Il Dio falso [1]

by

di Demetrio Paolin

Mio padre quando si alza vede
la collina davanti a lui e non pensa nulla,
fa colazione come ogni giorno la mattina:
aspetta che il caffè diventi freddo e poi mi
chiama facendomi una carezza sulla testa.
Mio padre è tutto collina quando esce e va
al lavoro, è come le rive che scendono
verso il fiume, che pare gli alberi si muovano;
si dice bosco, ma potremmo dire anche mare
che vale lo stesso, tanto si muove il verde.
Il giorno dopo che Patrick è morto, mio padre
è uguale a se stesso come una figura allo specchio;
io sento una cosa – una grana di sale
infilarsi dentro la pelle – che mi fa diverso,
mio padre mi sembra più alto con un’ombra
dietro lunghissima, che arriva fino
porta di casa che sempre alle 7.30 del mattino
chiude dietro di sé per andare a lavorare.

Io penso a Patrick morto, vedo l’inverno
e vorrei che fiorisse il campo fuori dalla
finestra e dove cade il mio sguardo, così
voglio essere non seme, ma terra, voglio
portare frutto, e ripagare il torto che
la vita ha fatto a me, e alle persone orfane
del bimbo. Incido la mia carne con una lama,
ma lo faccio per bene, la scaldo sul fuoco
dove mio padre ha fatto il caffè
e poi quando è rossa la faccio freddare
fuori nel mattino. Mi procuro i primi
tagli nella pelle, in zone che nessuno
veda: il sangue lo pulisco – sono in bagno e
mi preparo per la scuola – e non so che fare
di quella carne aperta.
Quando mio padre
la sera torna a casa, non dice niente, eppure
mi guarda; io penso che lui sappia, se ti fai
terra non puoi sfuggire al destino di essere visto.

*

Un giorno in palestra, Stefania nota un
taglio sulla coscia. Io divento rosso, che lei mi piace:
è magrissima e va bene a scuola. E lei alza la maglia
e sul ventre vicino alla cresta iliaca ha una cicatrice.
“È bello quando lo faccio”. Io sto zitto, perché non sento bene
quando la lama entra nella pelle, io sento Patrick
e tutti morti che entrano in me. “Io vorrei essere grano”.
È l’unica frase che mi viene fuori. “Come il piccolo
principe – dice lei – amo quel libro, così tu vorresti
diventare un campo di grano come i capelli del bimbo”.

Siamo vicini. Io non so quando mai saremo così
vicini e con le nostre gambe nude e tagliate. Io
le dico di Patrick e lei mi guarda: “Non credevo
che andassi in chiesa”. “Sì e credo che Dio lo farà
uscire dalla tomba”. “E allora perché ti tagli? Se ti tagli
non credi che Dio lo farà uscire. Ti tagli perché
la vita è una merda, perché i genitori sono merda
perché il cibo io lo butto via, perché quando Marco
entra dentro, io mi tocco i tagli e penso a quello
e non sento male”. “Io – tiro sul con il naso per
le cose che ha detto – non mi taglio perché è tutto
merda. Io mi taglio perché dentro di me c’è una
cosa che mi rovista, come una spina, una pietra;
come un amore che non genera, come una cesta
di frutta che sta marcendo: e io mi taglio per vedere
che esca intanto l’odore; perché la frutta marcita
fa una merda che è buona e che serve a far
crescere il grano. Io voglio piantarmi semi nelle pelle
e quando il mio corpo fiorirà Patrick tornerà vivo.”
Stefania mi guarda, quando finisco. “Tu non sei un ragazzo,
tu fai discorsi da vecchio. Sembri tuo padre, o il mio. Tu
non credi in Dio, ma ti credi Dio, e sei fasullo. Sei già
padre e anziano.” “E tu? Cosa senti? Quando ti tagli?”
“Sento la mia infelicità farsi piano piano sottile, mi basta”.

*

Sono diventato bravo a fare i tagli, nessuno se ne accorge.

Ho un piccolo altare, un tavolino da colazione da letto, che
la sera, quando tace ogni cosa, tiro fuori. Ho garze bianche,
un coltello con una lama sottile bella lucida affilata e anche
una lametta di quelle del barbiere. Quando incido vedo che
la pelle superficiale, poi quella più profonda, si aprono. Il dolore
arriva al mio cervello, e io sento che perdo i sensi, allora dico
il mio nome, me lo ripeto, come una lunga litania e torno in me.
Io sono il mio nome, e il mio corpo è il mio nome, e la ferita
è il più segreto dei nomi di Dio. Questa sera ho deciso per il costato:
spingo la lama con forza e decisione. Ogni tanto desidero che
qualcuno veda questa bellezza della carne che si lacera e s’apre
come il fiorire di una rosa fuori stagione, ma so che sono solo in
questa semina. Così ci metto il grano, lo frantumo e lo pianto.

Nei giorni successivi dalle ferite esce pus giallo. Credo
che sia l’anima mia o la manna di Jwhw, e finalmente vedo
la densità dei miei sentimenti, e spurgo come un pozzo nero.
Patrick se ne esce e corre sulla mia pelle, sulle cosce
scivola lungo il mio corpo e si deposita sulla garza sterile.

Io sono la terra muta che poco prima della primavera fuma.

*

Una domenica mio padre entra in camera e mi dice:
“Oggi lavori con me”. È aprile e Patrick è morto da
quattro mesi. Io mi alzo e lui mi prepara il caffè.
La casa dove lavora e poco fuori dal paese, ci si arriva
con un sentiero in mezzo alle colline e alle vigne. È
freddo: la casa non ha infissi e vetri. È vuota e le pareti
sono grezze: si notano ancora le rainure dei tubi.
“Dobbiamo tirare i fili da qui a farli passare di là”.
Mi padre fa l’elettricista, fa che la gente abbia luce nella
casa. È un lavoro bello, per me, che le persone abbiano
la lavastoviglie che vada, la tele, i lampadari e i faretti.
Io lo vedo dall’altra parte della stanza, e mi pare enorme
e balbetta parole, mentre lavora e ogni tanto sbaglia e dice:
“Diofaus…”. Bestemmia nella lingua di suo padre, mio nonno,
(ora che scrivo io ho l’età di mio nonno, che è morto a 44 anni)
e forse anche lui diceva: Diofaus. E lo dico anche io: Diofaus.
Dio falso. Il falso Dio a cui ci inginocchiamo.

Mi padre fa: “Prendi questa molla e falla passare nel tubo vedi
se hanno lasciato detriti”. Passano minuti in cui l’unico rumore
è il gracchio delle cornacchie, il miagolio molesto di qualche gatto
in caccia e il vento che passa nelle stanze. “Ci sono volte – dice di colpo
mio padre – che uno fa un buon lavoro o almeno pare,
ma alla fine quando va al quadro generale e tira su
la leva del contatore, ecco ci sono volte che tutto va in corto
e viene su un fumo e una puzza che pare l’inferno.”.
“Però – continua – ci sono volte che quello che tu fai non basta
ché il lavoro nasce male, viene su così dall’inizio e tu non ci fai
niente, capisci, Diofaus, capisci? Tu fai di tutto e controlli e
brighi, e fai, e tagli, e cambi i fili, fai giri diversi, ma la luce
non viene. E allora devi alzare le mani e dire che non è colpa
tua, lo devi dire forte che non hai colpa, Diofaus, altrimenti
non farai nulla nella vita. Il senso del dovere, di dover fare,
finirà per schiacciarti.
Io non so cosa ti succede e cosa ti stai facendo,
ma io posso dirti che la colpa non è tua. Anzi non è di nessuno:
la colpa è colpa come un corto inspiegabile. Accade.
E tu hai nessun potere su ciò che accade. Sei un povero ragazzo,
Diofaus.”.

Poi tace come stremato e si inginocchia a far passare
i fili. Mai mi aveva parlato così, mai avevo sentito il suo dolore
così nitido. Ho visto nelle sue parole la lama che uso nella mia
pelle. Ho sentito le ferite – il costato, i polsi, il dorso dei piedi –
dolermi insieme, una vertigine dove le cicatrici s’aprono.

Avrei
voluto carezzargli i capelli, e dirgli quello che la notte facevo,
quello che succedeva quando la lama entrava nella carne, ma
non avrebbe compreso o non del tutto. Io ero il cortocircuito
che lui cerca di aggiustare. Io sono il grano malato che esce
dalla mia pelle. Le mie ferite sono un segno della mia sterilità.
Io sono diventato un tempio falso, non mi sposerò né avrò figli
in questo luogo, perché il Diofuas ha detto così dei bimbi, maschi
e femmine, di queste colline, delle madri che li partoriscono e
dei padri che fecondano i ventri di donna: “Moriranno di malattie
mortali, non saranno compianti né sepolti, saranno letame
sulla superficie del terreno; i loro cadaveri saranno cibo
per gli uccelli del cielo e per le bestie della terra”.[2] Così
è stato per Patrick, e la mia carne infetta e gonfia di chicchi
nulla può se non consumarsi come una roggia senz’acqua.

*

Ora che ho fatto del mio corpo nullità, sono come
coloro che credono a un Dio Falso. Patrick è morto
le mie cicatrici hanno smesso di spurgare manna.
Nutro la mia vergogna e mi sono fatto vergogna.
Quando la sera mi corico, la mia pelle sente la rugosa
consistenza della mia vergogna. Mi sdraio su di essa.
aspettando la mezzanotte e la sua desolazione in sogno.

Infine penso a mio padre e piango. Lui alla mattina
mi vede e non capisce. Esce per andare al suo lavoro
a me non rimane che la sua ombra lunga sulla collina.

*

[1] Più volte nel corso dei capitoli di Geremia troviamo la allocuzione “falsi dei”, “dio falso” che riguardano il culto da parte delle popolazioni di Israele agli dei babilonesi o di altre tradizioni. Il culto e la ritualità di questi falsi dei vengono duramente maledetti da Jwhw che parla di vergogna e di nullità.

[2] Ger 16, 1-4

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8 Risposte to “Il Dio falso [1]”

  1. Le Recensioni Di Romina Says:

    toccante…

  2. Valeria Says:

    Spine nel petto, per chi dalla superficie scende.

  3. anna maria bonfiglio Says:

    Mi ha dato i brividi.

  4. menteminima Says:

    Magnifico

  5. Emanuela Says:

    Emoziona, sì, e ricorda che dobbiamo assolverci dai sensi di colpa per ciò che non ci è dato governare e comunque amarci con i nostri limiti umani che non possono rispondere dell’imponderabile.

  6. Manuela Boz Says:

    Mi hai fatto ricordare il racconto ‘Apertura’ ne ‘Il male naturale’ di Giulio Mozzi ma anche il romanzo ‘Il circo dell’arte e del dolore’ di Gudrun Eva Minervudottir. Su Geremia sono impreparata.
    Ciao.

  7. rossana v. Says:

    Splendido. Brividi.

  8. antoniolamalfa Says:

    Acuto e tagliente come la lama di un coltello

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