lo stupore intenso e abbacinato difronte a panorami grandiosi. Non c’è nulla che levi il fiato. È piuttosto quella sospensione inattesa che ci prende quando notiamo, della natura, un elemento piccolo e banale all’apparenza, ma che improvvisamente ci appare gravido di qualcosa d’altro, di più profondo. Quel certo modo che una foglia ha di piegarsi, mentre si accartoccia; o un fiore, nel suo schiudersi; o un tronco, nel torcersi; o un melograno spaccato, quando si divarica scoprendo la gelatina dei chicchi.
Qualcosa di quel modo – di piegarsi schiudersi torcersi divaricarsi – ci costringe a guardarlo, come se fosse l’unico modo possibile di essere, come se racchiudesse una qualche perfezione; che è tutta naturale, ma che al tempo stesso contiene anche dello spirituale, del divino. E mentre guardiamo, sappiamo che: tutto sarà per poco tempo. Che nell’arco di poche ore o pochi giorni quella foglia, quel fiore, quel tronco, quel melograno incontreranno lo sfarsi della materia, la decomposizione, la putrefazione. Il loro piegarsi schiudersi torcersi divaricarsi è un processo: il cui destino ultimo è la consunzione, la fine. E ne proviamo una nostalgia, quasi, una tenerezza e simultaneamente una disperazione che ci muove: in un momento densissimo che sembra contenere, per pochi istanti, tutto l’affetto che noi sentiamo di poter rivolgere a una creatura, e al creato nel suo insieme. Così osservano il mondo i giapponesi.
Il pennello scivola sul foglio ora con delicatezza, ora con durezza: è importante calibrare attentamente la torsione, così da ottenere punti più marcati e profondi, ma ugualmente vitali.
Nel periodo Heian, la scrittura era forse l’unico strumento che le dame di corte avevano per incidere in un mondo che le voleva solo aggraziate spettatrici. Opere come il Makura no sōshi non sono osservazioni, né interpretazioni: ma vere e proprie creazioni. Dovessi riassumerle in una frase, ne citerei una di Clarice Lispector, da La passione secondo G.H.:
Creerò ciò che mi è accaduto. Solamente perché vivere non è narrabile. Vivere non è vivibile.
Il Makura no sōshi si può leggere in italiano nella traduzione di Lydia Origlia (Note del guanciale, edizioni SE)
Al Makura no sōshi è ispirato The Pillow Book, un film di Peter Greenaway del 1996.
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22 novembre 2017 alle 11:09
Grazie, Valentina Durante, per averci guidati in questa ennesima entusiasmante escursione nella letteratura e cultura giapponesi.
22 novembre 2017 alle 12:45
Grazie a te, Fiammetta, per aver letto.
Ti offro anche, se posso, un piccolo spunto in più: che forse è una delle mie solite associazioni forzate (o volo pindarico), ma che crea un legame tra Est e Ovest, loro e noi, passato e presente.
Il Makura no sōshi, come ho scritto, è stato iniziatore del genere *zuihitsu*. Ne sono derivate opere come lo “Tsurezuregusa” (Momenti d’ozio), di Yoshida no Kaneyoshi (o Kenkō).
Ora, nello “Tsurezuregusa” è presente questo passo: “Kōyü, il religioso, dice: solo una persona di limitato intendimento desidera sistemare le cose in serie complete. Desiderabile è l’incompletezza. In ogni cosa l’uniformità è sconsigliabile. Un tempo era obbligatorio lasciare nei palazzi un’ala incompiuta. Senza eccezioni.”
E questo passo è citato in esergo da Henri Michaux, nel suo “Passaggi”: una consapevole dichiarazione di poetica, dato che “Passaggi” presenta una struttura che ricorda molto lo “Tsurezuregusa” e gli *zuihitsu* in generale (divagazioni, riflessioni, testi brevi e spesso eterogenei).
Ebbene, alla scrittura – spesso di difficile classificazione – di Michaux si appoggia Annie Ernaux (pensiamo solo all’impostazione de “Gli Anni”).
Da Sei Shōnagon a Kenkō a Michaux a Ernaux: quattro gradi di separazione che attraversano un millennio di storia della letteratura, universale (c’è da dire che i francesi sono da sempre grandi orientalisti).
22 novembre 2017 alle 13:17
grazie infinite. Da donna a donna.
22 novembre 2017 alle 13:25
Prego, è’ stato un piacere.
22 novembre 2017 alle 14:26
Valentina, grazie. Proprio bello ed elegante il tuo e il loro modo di scrivere
22 novembre 2017 alle 22:47
Rossana, Melania: grazie a voi per la lettura.
23 novembre 2017 alle 19:32
Grazie. Non ho potuto fare a meno di procurarmi subito il libro e iniziare a leggerlo: pensare che è stato scritto più di mille anni fa dà le vertigini.
27 novembre 2017 alle 19:00
Colto e delizioso. Grazie, Valentina (e scusami se solo ora ho potuto leggere).
28 novembre 2017 alle 13:31
Valentina: mi viene una domanda da farti: come procedi per comporre un testo, interessante, profondamente informato e informativo, e scritto con una limpidezza e piacevolezza inusitate, come questo? In più con un corredo così attento, bello, di immagini? Qual è il tuo metodo compositivo? scaletta, non scaletta… prima stesura, seconda stesura… grazie di cuore!
30 novembre 2017 alle 14:28
C.P., Antonio, Enrico: davvero grazie per i vostri commenti.
Scusate se rispondo solo ora, ma avevo dimenticato di registrarmi per ricevere le notifiche via mail: ora l’ho fatto.
Tento, Enrico, di rispondere alla tua domanda.
Quando scrivo un testo argomentativo procedo in questo modo.
1) Prima di partire, ricordo a me stessa quella che nel mio idioletto chiamo “la realtà dell’amore non corrisposto”. Ossia: io provo, com’è ovvio, un grande interesse per l’argomento del quale andrò a scrivere. Ma i miei lettori saranno eterogenei: ci sarà chi prova un interesse simile al mio, chi un medio interesse, chi poco, chi nulla. E io devo tenere conto (quasi) di tutti.
2) Mi dedico alla raccolta e produzione del materiale. Per raccolta intendo: leggere testi, guardare opere, ascoltare registrazioni, eccetera. Per produrre intendo: scrivere, se mi vengono, testi di varia natura sollecitati dall’argomento: anche narrazioni, o riflessioni a partire da una parola, qualunque cosa. Potrò usarli, potrò non usarli, non importa: ma mi aiutano a non restare confinata nella mentalità dell’archivista. Altra cosa che mi raccomando: non ritenere di dover utilizzare tutto ciò che ho raccolto, per il semplice fatto di averlo raccolto (in nome della fatica di). Parto già con l’idea (e la rassegnazione) dello spreco. Porto tutti i materiali in pagina: saltabeccare in continuazione da una fonte all’altra, interrompe il flusso di scrittura.
3) Faccio la scaletta. Organizzo i contenuti secondo un ordine che rispecchi il risultato che voglio ottenere: dimostrare una teoria? descrivere qualcosa? informare? convincere? Faccio attenzione ai passaggi tra un punto e l’altro, perché siano rispettate le consequenzialità, cercando di difendermi dalla “maledizione della conoscenza”: io conosco l’argomento, il mio lettore forse no o non completamente; certi snodi che a me paiono ovvi, per lui non lo sono (non sempre ci riesco, va detto). Se noto dei vuoti, integro con dell’altro materiale: che, stavolta, andrò a cercare già sapendo di voler trovare, in coerenza con una certa visione o linea interpretativa.
4) Scrivo. Tenendo presente che: non sono io che sto facendo dono al mio lettore di informazioni o conoscenze, ma lui che sta facendo dono a me del suo tempo. Il mio lettore, devo *sentirlo*: sempre, scrivendo. Capire i punti in cui può trovarsi affaticato, annoiato, quelli in cui ha bisogno di emozionarsi (anche con un testo argomentativo), quelli in cui chiede un po’ di leggerezza. Cerco di modulare il ritmo, pensando a questo. Curo l’incipit: parto dal presupposto che saranno poche le persone già interessate e che devo incuriosire le altre, magari con qualcosa un po’ “fuori registro” (non sempre è facile, e cerco di evitare la “trovata” o la cosa troppo pubblicitaria, che può infastidire).
5) Alla fine, leggo e rileggo. La seconda volta, ad alta voce: per capire se il testo ha una sua musicalità. Che è scontato debba esserci nella poesia, opportuno nella prosa, ma che fa grande differenza anche nella saggistica. Ho questa idea: che qualunque testo debba esprimere “una sua propria danza”.
Questo, in linea di massima. A volte mi riesce meglio, a volte peggio, a volte non mi riesce affatto. Spero di essere stata utile. Ancora grazie.
(E: dando a Cesare quel che è di Cesare: la metà delle immagini di questo pezzo le ha trovate Giulio, che ringrazio :-))
18 dicembre 2017 alle 12:06
Valentina grazie, grazie e grazie ancora: non sai che miniera di informazioni sul “processo” creativo è questo tuo commento… mi sa che lo utilizzerò nelle mie classi di scrittura creativa… l’attenzione al lettore: questo elemento etico, deontologico, mi ha colpito tantissimo… altro che “solitudine” dello scrittore,,, un caro caro saluto
19 dicembre 2017 alle 19:06
Ancora grazie a te, Enrico, davvero. E un caro saluto.